La scuola è sempre stata al centro del dibattito democratico, dalla fine del fascismo a oggi. Piero Calamandrei ci ha lasciato un testo di riferimento che spesso citiamo quando vogliamo ricordare che non c’è democrazia senza emancipazione attraverso l’educazione. Ma rileggendo il dibattito sulla scuola proprio durante la Costituente (i lavori storici di Remo Fornaca e di Luciano Pazzaglia possono essere una buona introduzione) si vede come anche quel passaggio sia stato un’occasione mancata.
I democristiani riuscirono a compiere una doppia alleanza: con i
liberali-nazionalisti mantennero l’impianto gentiliano dell’infrastruttura
scolastica ancora in vigore, con i comunisti accettarono di creare una serie di
scuole speciali (popolari, convitti della rinascita, per gli orfani, per gli
analfabeti, per “i mutilatini” come si chiamavano allora) che sono state il
modello di tutte le scuole future “per chi non ce la fa”.
Furono escluse le idee di coloro che volevano riformare la scuola
dall’interno, in senso più anticlassista e democratico, ma anche
all’avanguardia dal punto di vista pedagogico. Oggi corriamo lo stesso rischio?
Un’estate educativa
Quest’anno di scuola nella pandemia ci ha fatto capire come sia fragile non
solo l’infrastruttura della scuola ma anche la sua stessa istituzione. L’ultimo
decreto Sostegni e il Piano di ripresa e resilienza sono documenti che dichiarano di
mettere la scuola al centro della cosiddetta ripartenza. È così?
Nel decreto Sostegni, approvato alla fine di marzo 2021, ci sono due
articoli, il 31 e il 32, che riguardano la scuola. Oltre un finanziamento
ulteriore per i dispositivi di sicurezza e per la didattica digitale, ci sono
150 milioni di euro per l’estate “al fine di supportare le istituzioni
scolastiche nella gestione della situazione emergenziale e nello sviluppo di
attività volte a potenziare l’offerta formativa extracurricolare, il recupero
delle competenze di base, il consolidamento delle discipline, la promozione di
attività per il recupero della socialità, della proattività, della vita di
gruppo delle studentesse e degli studenti”.
Infine, è uscita proprio due giorni fa la circolare che spiega modalità e
senso del cosiddetto Piano ponte per la scuola, 510 milioni di euro destinati ad
attività di recupero degli apprendimenti e della socialità, con un
coinvolgimento importante dell’Indire e dell’Invalsi, sul cui ruolo però non è
stato chiarito quasi nulla.
L’idea è che ci sia un’estate educativa, come la definisce un ebook (appena
uscito e scaricabile gratuitamente sul sito di Gessetti colorati) a cura di Raffaello
Iosa e Massimo Nutini, in cui si rafforzi il rapporto tra scuola e territorio,
coinvolgendo tutti coloro che fanno parte della cosiddetta comunità educante,
in special modo il terzo settore: enti, cooperative, associazioni che si
occupano di sociale e di educazione. Questo dovrebbe avvenire attraverso una
coprogettazione fatta da scuole e terzo settore, e attraverso i Patti di
comunità. Cosa sono?
Come viene ricordato dal decreto ministeriale del 26 giugno 2020, sono
liberi accordi “tra istituzioni pubbliche e istituzioni private variamente
operanti sul territorio” che diano “attuazione ai quei princìpi e valori
costituzionali, per i quali tutte le componenti della Repubblica sono impegnate
nell’assicurare la realizzazione dell’istruzione e dell’educazione, e
fortificando l’alleanza educativa, civile e sociale di cui le istituzioni
scolastiche sono interpreti necessari, ma non unici…”. È il principio di sussidiarietà
garantito dalla costituzione italiana, per esempio all’articolo 118.
Quali questioni apre questa prospettiva che sembra essere molto
ravvicinata?
È interessante ascoltare i due interventi di Girolamo De Michele e di Andrea
Morniroli (al minuto 4 e al minuto 28) in questo dibattito organizzato qualche giorno fa da Comune.info. Mostrano due posizioni
differenti, forse opposte. Girolamo De Michele – insegnante in un liceo di Ferrara
e saggista sulle politiche scolastiche, dal suo libro La scuola è di tutti del 2010 fino al
suo ultimo recentissimo e articolato intervento su
Euronomade – è molto critico: “La crisi della scuola non è un passaggio neutro,
è una crisi dovuta a una serie di provvedimenti che hanno privato la scuola
degli strumenti necessari. La scuola è stata mandata in crisi. Ora si dice che
bisogna aprire ai territori, e anche questa sembra una proposta neutra. In
realtà non lo è perché prima di decidersi ad aprirsi ai territori, bisogna
capire qual è la finalità della scuola. Per me è educare intelligenze critiche
in un mondo dove la globalizzazione si manifesta non solo come crisi pandemica,
ma come crisi ecologica e crisi economica permanente, come crisi migratoria;
faccio fatica a pensare che il rapporto con i territori sia il centro della
scuola o ciò di cui la scuola ha bisogno. E anche i territori non sono dei
luoghi neutri: ma sono la società con tutti i conflitti. (…) Coloro a cui non è
importato che la scuola fosse definanziata perché era uno spreco del settore
pubblico, oggi sono favorevoli al rapporto con la scuola perché mirano ai fondi
di quel tesoretto che sarà finanziato a breve. Una parte consistente del terzo
settore individua nella scuola una via per l’uscita dalla propria crisi
pandemica”.
Andrea Morniroli – amministratore della cooperativa sociale Dedalus di
Napoli, coordinatore per la scuola del forum Disuguaglianze diversità e componente del comitato tecnico per il recupero dell’apprendimento voluto
dal ministro Patrizio Bianchi – la pensa all’opposto: “Non vorrei
stare nella dicotomia pubblico buono e privato cattivo. Penso che ci siano
ottime e pessime esperienze in entrambe le parti. Rispetto alla complessità che
abbiamo di fronte, in particolare se si guarda agli alunni e alle alunne
fragili, sempre di più questi fenomeni sono multidimensionali, e a mio giudizio
la scuola deve rimanere assolutamente al centro, ma deve percepire di non
essere sufficiente per farsi carico di questa complessità, e che quindi uno
strumento di integrazione tra pubblico e privato sia fondamentale (…), anche se
chi fa privato sociale come me deve interrogarsi se il proprio ente è una
comunità resiliente o una comunità rendicontante. Ossia se il privato si prende
una funzione pubblica di cui il pubblico non si fa carico”.
La visione di Morniroli assomiglia molto a quella del ministro Bianchi per
come la espone nel suo Nello specchio della scuola, che segue la rapida
evoluzione vissuta da Bianchi, come testimone e protagonista nell’anno della
pandemia in quanto coordinatore del comitato degli esperti al ministero
dell’istruzione. I patti educativi di comunità servono per Bianchi ad “aprire
alla scuola reali spazi di arricchimento formativo e, a un tempo, rendere la
comunità corresponsabile dell’educazione dei giovani, dando piena attuazione
alla legge sull’autonomia”.
Una tradizione virtuosa
Bianchi viene da un’esperienza di assessore alla scuola in Emilia-Romagna,
dov’è stato possibile, anche nel post-terremoto, attivare una vasta rete di
comunità istituzionali, politiche, sindacali, di associazioni, di privato
sociale, proprio perché esiste una tradizione virtuosa. Tra i nomi tutelari di
questa tradizione sono spesso citati quelli di Loris Malaguzzi, l’ispiratore
del Reggio Children, e Bruno Ciari – insegnante, pedagogista, attivista del
Movimento di cooperazione educativa, autore di Le nuove tecniche didattiche (Edizioni
dell’asino 2012) – che riuscì a creare proprio a Certaldo un modello sinergico
tra scuola, società e istituzioni, ricordato e studiato in tutto il mondo
(oggetto anche di un convegno recente).
Il concetto di Ciari oggi più ripreso è quello di “sistema formativo
integrato”, ed è stato un caposaldo di tutta l’educazione democratica
novecentesca (si veda per esempio la lezione di Francesco De Bartolomeis).
È stata la scuola che ha cercato di portare il tempo pieno a tutti, ossia
di portare dentro la scuola quel sistema educativo diffuso che non comprende
solo le materie della mattina, ma tutta l’attività educativa: dallo sport
all’arte, dal gioco al teatro, alla politica intesa come educazione alla
democrazia.
Questo coinvolgimento della società era facilitato dal fatto che in quello
che oggi si chiama territorio ci fosse un grande dinamismo politico. Ciari era
un marxista iscritto al Pci; il Movimento di cooperazione educativa ha avuto un
rapporto solido con i partiti e i movimenti politici; l’Emilia-Romagna come
altre regioni cosiddette rosse è un esempio quasi eccezionale di attivismo di
tutti i corpi sociali.
Oggi il rischio che si corre può essere quello di affidare al terzo settore
il compito di risvegliare una vocazione politica e democratica della scuola
senza considerare che la crisi di impegno politico attraversa tutta la società.
Il terzo settore non può salvare una scuola che da sola non ce la fa. Occorre
piuttosto decidere di investire risorse strategiche sulla scuola in modo
strutturale, cosa che non è prevista nemmeno nel Piano di ripresa e resilienza,
che per esempio dedica molte risorse alle palestre e alla cablatura digitale
degli istituti (per fortuna), ma lascia terribilmente vago e scoperto il nodo
della formazione degli insegnanti.
Questi fondi sono molto importanti. Devono servire non solo a compensare le
povertà educative ma a contrastare le radicate disuguaglianze che la scuola tollera o addirittura
produce. È bene utilizzarli come ponte per una riforma della scuola, più che
come una misura tampone, con un serio investimento sulla formazione degli
insegnanti e sulla prospettiva di avere in modo continuativo a scuola la possibilità di recuperare per tutti. Altrimenti il rischio
è di mancare ancora una volta, e questa volta in maniera più drammatica,
l’appuntamento con una ristrutturazione improcrastinabile: di accontentarsi di
tappare alcune falle, senza considerare come rifare da capo la chiglia di una
nave capace di attraversare le prossime tempeste.
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