«Non un nome, non un volto, ci hanno provato per giorni a farti scomparire
dalle cronache della realtà». Comincia così il messaggio degli attivisti del
centro sociale ’La talpa e l’orologio’ di Imperia con cui salutano il ragazzo
suicida nel Cpr di Corso Brunelleschi di Torino, luogo famigerato di detenzione
e stoccaggio di corpi a perdere, le «vite di scarto» di cui parla Bauman. Si
chiamava Moussa Balde, veniva dalla Guinea, il 29 luglio avrebbe compiuto 23
anni.
E la sua morte pesa come un macigno su tutti noi. Perché era una vittima –
il giovane senza nome, appunto, di cui le cronache si erano occupate quando il 9
maggio era stato aggredito e massacrato di botte da tre energumeni a
Ventimiglia, per il solo fatto che era lì, sulla strada – e invece è stato
trattato da colpevole, imprigionato in un vero e proprio lager sotto la
minaccia dell’espulsione. Segregato quando ancora le ferite del corpo e
dell’anima non si erano rimarginate, abbandonato alla propria disperazione,
offerto al sacrificio da una società che ha perduto se stessa e per questo non
sa più salvare nessuno. Era un uomo, ed è stato trattato come una cosa.
C’è, nella sua morte, il segno di una condanna inespiabile per tutto il
nostro mondo supponente e indecente. Per le autorità (funzionari di polizia,
magistrati, secondini) che ne hanno deciso la detenzione senza interrogarsi
sull’ignominia che compivano. Per gli uomini di governo che dichiarano
pubblicamente, senza pudore, che ci dobbiamo servire dei dittatori perché ci
sono utili a tenere lontani da noi quelli come Moussa.
Per i guru dell’informazione, che vedono, vedono tutto, ma girano la faccia
dall’altra parte perché queste storie non «fanno notizia», e che hanno lasciato
Moussa fluttuare nell’aria senza neppure restituirgli il nome. Per i capi
partito che speculano sulla persecuzione delle vite di scarto per qualche pugno
di voti. Ma anche per tutti i cittadini delle città-limite come Ventimiglia,
dove si convive col dolore del mondo con una sorta di anestesia, che rende
mostruosi i normali, o normali i mostri. E anche per tutti gli smemorati, che
s’indignano per qualche ora ma poi ritornano alla routine quotidiana, perché il
male è troppo grande e noi troppo pochi.
Ci sono stati, nella storia, tempi in cui l’umanità è apparsa perduta,
svuotata del naturale senso di empatia che dovrebbe spingerci al riconoscimento
reciproco. Questo è uno di quelli, in cui le voci che sembrano trovare maggiore
ascolto sono quelle che cancellano le storie altrui, qui come in Palestina, là
come sulla rotta balcanica o le spiagge di Ceuta. Ovunque l’Ombra – come la
definiva un grande della psicanalisi, Carl Gustav Jung -, il negativo che si
sedimenta al fondo dell’anima, sembra sommergere il senso della vita. Della
Storia e delle storie. Moussa oltre ad avere un nome aveva una storia.
Era arrivato in Italia nella primavera del 2017, aveva vissuto a Imperia
dove aveva conseguito la licenza media presso la scuola Boine, al centro
provinciale per l’istruzione degli adulti, poi aveva lavorato per una
cooperativa, aveva trascorso un periodo in Francia ed era ritornato in Italia
dove l’aspettava il destino che l’ha cancellato. Una fotografia lo raffigura
con una T-shirt bianca e la scritta in rosso «Imperia antirazzista».
Sta a noi fare in modo che quella storia non venga ancora ignorata. E
ripetere con i suoi amici della Talpa: «Tu sei Moussa e non l’hai piegata la
testa di fronte all’ingiustizia. Perdonaci fratello».
Articolo pubblicato sul Manifesto del 25
maggio 2021
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