È ancora una volta l’analisi della logistica e del flusso delle merci a rendere trasparente quello che governi e imprese si affannano a nascondere: il flusso continuo che alimenta le guerre contro i popoli.
Attraverso i
porti italiani ed europei le catene logistiche al servizio della guerra
funzionano a pieno regime, e controlli preventivi semplicemente non vengono
effettuati. Al massimo, come in questi giorni, la pressione dell’opinione
pubblica e le proteste dei lavoratori potrebbero costringere a qualche
chiarimento le autorità, che per ora tacciono.
Ancora una
volta, la catena logistica più “tesa” è quella che porta le armi in Israele. Si
ripete ciò che Sergio Finardi e un gruppo di ricercatori europei descrissero
nel gennaio 2009 e a cui «il manifesto» diede spazio [vedi nel sito di Weapon Watch].
Questa volta la protesta collettiva è partita dai terminal portuali di Genova,
di Livorno, di Napoli, di Ravenna, si è propagata fino ai porti
sudafricani, è sostenuta ora da una delle maggiori
organizzazioni internazionali dei docker.
Ricapitoliamo
quel che oggi non possiamo più ignorare:
- al Genoa Port Terminal il 13
maggio un container con merci pericolose, che nei documenti di
accompagnamento vengono definite “proiettili ad alta precisione”, è
imbarcato con grande cautela su una nave portacontenitori, “Asiatic
Island”, bandiera di Singapore, con destinazione Ashdod (Israele);
- la “Asiatic Island” è inserita
in una linea regolare gestita da ZIM (la maggiore
compagnia navale israeliana e una delle prime quindici al mondo) che, in
direzione est, parte da Marsiglia-Fos, tocca Genova, Livorno, Napoli, e
quindi raggiunge Israele. Preavvisati da Genova, i portuali di Livorno
accolgono la nave in arrivo a mezzogiorno del 14 maggio con la
dichiarazione che non avrebbero imbarcato armi e munizioni
utilizzabili contro la popolazione palestinese. Sappiamo che a
Livorno non vi erano merci di questo tipo, ma il comunicato dell’USB
livornese spinge anche i portuali di Napoli allo stesso impegno di non
caricare armi dirette in Israele;
- torniamo per un momento a
ritroso nella rotta della “Asiatic Island” e di un’altra nave, la “Trouper”,
che naviga sotto la bandiera di comodo di Madera, lungo la stessa linea
gestita da ZIM. Ebbene a Genova ci segnalano che movimenti di container
con merci pericolose dello stesso tipo (proiettili di piccolo e grosso
calibro) diretti in Israele sono piuttosto frequenti. Siamo quindi in
presenza di una supply chain “militarizzata”, del tutto
analoga a quella resa celebre dalle navi saudite della compagnia Bahri,
quelle al servizio della guerra in Yemen – altri civili sotto le bombe
fabbricate in USA, UK, Germania, Italia – ma anche occasionalmente in
Libia e in Siria;
- aggiungiamo un’altra tessera al
puzzle: pochi giorni prima, esattamente il 6 maggio scorso, un comunicato
del CALP di Genova, ben documentato ma ignorato dai media, ha rivelato che
la compagnia Ignazio Messina – quella delle navi Jolly e della “Jolly
Nero” che ha demolito la torre piloti a Genova – tra 2017 e 2020 ha
portato da Marsiglia a Jeddah almeno 200 container, di
cui circa la metà con “merci pericolose”, destinati al Ministero della
Difesa e al Ministero della Guardia Nazionale del regno saudita. Tra i
caricatori vi sono alcune delle società leader della possente industria
militare francese: SOFRAME, che fabbrica in Alsazia veicoli
blindati, in particolare i MPCV (Multi-purpose combat vehicle); Nexter,
«leader della difesa terrestre in Francia e in Europa» (così sul suo sito
web), che ha venduto cannoni Caesar e VBCI (véhicules blindés de combat
d’infanterie) e proiettili d’artiglieria (anche prodotti in Italia da
Simmel Difesa) per la guerra yemenita; MBDA, il consorzio
europeo di cui Leonardo è uno dei tre soci e la cui filiale francese è
fornitore diretto nei paesi del Golfo;
- ora guardiamo in avanti, ai
primi giorni di giugno, quando nel porto di Ravenna sono attesi
alcuni container descritti dai documenti di accompagnamento dello
spedizioniere veneziano come “materiale bellico” destinato a
Israele. In un porto come quello ravennate, che serve abitualmente le
merci deperibili e i cargo fuori misura, l’arrivo di container scortati dalla
polizia e rapidamente caricati a bordo è difficile da nascondere e non
molto frequente. Come nei porti tirrenici, i lavoratori dei terminal e i
soci della compagnia hanno preannunciato l’intenzione di no imbarcare quei
carichi sulle due navi portacontenitori – entrambe abilitate
“Hazardous A”, cioè al trasporto esplosivi – che ZIM gestisce sulla
rotta adriatica per Israele, la “Asiatic Liberty” attesa il 3 giugno e di
ritorno il 17 giugno, e la “Harrison” che arriverà il 27 maggio e poi
ancora il 10 giugno.
La vigilanza
e l’azione dei lavoratori organizzati è andata oltre le sigle sindacali. Se a
Genova e Livorno si è mossa l’USB, a Napoli è intervenuto SI Cobas e a Ravenna
sono state le tre sigle di FILT, FIT e Uiltrasporti a preannunciare lo sciopero
selettivo sul materiale bellico.
Non stupisce
che contro la protesta dei lavoratori italiani sia sceso in campo il sindacato
unico e di stato israeliano, Histadrut [sul ruolo di Histadrut vedi l’articolo di Chiara Cruciati e il suo libro con Michele Giorgio] e che allo sciopero selettivo
dichiarato dai portuali italiani si sia opposto per ritorsione il blocco totale
nel porto di Haifa di tutte le merci provenienti dall’Italia.
Tuttavia,
dal nostro punto di vista, ci sembra che qualcosa di profondo stia cambiando
nell’atteggiamento di chi è costretto a lavorare – a produrre e a trasportare –
lungo le catene logistiche della guerra e della violazione dei diritti umani.
Si sta affermando il diritto alla trasparenza, alla circolazione
delle informazioni che riguardano le merci di guerra, le aziende che ne
ricavano profitto, i funzionari che scaricano le proprie responsabilità, gli
intermediari che si arricchiscono mentre minacciano i propri dipendenti di
ritorcere su di loro le proteste collettive.
Il video diffuso da militanti del sindacato francese CGT in occasione del
1° Maggio 2021 chiama al boicottaggio del sindacato israeliano Histadrut,
definito «colonialista e razzista» e pilastro del regime corrotto e
militarizzato di Israele.
Fonte: The Weapon Watch
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