Parlare di “crisi della CGIL” è un po’ come parlare della crisi del PD – il racconto di una criticità eterna, estenuante, che ti costringe a rimestare argomenti triti e antichi. La Cgil, per definizione, è sempre “in crisi” (come il PD): e le diverse manifestazioni di questo malessere endemico – strategiche, programmatiche, di insediamento, di immagine e rapporto con i lavoratori – si riproducono fase dopo fase, in uno smottamento costante e mai definitivo.
Raccontare della crisi della CGIL vuol
dire misurarsi con le colossali trasformazioni negli ultimi 30 anni della
società italiana e del suo capitalismo sempre più asfittico: le privatizzazioni
e lo spezzatino delle eccellenze industriali, il nanismo d’impresa, il decalage
degli investimenti pubblici e privati. Come in ogni grande naufragio, anche
quello della CGIL presenta un elemento oggettivo – la famosa “crisi dei corpi
intermedi”, tipica delle società tardo liberali – e un elemento di
responsabilità soggettiva: l’inadeguatezza di una classe dirigente cresciuta
negli anni d’oro della concertazione e incapace di adeguarsi a scenari mutati.
Inadeguatezza, quindi, non intelligenza
col nemico. Questo punto è essenziale: è sbagliato dare dei “venduti” a questi
dirigenti, non lo sono; si sono trovati ad agire in una fase storica di epocale
sterilizzazione del conflitto, accompagnata da un aumento artificioso del ruolo
“politico” del sindacato, a cui ha fatto seguito una repentina stagione di
disintermediazione; il tutto sullo sfondo di una mutazione potente della
composizione sociale delle classi che dovrebbero rappresentare. La confusione
e la paura hanno prevalso in questa generazione di dirigenti – quella formatasi
nel corso degli anni 90 – incapaci di una lettura sistemica di questi fenomeni
contraddittori. Salvare le strutture, i bilanci, il tesseramento, salvare le
apparenze in termini di rappresentatività formale (il livello di quella reale è
ben noto anche a loro): fare sindacato è diventata un’attività di
sopravvivenza, gioco forza condizionata sempre più dai meccanismi simoniaci
della bilateralità, della gestione dei servizi, dei fondi negoziali. Le risorse
finanziarie che arrivano da questi dispositivi – estranei e nemici di ogni
pratica rivendicativa – sono una droga ottundente che da dipendenza e
paralizza. Nessuna partita importante si può condurre in queste condizioni, si gioca
sempre per lo zero a zero. Salvare la pelle e tirare su la saracinesca ogni
mattina: questa è diventata la priorità in casa CGIL.
L’elezione a segretario di Maurizio
Landini, avvenuta nel gennaio 2019 dopo un congresso fintamente unitario, in
cui lo scontro tra pezzi di apparato trovò una sua mediazione e si risolse
appunto con l’elezione dell’ex metalmeccanico, è stata solo la conferma della
crisi di prospettiva della confederazione. La scelta degli apparati ha
rappresentato il tentativo di cavalcare il residuo appeal mediatico di Landini
per surrogare al drammatico vuoto politico e culturale di una stagione:
l’equivalente della scarica elettrica applicata alle anguille, che certi
pescivendoli napoletani un tempo usavano per offrire un illusione di vitalità
alla merce esposta. L’arrivo di Landini in via del Corso, non ha rappresentato
in alcun modo una svolta o un’uscita dallo stallo, anzi ha accentuato la
tendenza al vivacchiamento spacciato per “tenuta”, alla politica del giorno per
giorno, all’invenzione estemporanea a mezzo intervista, all’impaludamento
unitario che ucciderebbe qualsiasi buona intenzione programmatica.
Che le speranze sinistroidi su Landini
fossero malriposte, lo confermava tutta la sua storia dal 2010 in avanti – che
è stata essenzialmente la storia del percorso di normalizzazione dell’anomalia
Fiom, che pure una funzione aveva avuto nel dibattito pubblico italiano negli
anni dell’offensiva Fiat. Del resto il viatico per avanzare la sua candidatura
a segretario, fu la firma apposta nel 2016 al peggior contratto della storia
dei metalmeccanici, un obbrobrio in cui gli aumenti in paga base risultavano
quasi azzerati; quella firma rappresentò quell’“atto di responsabilità” che
rendeva Landini potabile anche agli occhi dei pezzi di burocrazia che lo
avevano osteggiato negli anni dell’effimero protagonismo Fiom. Della serie: nel
mondo alla rovescia dei vertici CGIL vieni premiato se hai il coraggio di
firmare delle schifezze e rinnegare la storia da cui provieni. Il senso di
responsabilità è il male storico della sinistra italiana.
Oggi il governo Draghi, in questa fase
balordissima di “unità nazionale” , ha bisogno di esibire un qualche revival
concertativo – per completare in santa pace (sociale) l’apparecchiata del
Recovery Fund. Il passaggio dalla disintermediazione ostentata dagli ultimi
governi, a questa nuova visibilità mediatica – tavoli, consultazioni,
conferenze stampa – ha lusingato e confuso ancora di più i gruppi dirigenti
Cgil, persi nell’illusione di essere tornati in qualche modo in pista. Anche a
livello regionale fioccano intese e protocolli di cui, com’è noto, è lastricata
la via dell’inferno.
Correre dietro alle “nuove identità del
lavoro” – iperprecari o riders – inventandosi strumenti di intervento, è
doveroso ma nella situazione attuale non può servire a molto. Il calo delle
tessere dei “produttivi “ è irreversibile – i mutamenti in atto nella vecchia
base industriale saranno, nella fase post Covid, pesantissimi. Sarebbe
necessaria una trasformazione in senso sociale delle Camere del Lavoro, che
dovrebbero ridiventare epicentri di conflitto e organizzazione sui territori,
stravolgendo filtri e prassi ormai ossificati, rimettendo in moto energie e
strutture; provando a investire in progetti vertenziali nel nodo non lavoro/reddito
intorno a cui si giocheranno molte partite del futuro. Ma con quale personale
politico, con che elaborazione? Sono scenari impossibili anche solo da
immaginare , visto che la concezione “proprietaria” dei gruppi dirigenti negli
anni si è ulteriormente incarognita (la “roba” – risorse, sedi, strumenti,
distacchi – appartiene a chi comanda, non ai lavoratori).
Peccato perché nel disastro civile e
antropologico della società italiana, il volume di fuoco di cui dispone la Cgil
è ancora robusto: non tanto per il numero di iscritti (dato ormai poco
indicativo), quanto per la disponibilità gratuita, di migliaia di delegati,
piantati in ogni ambito della produzione e della riproduzione sociale; una
enorme ricchezza che nessuna organizzazione sociale italiana può vantare, che
nessuno coltiva e che continua a stagnare e deperire, nell’assenza di conflitto
e protagonismo. Con un simile patrimonio organizzativo (pensiamo alla presenza
nella sanità pubblica e privata) un’altra CGIL avrebbe potuto esercitare un ruolo
di governo dal basso, nella gestione schizofrenica della crisi pandemica.
Invece non è riuscita a portare a casa neanche qualche soldo in più per gli
“eroi” dell’emergenza. Il basso profilo è diventato una condizione, non una
scelta.
La Cgil ha visto essiccare la sua area di
influenza sociale sui posti di lavoro, soprattutto dentro l’industria – e
soprattutto dopo il 2008. Nel gorgo della crisi generale, paure ed egoismi
hanno prevalso nel corpo centrale di classe; le liste nere si sono moltiplicate
ovunque – Marchionne ne fece addirittura esibito strumento di governance
aziendale. L’impegno sindacale di fabbrica viene oggi considerato rischioso o
non utile; lo slabbramento e lo sfilacciamento delle catene di produzione,
finanche dentro i medesimi perimetri aziendali, ha spezzettato tragicamente le
figure di classe ben oltre la tradizionale distinzione tra impiegati e
produttivi: con un esercito di interinali, stagisti, contratti a termine e
appalti interni, l’iniziativa sindacale la tieni solo se hai un profilo
politico alto, intrepido, in grado di spaventare gli avversari e produrre
egemonia nelle sfere di prossimità in cui operi.
Ovviamente, parlare della crisi della
Cgil, significa parlare della crisi generale dell'”agire sindacale”, delle sue
pratiche, dei suoi obiettivi, soprattutto della sua efficacia dentro un mondo
del lavoro globalizzato e liquido, con milioni di lavoratori che sono fuori da
ogni tutela contrattuale e la giornata lavorativa sociale in piena
destrutturazione. In Italia ormai si è sedimentata da trent’anni un’area di
sindacalismo di base, coraggiosa, orgogliosa, eppure restia a fare un bilancio
della sua storia. Forse perché sarebbe un bilancio complicato e non
lusinghiero. E questo non solo per la nota frammentazione settaria delle sigle,
quanto per un ritardo complessivo, lungo l’arco di questo trentennio, in
termini di crescita, maturazione e influenza di tali aree: la crisi del
confederalismo corre più veloce della capacità di queste forme sindacali di
intercettarne gli esiti; le tessere non rinnovate alla Cgil spesso defluiscono
nel qualunquismo aziendalista, non si trasformano in consenso a sinistra.
Naturalmente non si possono ignorare gli
sforzi neo-confederali dell’USB o l’eroismo del Si Cobas, che nella logistica
ha raggiunto risultati straordinari – e che, bando alle chiacchiere,
rappresenta l’unica novità reale dell’ultimo decennio, in termini di
organizzazione operaia. Ma è necessario interrogarsi sulla limitatezza e la
rigida perimetrazione di questi insediamenti: la logistica è strategica, lo
dicono tutti, ma perchè questo nuovo sindacalismo non riesce a penetrare nei
settori di classe più “tradizionali”? Si rischia la ghettizzazione settoriale
degli insediamenti. La possibilità che il nuovo sindacalismo si “adatti” alla struttura
castale del mercato del lavoro, accontentandosi di presidiare questo o quel
segmento lasciato libero dall’insipienza confederale, anziché puntare alla
ricomposizione di classe. Che significa: tenere insieme quello che
l’organizzazione capitalistica del lavoro divide. Non sarebbe male riprendere
in mano alcune elaborazioni della stagione dell’autorganizzazione, tra il 1987
e i primissimi ani 90, quando la forma dei Comitati di Base veniva ipotizzata
non come matrice di una pletora di neo-sindacati, ma come nuova organizzazione
di massa – aperta e trasversale – del protagonismo operaio, con suggestioni
persino neo-soviettiste. Un’altra epoca, un altro mondo – la storia ha preso
una diversa direzione. Ma solo tenendo aperta la discussione, il ragno della
nostra confusione sarà cavato dal buco in cui ci siamo cacciati.
Stesso discorso per la piccola e residuale
sacca di opposizione interna alla CGIL. Attenzione: parliamo dell’Opposizione
non delle “sinistre sindacali” – che storicamente sono state solo cordate di
poltronisti e buoni a nulla. L’Opposizione CGIL esiste da circa vent’anni e si
è definita in una discontinuità radicale rispetto alla storia del sindacato
confederale post 92, sempre sul filo di lama che divide l’eresia
dall’apostasia. Una presenza urticante, mai alla ricerca dello strapuntino del
”diritto di tribuna”. Tutte le condizioni della fase storica in cui questa
esperienza nacque, sono oggi profondamente mutate, a partire dal terreno di
gioco – la CGIL stessa. Varrebbe la pena anche qui aprire un dibattito
coraggioso su questo impegno duro, snervante, fatto di espulsioni ed
ostracismi, che pure così poco ha sedimentato nel tempo: per capire come
valorizzare quel che resta di questi anni di sforzi e coerenza (anziché
sfibrarsi in microscissioni o fingere continuità, rispetto ad una stagione
ormai chiusa).
All’inizio dicevamo che è sbagliato e
fuorviante parlare di “sindacalisti venduti”, espressioni che generano
polemiche volgari e rischiano di offendere impunemente migliaia di quadri e
delegati onesti e puliti; sono argomenti che non fanno crescere politicamente
il dibattito tra lavoratori e ci condannano ad una eterna pantomima populista
tra “onesti e corrotti” che già tanto male ha fatto alla sinistra. Questo,
però, non ci esime dall’usare un’altra categoria, quella del tradimento: non
come faccenduola morale, ma come grande fenomeno storico, il tradimento di
classe di cui tutte le espressioni organizzate del movimento operaio
europeo si sono macchiate a partire dagli anni 90 (ne parlava Hobsbawm anni fa,
quando furoreggiavano le terze vie). Questa categoria del tradimento ci torna
in mente, leggendo l’esposto “all’illustrissimo sig. Prefetto e all’Ill.imo
sig. Questore” presentato dalla Filt Cgil di Piacenza il 4 febbraio del
2021. In esso si denunciava il fatto che un picchetto sindacale organizzato dal
Si Cobas impediva l’ingresso e l’uscita delle merci ai cancelli del grande
magazzino Tnt Fedex, dov’era in corso una durissima vertenza. Nella sostanza la
dinamica era: driver organizzati dalla CGIL che reclamavano la “libertà del
lavoro” (come un qualsiasi sindacatino giallo) contro il loro colleghi facchini
iscritti maggioritariamente ai Cobas. Si era nel pieno della lotta contro la
chiusura di quell’impianto e il segretario della categoria Cgil più importante
del territorio, chiamava le forze di polizia a rimuovere un picchetto
sindacale.
Naturalmente è andata a finire che la
TNT-Fedex ha portato a compimento lo smantellamento di quel centro di
distribuzione e 300 famiglie sono rimaste per strada. Senza addentrarci nei
meandri di una vertenza complicata – per l’intreccio di appalti e società
coinvolte e per la ridda di accuse e contraccuse tra sindacati – fa impressione
vedere un gruppo dirigente Cgil invocare la polizia contro le iniziative di
sciopero in difesa dei posti di lavoro organizzate da un altro sindacato. Non
una lotta per l’egemonia: ma il più sbrigativo ricorso alla celere. Sarà sulla
base di quell’esposto, oltre che di uno parallelo dell’azienda, che la Procura
di Piacenza avvierà la nota inchiesta [QUI] finita con arresti e
denunce – quella in cui una PM ha candidamente detto in conferenza stampa che i
Cobas non sono un sindacato e che le loro rivendicazioni erano pretestuose
perché in quei magazzini , “acquisiti agli atti le buste paga”, la Procura
giudicava ingiustificati simili eccessi rivendicativi! In questo grumo
collusivo tra strategie aziendali, corporativismo sindacale, intervento
giudiziario e questurino, c’è un crudo e impietoso ritratto d’epoca. Qui non si
tratta di essere “venduti” (nessuno realisticamente pensa questo) quanto di
tradimento storico delle ragioni sociali che difendi: e, di sicuro, tradimento
di ogni statuto o Carta dei valori o di qualsiasi altra documento identitario o
valoriale stia nella storia del sindacato di Giuseppe Di Vittorio; e non è un
fatto morale, è una grave questione maledettamente politica, che racconta molto
della crisi di identità della CGIL.
Un vecchio sindacalista ormai in pensione,
che aveva visto gli anni d’oro del protagonismo consiliare, e le grandi
sconfitte, tra il 1980 e il 1984, ha detto: “l’attività sindacale, in ogni
epoca, anche nei periodi straordinari, è fatta al 90% di tante piccole cose,
microvertenze, tutele individuali, rotture di maroni quotidiani; però nei
decenni passati, tutti, ma proprio tutti quelli che lavoravano in CGIL, erano
convinti di incarnare una qualche verità storica, una marcia di emancipazione
collettiva; ognuno a suo modo – chi pensando alla Costituzione, chi al
socialismo – ma ognuno sentiva di stare dentro questo orizzonte di
emancipazione, dentro una funzione storica, un progresso. Oggi, smarrito
quell’orizzonte collettivo, restano le piccolezze quotidiane della pratica
sindacale e ti trasformi in un impiegato che deve arrivare a sera e chiudere le
sue pratiche.” E questa è oggi la CGIL: un corpaccione sfibrato e disilluso che
non evoca alcuna suggestione né tra i lavoratori né tra i suoi dipendenti; nessun
lavoratore conta più su quell’affiliazione per migliorare la propria
condizione; nessun iscritto conosce le parole d’ordine della Confederazione; al
sindacato ci si rivolge quando le cose cominciano ad andare male e si sente
puzza di esuberi o di chiusure, allora i lavoratori si indirizzano alla
struttura come ad un ufficio parastatale o ai servizi sociali: gli esperti
degli ammortizzatori sociali che dovranno “ammortizzare” gli effetti della
crisi.
C’è una “specificità italiana” nella crisi
dell’agire sindacale? Siamo dentro l’onda lunga di una nemesi storica che ci
condanna in un virtù di un passato glorioso – il partito comunista più forte
dell’occidente e anche il laboratorio rivoluzionario più avanzato nel decennio
68-78? O la nostra crisi è lo specchio fedele di quella che attanaglia l’intero
movimento sindacale in Europa e negli Usa? Una buona domanda da porci, in
questo primo maggio delle piazze vuote.
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