Ha destato un discreto sgomento, almeno nel piccolo
mondo della filosofia, la reazione di Giorgio Agamben alla particolare
situazione sociale e politica nella quale l’emergenza sanitaria, ormai globale,
ha gettato il paese. È probabile che il lettore anche distratto di Agamben
avrebbe potuto anticipare con un certo agio quale sarebbe stata la sua
posizione. Come in uno sketch da avanspettacolo, se ci avessero chiesto di
imitare a bocce ferme un ipotetico Agamben che commenta un’ipotetica quarantena
imposta per decreto avremmo tutti sciorinato un credibile repertorio di stati
d’eccezione, cittadinanze coatte e corpi sottratti alla socialità. Ma la
realtà, si sa, si diverte sempre a umiliare l’immaginazione e allora il vero
Giorgio Agamben non solo ha confermato tutto il suo repertorio, ma si è spinto
a battibeccare con le sacrosante critiche piovuto un po’ da ogni dove (la
nuvola più alta è senz’altro quella di Nancy, mentre la più volgare ha la firma
di Flores d’Arcais).
L’ultimo post del suo blog, pubblicato in data 17
marzo e ineffabilmente intitolato Chiarimenti (ineffabilmente
perché anziché chiarire si limita a ribadire), contiene a mio modo di vedere la
più grossolana tra le sviste del più tradotto filosofo italiano vivente.
«È evidente» scrive Agamben «che gli italiani sono disposti a sacrificare
praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il
lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche
al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è
qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa».
C’è una capziosa viziosità nel ragionamento di
Agamben, che non tiene conto di come, ad esempio, il sacrificio di
«praticamente tutto» sia fatto non semplicemente per salvaguardare la propria
vita, ma specialmente per proteggere quella degli altri. Ma non è questo il
punto. Il punto è piuttosto la profonda e lacerante solidarietà che una certa
corrente di pensiero, autonomo e libertario, ha finito per mostrare con le
tendenze più estreme, e violente, del liberismo economico. Perché quella «nuda
vita» che secondo Agamben dovremmo essere capaci di disprezzare – traduzione
tendenziosa e retorica del benjaminiano «bloße Leben», più prosaicamente
rendibile con «mera vita» – non è altro che il benessere minimo del nostro
corpo, base essenziale e irrinunciabile sulla quale si edifica quella comune
umanità che sola, universalizzata, può essere fonte dell’eguaglianza tra gli
uomini. D’atro canto, il «praticamente tutto» che agli occhi di Agamben,
colpevolmente, l’Italia sacrifica sull’altare della vita corrisponde –
probabilmente con una gaffe non voluta – ai «rapporti sociali», che Agamben
dovrebbe ben saper essere sempre storici e vigenti.
Vengono allora in mente i balli pubblici fatti dai
sostenitori di Bolsonaro quando hanno dato manforte al loro presidente per
denunciare il complotto internazionale sulla pandemia, oppure le prime
posizioni assunte dai più volubili Trump e Boris Johnson, che hanno pensato di
salvare la produzione economica – sì, esatto, «i rapporti sociali» –
sull’altare della vita e del benessere pubblico, vale a dire sull’altare della
comune umanità, lasciando indietro i deboli esclusi dalla comunità dei liberi.
Lette in questo contesto, le parole di Agamben assumono un significato
decisamente più comprensibile. Sarebbe un errore intenderle come frutto di una
radicalizzazione, magari lodevole ma a oggi sconveniente, di un principio di
libertà individuale. Corrispondono piuttosto a una difesa di quel «praticamente
tutto» che non intende sacrificare: la propria posizione all’interno dei
rapporti sociali vigenti come individuo proprietario, come persona sociale che
gode di affetti e di tutto ciò che la società mette a sua disposizione. Questo
individuo proprietario, la cui individuale umanità è pienamente realizzata, non
è disposto a sacrificare la propria posizione per la difesa della vita, vale a
dire ciò su cui solo può essere edificata e realizzata quella comune e
universale.
Mi è capitato di leggere parole di sconforto di fronte
alle esternazioni di Agmaben. Già la filosofia naviga in pessime acque, si
dice, se in più facciamo questo genere di figure, è difficile rivendicare una
posizione nel dibattito pubblico. Capisco, ma di nuovo, non credo sia questo
punto. Quello che stiamo vivendo in relazione alla pandemia di coronavirus (a
proposito, Agamben da che mi risulta è l’unico a chiamarlo «il virus corona»,
come fosse in nome proprio) non è quasi nemmeno il tempo della scienza. È
piuttosto il tempo della pratica, della tecnica della medicina d’assalto che
prova a mettere una pezza a un mondo che sembra essersi rotto male. E questo è
un fatto di cui la filosofia deve prendere atto. Viene comodo in proposito
chiamare in causa Hegel, o meglio l’atteggiamento che Johann Friedrich Herbart,
per altri versi suo nemico, riconosceva in Hegel lodandone la peculiare forma
di empirismo: l’umiltà di accogliere i dati del dibattito scientifico per
quello che erano, senza la pretesa di insegnare alla scienza il suo mestiere.
Per ragioni che sfuggono alle sue intenzioni, Agamben
ha fatto un buon servizio al pensiero filosofico. La crisi sanitaria che stiamo
vivendo mostra nettamente una tendenza chiarificatrice, che è quella di
estremizzare e rendere visibili le storture sociali. Mentre io lavoro in mondo
smart dal salotto di casa, miei coetanei rischiano il contagio, costretti a
lavorare spesso per pochi soldi. Le distinzioni sociali diventano evidenti,
chiare e plastiche. E così lo diventano anche le tendenze sottese ai pensieri
che le interpretano. Evidenza che forse mancava poco più di un anno fa quando,
sempre sul suo blog ospitato dalla casa editrice Quodlibet, Giorgio Agamben
prendeva le distanze dalla petizione pubblica in favore della legge sullo ius
soli. «La patria», scriveva citando Francesco Nappo, «sarà quando tutti saremo
stranieri», cioè quando saremo tutti sottratti a uno ius e non sottomessi a
esso. Ma lo ius di cui si parlava in quel caso, e oggi lo si vede chiaramente,
non era un’arma di aggressione, ma uno strumento di protezione della libertà e
dei diritti di donne e uomini che ne erano privati.
Di fronte a una crisi umana e sanitaria come quella
che stiamo vivendo la filosofia può allora conservare un compito. E questo
compito è quello di assumere i dati che le arrivano e contribuire a fare
chiarezza. Richiamando ancora Hegel, è la nottola di Minerva che deve farle da
guida. A modo loro, anche le parole di Agamben hanno contribuito a fare
chiarezza. Nella loro fossilizzazione su schemi di pensiero consolidati, sono
state in grado di mostrare i limiti dei quali soffre, oggi, una corrente di
pensiero che dalla seconda metà degli anni Settanta ha preteso di porre al
centro del proprio progetto l’autonomia dell’individuo, assolutizzandolo.
Appare chiaro, oggi, che il diritto e i decreti, e con essi lo stato, non sono
per forza una limitazione della libertà individuale. A volte, come in questo
momento, possono essere strumento di protezione e realizzazione della sua
libertà. A patto, certo, di avere come obiettivo non un’astratta idea della
propria individuale libertà di proprietario, ma la diffusione dell’uguaglianza
tra gli uomini come universalizzazione della comune umanità.
Nessun commento:
Posta un commento