Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2008 sul numero 768 di Internazionale.
L’8 aprile è la Giornata internazionale di rom, sinti e camminanti,
istituita dalle Nazioni Unite per celebrare la cultura rom e tenere alta
l’attenzione sui problemi e le discriminazioni che la popolazione subisce.
Mio padre
non voleva che scrivessi questo articolo. “Devi stare attenta. Altrimenti ti
sfonderanno la finestra con un mattone”. Nel quartiere operaio di Peterborough,
nel Cambridgeshire, dove è cresciuto tra gli anni venti e trenta, non era
consigliabile dire in giro che avevi sangue rom nelle vene, per quanto alla
lontana.
A quel tempo
mio padre e la sua famiglia non potevano immaginare gli orrori che sarebbero
stati commessi di lì a poco contro i rom e i sinti in Europa durante il
nazismo. Ma sapevano molto bene cos’era il pregiudizio, anche all’interno della
loro stessa famiglia. “Quando facevo i capricci mia madre mi picchiava”, mi
raccontò una volta una zia. “Mi diceva sempre: ‘Caccerò la zingara che c’è in
te a forza di botte, figlia mia’”.
Quando mio
padre mi parlò per la prima volta delle nostre origini rom, mi chiese di non
dirlo ai vicini né ai compagni di scuola, alimentando così la mia morbosa curiosità
per quella che, in fondo, era solo una piccola parte della nostra storia
familiare. Eppure mio padre non riesce ancora a credere che se la Germania
avesse invaso la Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale, lui e la sua
famiglia sarebbero finiti nelle camere a gas insieme agli ebrei inglesi.
E sarebbe
successo nonostante la nostra famiglia vivesse in Gran Bretagna dalla fine
dell’ottocento. Come molti rom inglesi, i miei antenati capirono che i lavori
tradizionali – vendere cavalli, fare i braccianti e così via – stavano
tramontando a causa della crescente meccanizzazione dell’agricoltura. All’epoca
qualsiasi osservatore della società avrebbe detto che la cultura romanì inglese
si sarebbe rapidamente integrata con quella della maggioranza della popolazione.
“Ci stiamo estinguendo”, mi disse nel 1993 un signore rom alla fiera equina di
Barnet. “Finirà tutto”. Invece sembra che stia succedendo il contrario. In
Europa, le persone di etnia rom e sinti oggi sono quasi dieci milioni e sono la
minoranza etnica con il maggior tasso di crescita demografica del continente.
La
maggioranza di questa enorme e variegata popolazione vive in condizioni
economiche spaventose
In Gran
Bretagna la causa dei rom e dei sinti è difesa da un gruppo sempre più visibile
e rumoroso di intellettuali, tra cui il poeta David Morley, il giornalista Jake
Bowers e il narratore e drammaturgo Richard Rai O’Neill. Ci sono anche artisti
come Delaine e Damien Le Bas, che hanno esposto le loro opere nel primo
padiglione dedicato all’arte rom alla Biennale di Venezia del 2007.
In Europa
oggi ci sono quotidiani, radio e televisioni rom, e una deputata rom, Lívia
Járóka, del partito ungherese di centrodestra Fidesz.
Tuttavia,
malgrado la politicizzazione e la crescente consapevolezza culturale di molti
gruppi rom, la maggioranza di questa enorme e variegata popolazione vive in
condizioni economiche spaventose. Si calcola che in Europa l’84 per cento di loro
viva sotto la soglia di povertà. In Gran Bretagna la mancanza di spazi
destinati ai campi nomadi ha portato a scontri con i responsabili della
pianificazione edilizia locale. E così la questione è finita sulle prime pagine
dei giornali.
Comunità storica
La crisi dei campi nomadi in Gran Bretagna risale al 1994, quando il governo di
John Major abolì il Caravan sites act, che obbligava le autorità locali a
mettere a disposizione siti adeguati per i camminanti (la popolazione nomade).
All’epoca i
rom e i nomadi erano stati incoraggiati a comprare la terra e a diventare
stanziali. Molti lo fecero, per poi vedersi negata l’autorizzazione a
parcheggiare le loro roulotte su un terreno di cui erano legittimi proprietari.
Tra le vittime di questo accanimento burocratico c’è Bernadette Reilly di
Brentwood, nell’Essex. Bernadette ricorda quando, insieme alla famiglia, fu
costretta ad accamparsi al lato della strada. “Non facevamo quella che le
persone definirebbero una vita normale, anche se per noi lo era”, racconta con
aria stanca. “Non avevamo acqua, servizi sanitari, elettricità o assistenza
medica a parte il pronto soccorso”. Nel 2007, Bernadette e la sua famiglia
hanno finalmente ricevuto il permesso di vivere per cinque anni nelle loro
roulotte sulla terra di loro proprietà, tra i villaggi di Mountnessing e
Ingatestone. “Almeno adesso abbiamo l’acqua e lo scarico per il bagno, anche se
mancano ancora l’elettricità e la linea telefonica”, dice.
Il consiglio
comunale di Brentwood – sostenuto dal deputato conservatore Eric Pickles, che
abita vicino al campo – ha portato il caso in tribunale e ha ottenuto la revoca
del provvedimento. I camminanti però hanno fatto ricorso e il giudice gli ha
dato ragione, intimando al comune di smettere di sprecare il denaro pubblico.
Pickles non ha voluto rispondere alle mie domande, ma mi ha indirizzata al suo
sito web, dove spiega che è contrario al campo nomadi perché si trova nell’area
verde metropolitana.
Il professor
Thomas Acton dell’università di Greenwhich è il principale docente di studi rom
in Gran Bretagna. Tra le sue attività c’è anche quella di aiutare e dare
consigli ai camminanti come Bernadette Reilly. “Eric Pickles è il responsabile
per i campi nomadi nel governo ombra conservatore, eppure ha negato l’esistenza
di una storica comunità di camminanti a Brentwood. E ha invitato il consiglio
locale a ignorare i suoi obblighi, finché un governo conservatore non li
abolirà del tutto”.
Bernadette e
la sua famiglia vorrebbero godersi la temporanea revoca dello sgombero, ma devono
fare i conti con la perenne minaccia di essere cacciati. Durante la discussione
sul piano regolatore, hanno avuto accesso ad alcune lettere al vetriolo scritte
dai residenti della zona per protestare contro la loro richiesta. “I ragazzi
adesso hanno amici del posto e vanno in discoteca, ma io non li lascerei andare
in giro da soli per la città. È troppo pericoloso”, spiega Reilly. Che effetto
fa avere un deputato vicino di casa che protesta contro di voi? La risposta
della Reilly è secca: “Viviamo nella paura”. Chi si oppone ai campi nomadi è
sempre pronto a criticare i camminanti per il loro atteggiamento diffidente o
di ostilità verso gli estranei, senza capire cosa significa sentirsi
costantemente minacciati. Dopo aver visto le lettere minatorie spedite
all’ufficio del comune, Reilly ha scritto una poesia intitolata Io sono una nomade: “Cresco i miei figli nel modo
migliore/ che conosco./ Sono tutto ciò che ho/ adesso. /Sono educati, gentili,
sono/ la mia delizia./ Ma non sono quello che voi gridate quando/ passate in
macchina di notte”.
Il
mondo gagè (non zingaro) sembra non avere problemi con i
rom finché se ne stanno chiusi in una sorta di recinto folcloristico
La
manifestazione in rosso, bianco e blu organizzata ad agosto dal British
national party (Bnp) a Denby, nel Derbyshire, ha rafforzato il clima di paura
tra i nomadi delle aree rurali. Tra gli ospiti dell’evento dell’estrema destra
c’era anche Petra Edelmannová, presidente del Partito nazionale ceco, un
piccolo movimento della Repubblica Ceca noto soprattutto per la sua aperta
ostilità verso i rom. Edelmannová ha scritto un documento intitolato La soluzione finale al problema degli zingari in terra ceca,
in cui invoca il rimpatrio della popolazione rom ceca in India. Alla fine
Edelmannová non si è presentata alla manifestazione, ma l’invito è sembrato
comunque una scelta un po’ strana per un evento che il Bnp ha spacciato per un
fine settimana di divertimento per le famiglie, con tanto di castelli di gomma.
Quando ho
sollevato il problema di fronte al numero due del Bnp, Simon Darby, lui ha
ammesso che l’espressione “soluzione finale” non era “proprio una scelta
felice”. Poi, però, ha aggiunto: “Laggiù esiste un problema zingari. Ed esiste
un problema simile anche qui da noi”. E quale sarebbe secondo lui la natura del
nostro problema con gli zingari? “Alcune delle comunità nomadi sono qui da
molto tempo. Stanno sempre tra loro e risolvono i loro problemi al loro
interno. Hanno i miei stessi valori. Non ho problemi con loro”. Il “problema”,
secondo Darby, sono i rom stranieri emigrati nel Regno Unito dopo
l’allargamento dell’Unione europea, insieme a un gruppo non meglio definito di
“pseudo-zingari nostrani”.
Il genocidio facilitato
Questa distinzione artificiale usata per giustificare la discriminazione nei
confronti di gruppi diversi di rom e nomadi è frequente. Me ne sono accorta
quando sono stata in Repubblica Ceca, ospite dell’università di Masaryk a Brno.
Le persone mi dicevano che gli zingari che davano problemi non erano “i nostri
zingari” ma quelli slovacchi, molti dei quali si erano trasferiti in terra ceca
per soddisfare la carenza di manodopera nelle fabbriche dopo la seconda guerra
mondiale. Il mondo gagè (non
zingaro) sembra non avere problemi con i rom finché se ne stanno chiusi in una
sorta di recinto folcloristico e non diventano troppo numerosi: cioè, fin
quando non diventano una vera e propria comunità, con esigenze abitative,
aspirazioni e ambizioni educative reali per i loro figli.
L’invito del
Bnp a Petra Edelmannová era significativo: infatti, il modo in cui sono stati
trattati i rom in territorio ceco può servire da esempio nell’Europa di oggi.
In più di un paese europeo le retate contro i rom e i sinti avvenute durante il
nazismo furono facilitate dalle leggi preesistenti. Nell’ex Cecoslovacchia, le
misure restrittive contro gli zingari risalivano al 1927. La legge 117 imponeva
a tutti gli zingari di fornire le impronte digitali e di rendere noti i loro
spostamenti nel paese. I dati raccolti grazie al provvedimento semplificarono
l’internamento dei rom boemi e moravi quando l’esercito occupante tedesco
decise che era arrivato il momento di procedere. Nell’agosto del 1942, con la
scusa della cosiddetta giornata del censimento, i rom e i sinti furono
raggruppati e imprigionati in due campi, quello di Lety in Boemia e quello di
Hodinin in Moravia. Dopo un anno gran parte dei residenti dei due campi fu
mandata ad Auschwitz, dove furono uccisi. Su 6.500 rom presenti in territorio
ceco all’inizio della guerra ne sono sopravvissuti meno di 500. Il processo
cominciato con le impronte digitali nel 1927 finì sedici anni dopo nelle camere
a gas.
Paragonare
l’Olocausto nazista all’attuale situazione dei rom europei può sembrare troppo
allarmistico. Ma anche nel 1927 chiunque avesse annunciato il destino del
territorio ceco negli anni quaranta avrebbe ricevuto lo stesso commento. La
Cecoslovacchia era una democrazia fiorente. Si era liberata dalle catene
dell’impero austroungarico ed era diventata uno dei dieci paesi più sviluppati
del mondo.
Il vero
numero dei rom e dei sinti uccisi dai nazisti non si saprà mai: le stime
ufficiali oscillano tra 250mila e mezzo milione di persone, anche se molti
esperti sostengono che la cifra è più vicina al milione. La cosa certa è che i
rom e i sinti, rispetto agli ebrei, sono stati perseguitati in misura più o
meno uguale (circa l’85 per cento della popolazione) e per gli stessi motivi
razziali. La differenza tra i due genocidi è che, mentre l’Olocausto ebraico è
stato apertamente razzista, i rom e i sinti all’inizio sono stati perseguitati
perché “asociali”: per molti anni i governi tedeschi hanno rifiutato di
riconoscere l’elemento razziale delle persecuzioni naziste.
L’idea che
l’esclusione e la discriminazione ai danni degli zingari abbiano più a che fare
con lo stile di vita che con la razza è riemersa ultimamente in Italia. A
maggio una donna di Ponticelli, vicino a Napoli, ha raccontato che una zingara
aveva tentato di rapire il suo bambino. Che la storia fosse vera o meno non
faceva differenza per gli energumeni scesi in strada armati di spranghe di
ferro e torce, pronti a fare giustizia nei campi nomadi e nelle periferie
degradate.
La risposta
del governo Berlusconi e dei suoi alleati è stata incredibilmente cinica. A
giugno è arrivato l’annuncio che tutti gli zingari, bambini compresi, sarebbero
stati sottoposti a registrazione delle impronte digitali e, cosa significativa,
identificati in base all’etnia, mossa senza precedenti nell’Europa moderna
postbellica. Terry Davis, segretario generale del Consiglio d’Europa, ha
dichiarato che la misura “evoca analogie storiche talmente ovvie che non c’è
neanche bisogno di esplicitarle”.
Perfino
Berlusconi si è dimostrato sensibile allo scandalo internazionale, tanto che la
proposta è stata modificata: tutti i cittadini italiani saranno sottoposti a
registrazione delle impronte digitali entro il 2010.
Dichiarazioni raggelanti
Le autorità italiane hanno dichiarato che l’etnia non figurerà nel censimento
nazionale. L’idea, comunque, è quella di rassicurare l’opinione pubblica
presentando il provvedimento come una misura generale contro l’immigrazione,
più che diretta specificamente ai 150mila rom e sinti del paese.
Tra le tante
dichiarazioni raggelanti rilasciate dai leader politici italiani da quando è
cominciata una serie di aggressioni contro i rom, a maggio, forse la più
spaventosa è quella di Umberto Bossi della Lega nord, ministro del governo
Berlusconi. “La gente fa quello che la classe politica non è capace di fare”.
Evidentemente i politici incoraggiano la “pulizia etnica” e magari sperano
anche di riuscire a metterlo per iscritto.
I rom
italiani, che spesso vivono in condizioni economiche molto difficili, si
sentono giustamente sotto assedio. “Siete venuti a cacciarci o ad aiutarci?”,
ha chiesto Rogi, residente di un piccolo campo appena fuori Roma.
Si rivolgeva
a un gruppo di dieci volontari della Croce rossa, che a luglio si sono
presentati al campo per fare un censimento. I volontari non hanno preso le
impronte digitali a nessuno. Si sono limitati a chiedere ai residenti nome,
età, nazionalità, se erano stati vaccinati e se i figli andavano a scuola, e
poi li hanno fotografati. La Croce rossa insiste che non si è trattato di
un’operazione di polizia, ma di un’iniziativa che permetterà di fornire le tessere
sanitarie ai residenti del campo. “Hanno soprattutto vermi, malattie
gastrointestinali e bronchite”, ha detto un volontario. “Alle autorità possiamo
fornire informazioni anonime, in modo che possano valutare le condizioni
igienico-sanitarie dei campi”. Resta da vedere se l’operazione della Croce
rossa aiuterà gli abitanti dei campi o le autorità che vorrebbero sgomberarli.
Ma certo nessuno può biasimare i nomadi, in gran parte rumeni senza documenti,
per la loro diffidenza nei confronti di persone in uniforme che vogliono
fotografarli e fare un sacco di domande. I loro sospetti hanno radici storiche.
Lo sterminio
durante la seconda guerra mondiale è stato solo il culmine di una serie di
tragiche persecuzioni compiute nei secoli contro i rom europei. Anche se
l’Olocausto rom è ormai un dato di fatto, pochi sanno che per cinque secoli e
mezzo migliaia di loro sono stati comprati e venduti come schiavi nell’Europa
dell’est. Secondo Ian Hancock, autore del libro We are
the romani people, “nel 1500 si poteva comprare un bambino rom per
32 pence. Nel 1800 gli schiavi erano venduti a peso, al prezzo di una moneta
d’oro a libbra”.
Collane e sputi
Durante tutta la loro storia, i rom e i sinti sono sopravvissuti rimanendo il
più possibile nell’ombra. In Polonia, pochi rom sono sopravvissuti al genocidio
nazista nascondendosi nelle foreste. In Boemia e in Moravia alcune famiglie
sono state ospitate e nascoste nei villaggi da famiglie ceche. In genere,
comunque, molti rom o camminanti semplicemente non parlano della loro storia
familiare. Nel 2000, durante un tour letterario in Romania, un amico mi ha
detto: “Qui molti non capiscono la necessità di parlare del fatto di avere
sangue zingaro. Pensano che per vivere tranquilli basta non parlarne”. I rom
che vivono in condizioni terrificanti nei campi alle porte di Roma o Napoli
sarebbero felici di non doversi avventurare all’esterno per vendere ciondoli o
chiedere l’elemosina. Il problema è che se non lo facessero morirebbero di
fame. Chi critica queste pratiche di solito non considera le ragioni economiche
che le impongono.
Un altro
esempio di comunità sotto assedio è quello di Sulukule, a Istanbul, un
insediamento storico occupato da una comunità rom fin dai tempi dell’impero
bizantino e oggi parte del patrimonio dell’Unesco. Le prime tracce di
insediamenti rom a Sulukule risalgono al 1054. Per secoli il luogo è stato
famoso per le sue case di intrattenimento dove i rom suonavano e ballavano di
fronte a visitatori di tutto il mondo. La chiusura forzata di queste case nel 1992 ha
gettato la zona e i suoi residenti in una grave crisi economica. Ancora una
volta la motivazione è stata quella di garantire alloggi più sicuri e igienici.
“Non abbiamo intenzione di sbarazzarci dei rom ma dobbiamo fare qualcosa per
ridurre il degrado del quartiere”, ha detto il presidente del distretto di
Fatih, Mustafa Demir. Le autorità adesso stanno pensando di demolire le piccole
case colorate in cui vivono i rom. Al loro posto costruiranno ville che i
residenti non potranno mai permettersi, neanche con i sussidi che gli sono
stati offerti. Senza casa e senza mezzi di sostentamento, che scelte restano?
Fatti come
questo hanno un effetto devastante sul morale della popolazione rom nel suo
complesso, non solo su chi ne fa direttamente le spese: in fondo, parliamo di
un popolo che ha alle spalle un genocidio e che resta uno dei più poveri ed
emarginati d’Europa. I rom e i sinti in tutto il continente assistono a questi
sviluppi con un senso di angoscia crescente. Per ogni bottiglia incendiaria
gettata in un campo o in una zona occupata, per ogni provvedimento preso dalle
autorità locali per far spostare i rom, ci sono migliaia di piccoli episodi di
ostilità e pregiudizio. Una volta uno zingaro britannico mi ha detto: “Quando
qualcuno esclama: ‘Oh, dev’essere così romantico essere zingaro’, rispondo:
‘Che c’è di romantico a farsi sputare addosso?’”.
I
provvedimenti del governo italiano e dei consigli comunali inglesi (come quello
di Brentwood) fanno aumentare le tensioni tra gli zingari e le popolazioni
locali. Gli immigrati rom in Italia sono lì perché hanno lasciato paesi come la
Romania in cerca di una vita migliore. I residenti di Sulukule dovranno
andarsene quando arriveranno i camion per la demolizione. I camminanti
allontanati dalla terra che hanno comprato nel Cambridgeshire o nell’Essex
dovranno accamparsi al lato della strada o in spazi ricreativi pubblici.
Bernadette Reilly ricorda di aver chiesto a un agente di polizia che stava
facendo sgomberare la sua famiglia: “Dove dovremmo andare?”. “Dove volete”, ha
risposto l’agente, “ma non nel mio quartiere”.
Le comunità
zingare europee possono essere spostate da un quartiere all’altro o da un paese
all’altro, ma non si estingueranno né spariranno come per magia. Finché a
livello europeo non ci sarà la volontà politica di affrontare la povertà e
l’emarginazione in cui spesso vivono, la situazione potrà solo peggiorare. E la
destra continuerà ad accanirsi contro queste minoranze per guadagnare voti.
Quando mio padre ha compiuto ottant’anni, ho ricordato a mia zia quello che mi
aveva detto sui mattoni lanciati contro le finestre. Mi aspettavo che la zia
pensasse, come me, che mio padre si preoccupa sempre troppo. Invece mi ha
risposto: “Ha le sue ragioni, tesoro, non credi?”.
(Traduzione di Francesca Spinelli)
Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2008 sul numero 768 di Internazionale con il
titolo “La paura dei rom”. L’originale era apparso sul Guardian con il titolo “History repeating”.
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