La pandemia legata al covid-19 ha posto innumerevoli, complesse e gravi sfide al sistema sanitario italiano e ha richiesto massicce modifiche che hanno coinvolto tutti i livelli dell’assistenza sanitaria.
In tale
situazione di grave criticità, è stata fortemente evidenziata la necessità
della presa in carico anche degli aspetti psicologici, emotivi e relazionali
sia dei pazienti sia degli operatori sanitari. Per la prima volta nel nostro
paese è stata riconosciuta, anche da ampi settori dell’opinione pubblica,
l’importanza della salute psicologica come parte essenziale della qualità di
vita, in qualsiasi età e in tutte le fasi del ciclo esistenziale. Sta finalmente
emergendo la necessità dell’unitarietà dei percorsi di cura, che non devono
essere più centrati esclusivamente sulla malattia, ma sulla persona, con i suoi
bisogni soggettivi, il suo vissuto emotivo, le sue relazioni.
Il mio
vertice osservativo è particolare, in quanto responsabile dell’Unità Operativa
di Psicologia Clinica dell’Azienda Ospedaliera che include il Cotugno di Napoli
(uno dei 3 ospedali infettivologici in Italia, insieme al Sacco di Milano e
allo Spallanzani a Roma), divenuto Covid Center, con circa 200 posti letto
dedicati.
Alcune delle
gravi specificità imposte dal covid hanno immediate ripercussioni sul piano
psicologico. Mi soffermo su due aspetti che rendono la situazione
particolarmente critica. Il primo è rappresentato dalle necessità
infettivologiche di contrasto alla diffusione del contagio, giustamente
predominanti. Come è noto, impongono un isolamento assoluto, comportante uno
stress ulteriore per i ricoverati, essendo opposte ai loro bisogni emotivi.
Infatti, contrariamente a quanto di consueto avviene in un ricovero
ospedaliero:
- Essi non vedono in viso gli
operatori sanitari;
- Sono separati dai familiari e
non hanno visite;
- Possono percepirsi come
"colpevoli" o "untori" durante l’isolamento.
- Possono produrre fantasie catastrofiche
attivate dal virus sconosciuto.
Ma vi è una
seconda drammatica specificità: quasi sempre si ammalano più persone della
stessa famiglia. Noi psicologi diciamo che ogni malattia importante è sempre
una malattia “familiare”: sia perché investe i parenti che a loro volta vivono
una condizione di forte stress, sia perché essi sono sempre la risorsa più
importante. Quindi proviamo a prenderci cura di tutto il sistema familiare, con
questo duplice orientamento. Ma, in questo caso, si ammalano davvero interi
nuclei familiari, genitori e figli, coniugi, fratelli e sorelle. Questo, fra i
tanti aspetti, è forse il più significativo dal punto di vista psicologico,
unendo il timore per la propria salute con quella dei familiari.
Infatti, i
pazienti ricoverati ci hanno raccontato spesso che, più che l’isolamento in sé,
separati anche dagli operatori sanitari, ciò che li tormentava fosse il
distacco dai familiari, sapendo che alcuni di essi erano a loro volta ammalati.
Con il miglioramento delle condizioni cliniche subentra l’impotenza per
l’impossibilità di essere d’aiuto alle persone che ami, con il desiderio di
dare sostegno, mentre invece si è costretti a essere separati. Perfino il rito
del funerale, soprattutto nei primi mesi dello scorso anno, in molti casi fu
vietato o fortemente limitato. Tra l’altro, non incontrare i familiari è
esattamente l’opposto di ciò che suggerisce la psicologia ospedaliera, eppure è
assolutamente inevitabile nel rispetto del distanziamento.
Un aspetto
specifico del mio lavoro, marginale in termini quantitativi ma di rilievo dal
punto di vista culturale e clinico, concerne l’assistenza psicologica a coloro
che hanno perso un congiunto per covid.
L’argomento
della morte come tappa naturale riveste una centralità assoluta, eppure
difficile da affrontare. L’espulsione di questo tema nella società occidentale
è un dato di fatto. Le cause di tale disattenzione sono complesse e hanno
ragioni di origine religiosa, filosofica, economica, sociale. La rimozione,
secondo alcuni, riguarderebbe finanche la psicologia. Infatti, Irvin D. Yalom (Psicoterapia esistenziale, Neri Pozza 2019) crede che l’angoscia legata alla
morte, propria e dei propri cari, sia uno dei temi fondamentali nella vita di
tutti, fondante del nostro mondo psichico, sottovalutato o negato dagli
psicologi, a partire da Freud.
L’assistenza
psicologica nelle fasi di lutto è un lavoro complesso richiedente solida preparazione
ma soprattutto un impegno emotivo non da poco. Si tratta di un’attività che
dovrebbe essere valorizzata, per la funzione importante che svolge. Agli
psicoterapeuti capita sovente di ascoltare pazienti che, a loro avviso, fanno
risalire l’origine delle proprie difficoltà, tempo addietro, alla morte di un
familiare importante. A distanza di anni, in seduta tentano di trovare un senso
a quanto accaduto.
Recentemente
in tutt’Italia sono nate iniziative importanti, a volte attivate dagli stessi
familiari e i social media hanno favorito la realizzazione di gruppi di
auto-aiuto e di sostegno psicologico. Tuttavia, non è ancora diffusa la
necessità di questo tipo di intervento, anche se ovviamente va detto che tra
quanti subiscono un lutto non tutti fanno richiesta di assistenza psicologica.
Il tema non
riguarda la sola psicologia, ma è innanzitutto etico e culturale. Etico perché
è un dovere della collettività essere vicino a queste persone (ad oggi 118.000
morti in Italia), così come alle famiglie con bambini oncologici o con deficit
psichici. Se l’uomo, di fronte a una tragedia così immane, non è capace di
riscatto, non ci sarà alcun progresso. Se le calamità esaltano soltanto gli
egoismi, i difetti, il bisogno di accaparramento, inevitabilmente ci attendono
tempi tristi. Ci sarà progresso collettivo solo se i tanti dolori personali a
cui assistiamo ci aiuteranno a sviluppare solidarietà e rispetto. Il secondo
aspetto è culturale: bisogna smettere di eliminare finanche il pensiero della
morte dalla nostra società. Occorre dare risalto al tema del lutto, per quanto
doloroso e difficile. Ciò servirà a formare operatori capaci di aiutare chi
affronta questa tappa, ma soprattutto può contribuire a sviluppare una
consapevolezza collettiva. La morte non si sconfigge cercando di ignorarne
l’esistenza. Dare dignità al dolore è un compito etico, prima ancora che
professionale, per tutta la collettività.
Gli
psicologi, ovviamente, non hanno il potere di evitare la sofferenza alle
persone, ma possono aiutare a dare un senso ad essa.
Questo
argomento apre all’altro tema che mi sta a cuore: come convivere con la
malattia organica.
Essa è
considerata, nei modelli del ciclo di vita, un evento critico con importanti
conseguenze psicologiche individuali e familiari. Tuttavia, come ogni evento
critico, anche la malattia, oltre al suo carico di sofferenza, dolore,
preoccupazioni, può contenere elementi favorenti la crescita personale.
Me lo fece
notare, per la prima volta, ormai oltre 25 anni fa, un paziente sieropositivo.
Era stato un tossicodipendente “duro”. Non aveva risolto la sua dipendenza,
nonostante percorsi in comunità, carcere e terapie farmacologiche. La scoperta
di essere affetto dall’Aids fu invece la molla che provocò un cambiamento
radicale. “Io sono diventato una persona migliore”, mi raccontò in seduta, “la
malattia mi ha cambiato in meglio. La scoperta di non aver tanto tempo mi ha
fatto venir voglia di essere un padre migliore, di recuperare tutto il tempo
perduto con i miei figli, di dedicarmi alle persone che per tanti anni mi sono
state vicine, nonostante non lo meritassi”. Quest’uomo, di modesta estrazione
culturale, era straordinariamente lucido nel descrivere in modo chiaro il suo
percorso di cambiamento. Non ho dimenticato le sue parole.
È un’osservazione
condivisibile da chiunque lavori in ambito sanitario: le reazioni individuali
alla malattia possono variare molto da persona a persona. È indubbio che le più
frequenti siano di tristezza, rabbia, depressione, ansia, isolamento. Si tratta
di una iattura, una disgrazia, talvolta una tragedia. Ciò non va mai
dimenticato e vanno evitate banalizzazioni poco rispettose ma è altrettanto
certo si può reagire all’esperienza di malattia in modo diverso.
È infatti
innegabile come per alcuni, certamente una minoranza, ma non tanto rara come si
potrebbe pensare, il contatto con la sofferenza, dopo una fase di accettazione,
abbia un potere trasformativo. Si riesce a convivere con la malattia senza
peggiorare la qualità della vita. In taluni casi, le relazioni diventano
persino più ricche, profonde e significative. Chi ha descritto in modo
magistrale questo processo è Severino Cesari nel libro Con molta cura,
edito nel 2017 da Rizzoli.
Ciò che tale
dolorosa esperienza consente è, in pratica, una corretta ricollocazione delle
proprie priorità esistenziali, mettendo al primo posto ciò che davvero conta:
gli affetti. La possibilità di realizzare tale processo dipende innanzitutto
dalle risorse personali e familiari.
A me, però,
interessa il ruolo degli operatori sanitari. Come possano sviluppare capacità
per aiutare i pazienti e i loro familiari a convivere al meglio possibile, per
quelle che sono le loro esigenze, con la malattia. Quali competenze devono
possedere medici e psicologi per incidere su queste forti disparità
esistenziali, senza essere spettatori passivi della resilienza altrui? Come
dovrebbero cambiare i modelli formativi universitari? Si può insegnare a
convivere con la malattia, trasmettendo agli altri il senso di profondo
rispetto e cura per la vita?
L’accompagnamento
nell’ultima fase della vita e l’assistenza alle persone in lutto sono quindi
strettamente connessi a questo modo di intendere l’assistenza psicologica e
sanitaria in genere. Le conoscenze scientifiche provenienti dalle discipline
umanistiche indicano la strada per promuovere, accanto ai progressi
tecnologici, una cura medica più globale, più efficace, più vera.
La morte può
aiutarci a ricordare che la vita non è solo evitare la sofferenza, non è
nemmeno la corsa alla felicità, ma è innanzitutto ricerca di senso e
consapevolezza. Sono discorsi complessi e difficili, magari da fare a voce
sommessa, ma occorre che siano affrontati da tutti.
Articolo bellissimo, che affronta con pacatezza aspetti cruciali dell'esistenza. Grazie di cuore della condivisione.
RispondiEliminaquando si nasce molte volte ci sono tante persone intorno (anche troppe, a volte), quando si muore quasi sempre si è soli, purtroppo
Elimina