Questo articolo è uscito il 4 febbraio 2010 sul numero 883 di
Internazionale.
Vi voglio raccontare come e quando ho donato questo pennello sho
giapponese. Me l’aveva dato un amico attore, che era andato in Giappone a
lavorare per qualche tempo con degli attori noh. Me ne servivo spesso per
disegnare. Era fatto di peli di cavallo e di pecora, peli che un tempo erano
cresciuti da una pelle. Forse è per questo che, una volta raccolti in un
pennello dal manico di bambù, trasmettono le sensazioni in modo così vivido.
Quando lo usavo mi sembrava che il pennello e le dita che lo stringevano appena
non sfiorassero un foglio di carta, ma una pelle. L’incomparabile tocco del
pennello!, come lo definì il grande disegnatore Shi Tao.
La storia si svolge in una piscina comunale di un sobborgo popolare e non
chic di Parigi dove, in certi periodi, ero un habitué. Ci andavo tutti i giorni
all’una, quando la maggior parte delle persone era a pranzo e la piscina non
era affollata.
L’edificio, lungo e tozzo, ha pareti di vetro e mattoni. Costruito alla
fine degli anni sessanta e inaugurato nel 1971, è in un piccolo parco con
alcune betulle bianche e qualche salice piangente. Mentre si nuota, si vedono
le cime dei salici dalle vetrate. Il soffitto della piscina è rivestito di
pannelli. Adesso, a distanza di quarant’anni, ne mancano parecchi. Quante
volte, nuotando sul dorso, l’ho notato, cosciente dell’acqua che mi sosteneva
insieme alle storie su cui stavo rimuginando?
C’è un disegno del diciottesimo secolo realizzato da Huang Shen: raffigura
una cicala che canta sul ramo di un salice piangente. Ogni foglia è una singola
pennellata.
Visto dall’esterno è un edificio urbano, non di campagna, e se non si
sapesse che è una piscina e si dimenticassero gli alberi si potrebbe scambiarlo
per una specie di stazione ferroviaria, un capannone per la pulizia delle
carrozze, l’area per il carico e lo scarico merci.
All’ingresso non c’è nessuna scritta, solo un piccolo blasone con i tre
colori del tricolore. Emblema della Repubblica. Le porte d’entrata sono in
vetro con la scritta poussez, dipinta con
uno stencil.
Se si supera una di queste porte ci si ritrova in un altro mondo, che ha
poco a che fare con le strade all’esterno, le macchine parcheggiate o i negozi
lungo la via.
L’aria odora leggermente di cloro. Ogni cosa è illuminata da sotto invece
che da sopra. È a causa della luce riflessa dall’acqua delle due piscine.
L’acustica è nitida: ogni suono ha una lieve eco. Domina ovunque l’orizzontale,
non il verticale. La maggior parte delle persone nuota, da un capo all’altro
della piscina grande, vasca dopo vasca. Chi è in piedi fuori dall’acqua ha appena
finito di spogliarsi o lo sta facendo, perciò rango sociale e gerarchia sono
quasi inavvertibili. Piuttosto si ha ovunque questa sensazione di strana parità
orizzontale.
Ci sono molti cartelli d’avviso, scritti con sintassi e lessico
burocratici.
L’asciugacapelli cesserà di operare cinque minuti
prima dell’orario di chiusura.
Cuffia da bagno obbligatoria, come da decreto comunale
di lunedì, 5 gen 1981.
L’ingresso da questa porta è vietato a chiunque non
sia membro del personale. Grazie.
La voce incarnata in simili annunci è inseparabile dalla strenua lotta
politica sostenuta durante la terza repubblica per il riconoscimento dei
diritti e dei doveri dei cittadini. Una voce impersonale, misurata, da
comitato, alla quale da qualche parte, in lontananza, si accompagna la risata
di un bambino.
Verso il 1945 Fernand Léger dipinse una serie di tele sui plongeurs, tuffatori in piscina. Con i loro colori
primari e le sagome semplici e rilassate, quei dipinti celebravano il dramma e
il progetto di lavoratori che si godono il tempo libero e, proprio perché sono
lavoratori, trasformano il tempo libero in qualcosa che non ha ancora un nome.
Oggi la realizzazione di questo sogno è più remota che mai. Eppure a volte,
mentre sistemo i miei indumenti nell’armadietto metallico nello spogliatoio
degli uomini e mi lego la chiave al polso, mentre faccio la doccia calda
prescritta prima di passare dalla vasca lavapiedi, mentre raggiungo il bordo
della piscina grande e mi ci tuffo, ripenso a quei dipinti.
Oltre alla cuffia da bagno, per lo più i nuotatori indossano occhialini
scuri per proteggersi gli occhi dal cloro. Tra noi il contatto visivo è minimo,
e se per caso un nuotatore sfiora con il piede il piede di un altro nuotatore,
si scusa immediatamente. L’atmosfera non è quella della Costa Azzurra! Qui
ognuno persegue privatamente il suo obiettivo.
La prima volta l’ho notata perché nuotava in modo insolito. I movimenti
delle sue braccia e delle sue gambe erano curiosamente lenti, come quelli di
una rana, ma la sua velocità non ne risentiva troppo. Aveva una relazione
diversa con l’elemento acquatico.
Il maestro cinese Qi Baishi (1864-1957) amava disegnare rane e le
raffigurava con la testa nerissima, tanto che sembrava portassero la cuffia da
bagno. In Estremo Oriente la rana è simbolo di libertà.
La donna indossava una cuffia da bagno rosso zenzero e un costume con
motivo floreale, un po’ tipo chintz inglese. Doveva avere poco meno di
sessant’anni e ho presunto che fosse vietnamita. Più tardi ho scoperto di
essermi sbagliato. È cambogiana.
Ogni giorno nuotava, una vasca dopo l’altra, per quasi un’ora. Io facevo
altrettanto. Quando decideva che era il momento di arrampicarsi su una delle
scalette agli angoli della piscina e uscire dall’acqua, un uomo, che aveva
macinato a sua volta parecchie vasche, veniva a darle una mano. Anche lui era
del sudest asiatico, un po’ più magro di lei, un po’ più basso, con un viso più
segnato del suo, che era tondo come una luna piena.
La raggiungeva da dietro nell’acqua e le metteva le mani sotto le chiappe
sicché lei, rivolta verso il bordo della piscina, ci si sedeva sopra e lui
portava un po’ del suo peso quando insieme si arrampicavano sulla scaletta.
Una volta atterrata sul pavimento, lei si allontanava dal bordo della
piscina, attraversava la vasca lavapiedi e raggiungeva l’entrata dello
spogliatoio delle donne, sola e senza zoppicare in modo visibile. Avendo
osservato un certo numero di volte il loro rituale, mi ero accorto tuttavia
che, quando camminava, il suo corpo era tirato, come teso dall’ansia.
L’uomo dalla faccia segnata e coraggiosa era presumibilmente suo marito.
Non so perché avessi un lieve dubbio. Forse per via della sua deferenza? O del
distacco di lei?
Quando la donna voleva entrare in acqua, lui scendeva di qualche gradino e
lei gli si sedeva su una spalla. Allora lui s’immergeva con prudenza fino a che
l’acqua non gli arrivava oltre i fianchi e lei poteva gettarsi e allontanarsi a
nuoto.
Tutti e due conoscevano a memoria questi rituali d’immersione ed
estrazione, e forse tutti e due riconoscevano che in quel cerimoniale l’acqua
svolgeva un ruolo più importante di ognuno di loro. Il che può forse spiegare
perché, più che una coppia di coniugi, sembravano attori impegnati nello stesso
spettacolo.
Incontri sott’acqua
Il tempo trascorreva. Le giornate si susseguivano sempre uguali. Finché un
giorno, nuotando ciascuno nella propria corsia, ci siamo incrociati. Lei andava
in una direzione, io nell’altra, e per la prima volta – tra di noi non ci sarà
stato più di un paio di metri – abbiamo sollevato la testa e ci siamo fatti un
cenno. E quando, sul punto di lasciare la piscina, ci siamo incrociati
un’ultima volta, ci siamo scambiati un segno di arrivederci.
Come descrivere quel particolare segno? Implica il sollevarsi delle
sopracciglia, uno scuotere la testa come a gettare indietro i capelli, infine
uno strizzare gli occhi nel sorriso. Con molta discrezione. Occhialini spinti
in su sopra la cuffia da bagno.
Un giorno, mentre facevo una doccia calda dopo la nuotata – nello
spogliatoio maschile ci sono otto docce: per aprire l’acqua, visto che non ci
sono rubinetti, si preme un pulsante antiquato, simile al pomello di una porta,
e il trucco è che tra quelle otto la durata del getto d’acqua calda è
variabile, come anche il momento in cui va premuto di nuovo il pulsante, tanto
che ormai sapevo esattamente quale doccia aveva il getto caldo più lungo e, se
era libera, sceglievo quella – un giorno, mentre ero sotto l’acqua, l’uomo del
sudest asiatico è venuto sotto la doccia accanto alla mia e ci siamo stretti la
mano.
Poi, dopo aver scambiato qualche parola, abbiamo convenuto, una volta
vestiti, d’incontrarci all’esterno nel piccolo parco. Ed è quel che abbiamo
fatto. Sua moglie si è unita a noi.
È stato in quell’occasione che ho scoperto che venivano dalla Cambogia. Lei
è una lontana parente della famiglia del famoso re Sihanouk. Era fuggita in
Europa a vent’anni, alla metà degli anni settanta. Prima aveva studiato arte a
Phnom Penh.
Lei parlava e io facevo domande. Ancora una volta ho avuto l’impressione
che il ruolo dell’uomo fosse quello di guardia del corpo o assistente. Eravamo
in piedi vicino alle betulle accanto al loro furgoncino a due posti Citroën C15
parcheggiato. La vettura era molto malandata. Dipinge ancora? ho domandato. Ha
sollevato la mano sinistra nell’aria come a liberare un uccello e ha annuito
col capo. Spesso soffre per il dolore, ha detto lui. E leggo anche molto, ha
aggiunto lei, in khmer e in cinese. Infine lui ha fatto segno che forse per
loro era ora di salire in macchina. Appesa allo specchietto retrovisore sopra
il parabrezza ho notato una minuscola ruota del dharma buddista, simile al
timone di una nave in miniatura.
Quando si sono allontanati, mi sono sdraiato sull’erba – era maggio – sotto
i salici piangenti, e mi sono ritrovato a pensare al dolore. Aveva lasciato la
Cambogia l’anno che Sihanouk era stato estromesso con il probabile aiuto della
Cia e quando i Khmer rossi, capeggiati da Pol Pot, avevano messo le mani sulla
capitale e stavano avviando la deportazione forzata dei suoi due milioni di
abitanti nelle campagne, dove avrebbero vissuto in comunità senza alcuna
proprietà individuale. Dovevano imparare a diventare khmer nuovi! Un milione di
loro non sopravvisse. Negli anni precedenti Phnom Penh e i villaggi circostanti
erano stati bombardati sistematicamente dai B-52 degli Stati Uniti. Morirono
almeno centomila persone.
Il popolo khmer, con il glorioso passato di Angkor Wat e le sue enormi e
intatte statue di pietra, che più tardi furono infrante e devastate da qualcosa
che oggi abbiamo imparato a riconoscere come dolore, il popolo khmer era,
quando lei lasciò il paese, circondato da nemici – vietnamiti, laotiani,
tailandesi – e stava per essere tiranneggiato e massacrato dai suoi stessi
visionari politici, che si erano trasformati in fanatici per infliggere una
vendetta alla realtà stessa, per ridurre la realtà a un’unica dimensione. Una
riduzione simile porta con sé tante sofferenze quante sono le cellule del
cuore.
Contemplando i salici, ne osservavo le foglie trascinate nel vento. Ogni
foglia una minuscola pennellata. Impossibile separare il dolore che il suo
corpo pareva aver ereditato dal dolore della storia del suo paese durante
l’ultimo mezzo secolo.
Oggi la Cambogia è il paese più povero del sudest asiatico e il 75 per
cento delle merci che esporta è prodotto in piccole aziende che sfruttano la
manodopera confezionando capi di abbigliamento per le multinazionali
occidentali che trafficano in stracci di marca.
Un gruppo di bambini di quattro anni mi è passato rapidamente accanto,
correndo su per le scale e attraverso la porta a vetri. Andavano alla loro
lezione di nuoto.
Quando l’ho rivista in piscina con il marito, ho aspettato che finisse una
vasca, poi mi sono avvicinato e le ho chiesto se poteva dirmi cosa fosse a
causare il suo dolore. Mi ha risposto senza esitazioni, come se pronunciasse il
nome di un luogo: poliartrite. Mi è venuta da giovane, quando ho saputo che
dovevo andarmene. È gentile a domandarmelo.
La metà sinistra della sua fronte è leggermente più bruna del resto, come
se, caduta da un ramo, una foglia si fosse posata sulla pelle in quel punto e
l’avesse lievemente scurita. Quando la sua testa proiettata all’indietro
galleggia nell’acqua e il suo viso somiglia a una luna piena, questa piccola
chiazza ricorda uno dei cosiddetti mari sulla superficie lunare.
Ce ne stavamo tutti e due a galla e lei mi ha sorriso. Quando sono in
acqua, mi ha detto, peso meno e dopo un po’ le giunture smettono di farmi male.
Ho fatto un cenno col capo. Poi abbiamo continuato a nuotare. Quando
nuotava a pancia sotto, come ho detto, muoveva gambe e braccia lentamente, come
a volte fanno le rane. Sul dorso nuotava come una lontra.
La Cambogia ha una relazione osmotica con l’acqua dolce. In lingua khmer,
patria si dice teuk-dey, terra-acqua. Incorniciata
dalle montagne, la piatta, orizzontale pianura alluvionale cambogiana – grande
circa come un quarto del territorio francese – è attraversata da sei fiumi, tra
cui il vasto Mekong. Durante e dopo le piogge monsoniche estive la portata di
questo fiume si moltiplica per cinquanta! E a Phnom Penh, alla testa del suo
delta, il livello del fiume cresce sistematicamente di otto metri. Nel
frattempo, a nord, il lago di Tonlé Sap straripa ogni estate superando di
cinque volte la “normale” dimensione invernale e trasformandosi in un immenso
bacino, mentre il fiume Tonlé Sap gira su se stesso e comincia a scorrere al
contrario, sicché il suo a valle diventa a monte.
Non sorprende che questa pianura abbia offerto la pesca d’acqua dolce più
varia e abbondante della Terra, e che per secoli i suoi contadini siano vissuti
del riso e del pesce di queste acque.
È stato quel giorno, mentre nuotavamo nella piscina comunale all’ora di
pranzo, dopo averle sentito pronunciare la parola poliartrite come se fosse il
nome di un luogo, che ho pensato di darle il mio pennello sho.
Quella sera stessa l’ho messo in una scatola e ho fatto un pacchetto. Ogni
volta che andavo in piscina lo portavo con me, finché non sono ricomparsi.
Allora ho sistemato la piccola scatola su una delle panche alle spalle dei
trampolini e l’ho detto al marito in modo che la prendesse prima di rientrare a
casa. Me ne sono andato prima di loro.
Sono trascorsi mesi senza che li vedessi, perché ero via. Tornato in
piscina, li ho cercati, ma non li ho visti. Ho indossato gli occhialini, mi
sono tuffato. Numerosi bambini si stavano tuffando di piedi, tenendosi il naso.
Altri, sul bordo, si stavano infilando le pinne. Il rumore e l’animazione erano
più intensi del solito perché ormai era luglio, la scuola era finita, e i
bambini delle famiglie che non potevano permettersi di lasciare Parigi venivano
a giocare per ore nell’acqua. Per loro c’era uno speciale biglietto d’entrata
dal costo minimo e gli istruttori di nuoto responsabili della vigilanza
mantenevano una disciplina tollerante. Non mancava neppure qualche
frequentatore abituale, fedele alla sua routine e ai suoi obiettivi personali.
Avevo fatto circa venti vasche e stavo per cominciarne un’altra quando –
con mia grande sorpresa – ho sentito che da dietro qualcuno mi metteva
saldamente una mano sulla spalla destra. Ho girato la testa e ho visto la
faccia rotonda e macchiata della studentessa d’arte di Phnom Penh d’un tempo.
Indossava la stessa cuffia da bagno color zenzero e sorrideva, un largo
sorriso.
Allora è qui!
Annuisce e mentre ci teniamo a galla in posizione verticale mi si avvicina
e mi bacia due volte su entrambe le guance.
Poi domanda: uccello o fiore?
Uccello!
Posa la testa all’indietro sull’acqua e ride. Come vorrei che sentiste la
sua risata. A confronto degli spruzzi e delle grida dei bambini che abbiamo
intorno, è quieta, lenta e persistente. La sua faccia è più tonda che mai,
lunare e senza tempo. La risata di questa donna, che tra non molto avrà
sessant’anni, continua. È inspiegabilmente la risata di un bambino, lo stesso
che ho immaginato stesse ridendo da qualche parte alle spalle delle voci
impersonali degli avvisi.
Pochi giorni dopo suo marito viene verso di me nuotando, si informa sulla
mia salute, e sussurra: sulla panca accanto ai trampolini. Poi escono dalla
piscina. Lui la raggiunge da dietro e le mette le mani sotto le chiappe. Lei,
rivolta verso il bordo della vasca, ci si accomoda. Lui sostiene una parte del
suo peso e insieme si arrampicano sulla scaletta ed escono dall’acqua.
Nessuno dei due risponde al mio cenno di saluto come in altre occasioni.
Questione di modestia. Modestia dei gesti. Un regalo non può essere
accompagnato da una richiesta.
Sulla panca c’è una grande busta. La prendo. All’interno c’è un dipinto su
carta di riso. Il dipinto dell’uccello che ho scelto quando mi ha chiesto cosa
volevo. Raffigura un bambù e, appollaiata su uno dei suoi steli, una
cinciarella. Il bambù è disegnato a regola d’arte. Una sola pennellata che
parte dalla sommità dello stelo, si arresta a ogni sezione e, scendendo,
diventa un pochino più ampia. I rami, sottili come fiammiferi, disegnati con la
punta del pennello. Le foglie scure, tratteggiate con un singolo tocco di
pennello, simili a pesci guizzanti. Infine i nodi orizzontali, spennellati da
sinistra a destra, tra ogni sezione del fusto cavo.
L’uccello con la sua cuffia blu, il petto giallo, la coda grigiastra e gli
artigli simili a una W, ai quali in caso di bisogno può appendersi a testa in
giù, è dipinto in modo diverso. Mentre il bambù è liquido, l’uccello sembra
ricamato e i suoi colori applicati con un pennello appuntito come un ago.
Insieme, sulla superficie della carta di riso, bambù e uccello hanno l’eleganza
di un’unica immagine, con il timbro discreto del nome dell’artista apposto
sotto e alla sinistra dell’uccello. Il suo nome è L––.
Eppure, se entri nel disegno e lasci che la sua brezza ti sfiori la nuca,
ti accorgi che questo uccello è senza casa, inspiegabilmente senza casa.
L’ho fissato a un’asticciola come un rotolo di pergamena, senza montatura,
e con grande piacere ho scelto il punto in cui appenderlo. Poi un giorno, vari
mesi dopo, ho avuto la necessità di cercare qualcosa in una delle enciclopedie
illustrate Larousse. Sfogliando le pagine mi è capitato di imbattermi nella
piccola illustrazione di una mésange bleue, una
cinciarella. Sono rimasto perplesso. Aveva un’aria stranamente familiare. Poi
mi sono reso conto che su quell’enciclopedia standard stavo osservando il
modello – le due W degli artigli avevano, per esempio, la stessa angolatura, e
così la testa e il becco – l’esatto modello che L–– aveva utilizzato per
dipingere l’uccello appollaiato sul bambù.
E ancora una volta ho capito un po’ meglio cosa significa non avere casa.
(Traduzione di Maria Nadotti)
Questo articolo è uscito il 4 febbraio 2010 sul numero 883 di
Internazionale. Era stato pubblicato su Harper’s
Magazine.
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