martedì 25 maggio 2021

Il pennello - John Berger

 


Questo articolo è uscito il 4 febbraio 2010 sul numero 883 di Internazionale.

Vi voglio raccontare come e quando ho donato questo pennello sho giapponese. Me l’aveva dato un amico attore, che era andato in Giappone a lavorare per qualche tempo con degli attori noh. Me ne servivo spesso per disegnare. Era fatto di peli di cavallo e di pecora, peli che un tempo erano cresciuti da una pelle. Forse è per questo che, una volta raccolti in un pennello dal manico di bambù, trasmettono le sensazioni in modo così vivido. Quando lo usavo mi sembrava che il pennello e le dita che lo stringevano appena non sfiorassero un foglio di carta, ma una pelle. L’incomparabile tocco del pennello!, come lo definì il grande disegnatore Shi Tao.

La storia si svolge in una piscina comunale di un sobborgo popolare e non chic di Parigi dove, in certi periodi, ero un habitué. Ci andavo tutti i giorni all’una, quando la maggior parte delle persone era a pranzo e la piscina non era affollata.

L’edificio, lungo e tozzo, ha pareti di vetro e mattoni. Costruito alla fine degli anni sessanta e inaugurato nel 1971, è in un piccolo parco con alcune betulle bianche e qualche salice piangente. Mentre si nuota, si vedono le cime dei salici dalle vetrate. Il soffitto della piscina è rivestito di pannelli. Adesso, a distanza di quarant’anni, ne mancano parecchi. Quante volte, nuotando sul dorso, l’ho notato, cosciente dell’acqua che mi sosteneva insieme alle storie su cui stavo rimuginando?

C’è un disegno del diciottesimo secolo realizzato da Huang Shen: raffigura una cicala che canta sul ramo di un salice piangente. Ogni foglia è una singola pennellata.

Visto dall’esterno è un edificio urbano, non di campagna, e se non si sapesse che è una piscina e si dimenticassero gli alberi si potrebbe scambiarlo per una specie di stazione ferroviaria, un capannone per la pulizia delle carrozze, l’area per il carico e lo scarico merci.

All’ingresso non c’è nessuna scritta, solo un piccolo blasone con i tre colori del tricolore. Emblema della Repubblica. Le porte d’entrata sono in vetro con la scritta poussez, dipinta con uno stencil.

Se si supera una di queste porte ci si ritrova in un altro mondo, che ha poco a che fare con le strade all’esterno, le macchine parcheggiate o i negozi lungo la via.

L’aria odora leggermente di cloro. Ogni cosa è illuminata da sotto invece che da sopra. È a causa della luce riflessa dall’acqua delle due piscine. L’acustica è nitida: ogni suono ha una lieve eco. Domina ovunque l’orizzontale, non il verticale. La maggior parte delle persone nuota, da un capo all’altro della piscina grande, vasca dopo vasca. Chi è in piedi fuori dall’acqua ha appena finito di spogliarsi o lo sta facendo, perciò rango sociale e gerarchia sono quasi inavvertibili. Piuttosto si ha ovunque questa sensazione di strana parità orizzontale.

Ci sono molti cartelli d’avviso, scritti con sintassi e lessico burocratici.

L’asciugacapelli cesserà di operare cinque minuti prima dell’orario di chiusura.

Cuffia da bagno obbligatoria, come da decreto comunale di lunedì, 5 gen 1981.

L’ingresso da questa porta è vietato a chiunque non sia membro del personale. Grazie.

La voce incarnata in simili annunci è inseparabile dalla strenua lotta politica sostenuta durante la terza repubblica per il riconoscimento dei diritti e dei doveri dei cittadini. Una voce impersonale, misurata, da comitato, alla quale da qualche parte, in lontananza, si accompagna la risata di un bambino.

Verso il 1945 Fernand Léger dipinse una serie di tele sui plongeurs, tuffatori in piscina. Con i loro colori primari e le sagome semplici e rilassate, quei dipinti celebravano il dramma e il progetto di lavoratori che si godono il tempo libero e, proprio perché sono lavoratori, trasformano il tempo libero in qualcosa che non ha ancora un nome.

Oggi la realizzazione di questo sogno è più remota che mai. Eppure a volte, mentre sistemo i miei indumenti nell’armadietto metallico nello spogliatoio degli uomini e mi lego la chiave al polso, mentre faccio la doccia calda prescritta prima di passare dalla vasca lavapiedi, mentre raggiungo il bordo della piscina grande e mi ci tuffo, ripenso a quei dipinti.

Oltre alla cuffia da bagno, per lo più i nuotatori indossano occhialini scuri per proteggersi gli occhi dal cloro. Tra noi il contatto visivo è minimo, e se per caso un nuotatore sfiora con il piede il piede di un altro nuotatore, si scusa immediatamente. L’atmosfera non è quella della Costa Azzurra! Qui ognuno persegue privatamente il suo obiettivo.

La prima volta l’ho notata perché nuotava in modo insolito. I movimenti delle sue braccia e delle sue gambe erano curiosamente lenti, come quelli di una rana, ma la sua velocità non ne risentiva troppo. Aveva una relazione diversa con l’elemento acquatico.

Il maestro cinese Qi Baishi (1864-1957) amava disegnare rane e le raffigurava con la testa nerissima, tanto che sembrava portassero la cuffia da bagno. In Estremo Oriente la rana è simbolo di libertà.

La donna indossava una cuffia da bagno rosso zenzero e un costume con motivo floreale, un po’ tipo chintz inglese. Doveva avere poco meno di sessant’anni e ho presunto che fosse vietnamita. Più tardi ho scoperto di essermi sbagliato. È cambogiana.

Ogni giorno nuotava, una vasca dopo l’altra, per quasi un’ora. Io facevo altrettanto. Quando decideva che era il momento di arrampicarsi su una delle scalette agli angoli della piscina e uscire dall’acqua, un uomo, che aveva macinato a sua volta parecchie vasche, veniva a darle una mano. Anche lui era del sudest asiatico, un po’ più magro di lei, un po’ più basso, con un viso più segnato del suo, che era tondo come una luna piena.

La raggiungeva da dietro nell’acqua e le metteva le mani sotto le chiappe sicché lei, rivolta verso il bordo della piscina, ci si sedeva sopra e lui portava un po’ del suo peso quando insieme si arrampicavano sulla scaletta.

Una volta atterrata sul pavimento, lei si allontanava dal bordo della piscina, attraversava la vasca lavapiedi e raggiungeva l’entrata dello spogliatoio delle donne, sola e senza zoppicare in modo visibile. Avendo osservato un certo numero di volte il loro rituale, mi ero accorto tuttavia che, quando camminava, il suo corpo era tirato, come teso dall’ansia.

L’uomo dalla faccia segnata e coraggiosa era presumibilmente suo marito. Non so perché avessi un lieve dubbio. Forse per via della sua deferenza? O del distacco di lei?

Quando la donna voleva entrare in acqua, lui scendeva di qualche gradino e lei gli si sedeva su una spalla. Allora lui s’immergeva con prudenza fino a che l’acqua non gli arrivava oltre i fianchi e lei poteva gettarsi e allontanarsi a nuoto.

Tutti e due conoscevano a memoria questi rituali d’immersione ed estrazione, e forse tutti e due riconoscevano che in quel cerimoniale l’acqua svolgeva un ruolo più importante di ognuno di loro. Il che può forse spiegare perché, più che una coppia di coniugi, sembravano attori impegnati nello stesso spettacolo.

Incontri sott’acqua
Il tempo trascorreva. Le giornate si susseguivano sempre uguali. Finché un giorno, nuotando ciascuno nella propria corsia, ci siamo incrociati. Lei andava in una direzione, io nell’altra, e per la prima volta – tra di noi non ci sarà stato più di un paio di metri – abbiamo sollevato la testa e ci siamo fatti un cenno. E quando, sul punto di lasciare la piscina, ci siamo incrociati un’ultima volta, ci siamo scambiati un segno di arrivederci.

Come descrivere quel particolare segno? Implica il sollevarsi delle sopracciglia, uno scuotere la testa come a gettare indietro i capelli, infine uno strizzare gli occhi nel sorriso. Con molta discrezione. Occhialini spinti in su sopra la cuffia da bagno.

Un giorno, mentre facevo una doccia calda dopo la nuotata – nello spogliatoio maschile ci sono otto docce: per aprire l’acqua, visto che non ci sono rubinetti, si preme un pulsante antiquato, simile al pomello di una porta, e il trucco è che tra quelle otto la durata del getto d’acqua calda è variabile, come anche il momento in cui va premuto di nuovo il pulsante, tanto che ormai sapevo esattamente quale doccia aveva il getto caldo più lungo e, se era libera, sceglievo quella – un giorno, mentre ero sotto l’acqua, l’uomo del sudest asiatico è venuto sotto la doccia accanto alla mia e ci siamo stretti la mano.

Poi, dopo aver scambiato qualche parola, abbiamo convenuto, una volta vestiti, d’incontrarci all’esterno nel piccolo parco. Ed è quel che abbiamo fatto. Sua moglie si è unita a noi.

È stato in quell’occasione che ho scoperto che venivano dalla Cambogia. Lei è una lontana parente della famiglia del famoso re Sihanouk. Era fuggita in Europa a vent’anni, alla metà degli anni settanta. Prima aveva studiato arte a Phnom Penh.

Lei parlava e io facevo domande. Ancora una volta ho avuto l’impressione che il ruolo dell’uomo fosse quello di guardia del corpo o assistente. Eravamo in piedi vicino alle betulle accanto al loro furgoncino a due posti Citroën C15 parcheggiato. La vettura era molto malandata. Dipinge ancora? ho domandato. Ha sollevato la mano sinistra nell’aria come a liberare un uccello e ha annuito col capo. Spesso soffre per il dolore, ha detto lui. E leggo anche molto, ha aggiunto lei, in khmer e in cinese. Infine lui ha fatto segno che forse per loro era ora di salire in macchina. Appesa allo specchietto retrovisore sopra il parabrezza ho notato una minuscola ruota del dharma buddista, simile al timone di una nave in miniatura.

Quando si sono allontanati, mi sono sdraiato sull’erba – era maggio – sotto i salici piangenti, e mi sono ritrovato a pensare al dolore. Aveva lasciato la Cambogia l’anno che Sihanouk era stato estromesso con il probabile aiuto della Cia e quando i Khmer rossi, capeggiati da Pol Pot, avevano messo le mani sulla capitale e stavano avviando la deportazione forzata dei suoi due milioni di abitanti nelle campagne, dove avrebbero vissuto in comunità senza alcuna proprietà individuale. Dovevano imparare a diventare khmer nuovi! Un milione di loro non sopravvisse. Negli anni precedenti Phnom Penh e i villaggi circostanti erano stati bombardati sistematicamente dai B-52 degli Stati Uniti. Morirono almeno centomila persone.

Il popolo khmer, con il glorioso passato di Angkor Wat e le sue enormi e intatte statue di pietra, che più tardi furono infrante e devastate da qualcosa che oggi abbiamo imparato a riconoscere come dolore, il popolo khmer era, quando lei lasciò il paese, circondato da nemici – vietnamiti, laotiani, tailandesi – e stava per essere tiranneggiato e massacrato dai suoi stessi visionari politici, che si erano trasformati in fanatici per infliggere una vendetta alla realtà stessa, per ridurre la realtà a un’unica dimensione. Una riduzione simile porta con sé tante sofferenze quante sono le cellule del cuore.

Contemplando i salici, ne osservavo le foglie trascinate nel vento. Ogni foglia una minuscola pennellata. Impossibile separare il dolore che il suo corpo pareva aver ereditato dal dolore della storia del suo paese durante l’ultimo mezzo secolo.

Oggi la Cambogia è il paese più povero del sudest asiatico e il 75 per cento delle merci che esporta è prodotto in piccole aziende che sfruttano la manodopera confezionando capi di abbigliamento per le multinazionali occidentali che trafficano in stracci di marca.

Un gruppo di bambini di quattro anni mi è passato rapidamente accanto, correndo su per le scale e attraverso la porta a vetri. Andavano alla loro lezione di nuoto.

Quando l’ho rivista in piscina con il marito, ho aspettato che finisse una vasca, poi mi sono avvicinato e le ho chiesto se poteva dirmi cosa fosse a causare il suo dolore. Mi ha risposto senza esitazioni, come se pronunciasse il nome di un luogo: poliartrite. Mi è venuta da giovane, quando ho saputo che dovevo andarmene. È gentile a domandarmelo.

La metà sinistra della sua fronte è leggermente più bruna del resto, come se, caduta da un ramo, una foglia si fosse posata sulla pelle in quel punto e l’avesse lievemente scurita. Quando la sua testa proiettata all’indietro galleggia nell’acqua e il suo viso somiglia a una luna piena, questa piccola chiazza ricorda uno dei cosiddetti mari sulla superficie lunare.

Ce ne stavamo tutti e due a galla e lei mi ha sorriso. Quando sono in acqua, mi ha detto, peso meno e dopo un po’ le giunture smettono di farmi male.

Ho fatto un cenno col capo. Poi abbiamo continuato a nuotare. Quando nuotava a pancia sotto, come ho detto, muoveva gambe e braccia lentamente, come a volte fanno le rane. Sul dorso nuotava come una lontra.

La Cambogia ha una relazione osmotica con l’acqua dolce. In lingua khmer, patria si dice teuk-dey, terra-acqua. Incorniciata dalle montagne, la piatta, orizzontale pianura alluvionale cambogiana – grande circa come un quarto del territorio francese – è attraversata da sei fiumi, tra cui il vasto Mekong. Durante e dopo le piogge monsoniche estive la portata di questo fiume si moltiplica per cinquanta! E a Phnom Penh, alla testa del suo delta, il livello del fiume cresce sistematicamente di otto metri. Nel frattempo, a nord, il lago di Tonlé Sap straripa ogni estate superando di cinque volte la “normale” dimensione invernale e trasformandosi in un immenso bacino, mentre il fiume Tonlé Sap gira su se stesso e comincia a scorrere al contrario, sicché il suo a valle diventa a monte.

Non sorprende che questa pianura abbia offerto la pesca d’acqua dolce più varia e abbondante della Terra, e che per secoli i suoi contadini siano vissuti del riso e del pesce di queste acque.

È stato quel giorno, mentre nuotavamo nella piscina comunale all’ora di pranzo, dopo averle sentito pronunciare la parola poliartrite come se fosse il nome di un luogo, che ho pensato di darle il mio pennello sho.

Quella sera stessa l’ho messo in una scatola e ho fatto un pacchetto. Ogni volta che andavo in piscina lo portavo con me, finché non sono ricomparsi. Allora ho sistemato la piccola scatola su una delle panche alle spalle dei trampolini e l’ho detto al marito in modo che la prendesse prima di rientrare a casa. Me ne sono andato prima di loro.

Sono trascorsi mesi senza che li vedessi, perché ero via. Tornato in piscina, li ho cercati, ma non li ho visti. Ho indossato gli occhialini, mi sono tuffato. Numerosi bambini si stavano tuffando di piedi, tenendosi il naso. Altri, sul bordo, si stavano infilando le pinne. Il rumore e l’animazione erano più intensi del solito perché ormai era luglio, la scuola era finita, e i bambini delle famiglie che non potevano permettersi di lasciare Parigi venivano a giocare per ore nell’acqua. Per loro c’era uno speciale biglietto d’entrata dal costo minimo e gli istruttori di nuoto responsabili della vigilanza mantenevano una disciplina tollerante. Non mancava neppure qualche frequentatore abituale, fedele alla sua routine e ai suoi obiettivi personali.

Avevo fatto circa venti vasche e stavo per cominciarne un’altra quando – con mia grande sorpresa – ho sentito che da dietro qualcuno mi metteva saldamente una mano sulla spalla destra. Ho girato la testa e ho visto la faccia rotonda e macchiata della studentessa d’arte di Phnom Penh d’un tempo. Indossava la stessa cuffia da bagno color zenzero e sorrideva, un largo sorriso.

Allora è qui!

Annuisce e mentre ci teniamo a galla in posizione verticale mi si avvicina e mi bacia due volte su entrambe le guance.

Poi domanda: uccello o fiore?

Uccello!

Posa la testa all’indietro sull’acqua e ride. Come vorrei che sentiste la sua risata. A confronto degli spruzzi e delle grida dei bambini che abbiamo intorno, è quieta, lenta e persistente. La sua faccia è più tonda che mai, lunare e senza tempo. La risata di questa donna, che tra non molto avrà sessant’anni, continua. È inspiegabilmente la risata di un bambino, lo stesso che ho immaginato stesse ridendo da qualche parte alle spalle delle voci impersonali degli avvisi.

 

Pochi giorni dopo suo marito viene verso di me nuotando, si informa sulla mia salute, e sussurra: sulla panca accanto ai trampolini. Poi escono dalla piscina. Lui la raggiunge da dietro e le mette le mani sotto le chiappe. Lei, rivolta verso il bordo della vasca, ci si accomoda. Lui sostiene una parte del suo peso e insieme si arrampicano sulla scaletta ed escono dall’acqua.

Nessuno dei due risponde al mio cenno di saluto come in altre occasioni. Questione di modestia. Modestia dei gesti. Un regalo non può essere accompagnato da una richiesta.

Sulla panca c’è una grande busta. La prendo. All’interno c’è un dipinto su carta di riso. Il dipinto dell’uccello che ho scelto quando mi ha chiesto cosa volevo. Raffigura un bambù e, appollaiata su uno dei suoi steli, una cinciarella. Il bambù è disegnato a regola d’arte. Una sola pennellata che parte dalla sommità dello stelo, si arresta a ogni sezione e, scendendo, diventa un pochino più ampia. I rami, sottili come fiammiferi, disegnati con la punta del pennello. Le foglie scure, tratteggiate con un singolo tocco di pennello, simili a pesci guizzanti. Infine i nodi orizzontali, spennellati da sinistra a destra, tra ogni sezione del fusto cavo.

L’uccello con la sua cuffia blu, il petto giallo, la coda grigiastra e gli artigli simili a una W, ai quali in caso di bisogno può appendersi a testa in giù, è dipinto in modo diverso. Mentre il bambù è liquido, l’uccello sembra ricamato e i suoi colori applicati con un pennello appuntito come un ago.
Insieme, sulla superficie della carta di riso, bambù e uccello hanno l’eleganza di un’unica immagine, con il timbro discreto del nome dell’artista apposto sotto e alla sinistra dell’uccello. Il suo nome è L––.

Eppure, se entri nel disegno e lasci che la sua brezza ti sfiori la nuca, ti accorgi che questo uccello è senza casa, inspiegabilmente senza casa.

L’ho fissato a un’asticciola come un rotolo di pergamena, senza montatura, e con grande piacere ho scelto il punto in cui appenderlo. Poi un giorno, vari mesi dopo, ho avuto la necessità di cercare qualcosa in una delle enciclopedie illustrate Larousse. Sfogliando le pagine mi è capitato di imbattermi nella piccola illustrazione di una mésange bleue, una cinciarella. Sono rimasto perplesso. Aveva un’aria stranamente familiare. Poi mi sono reso conto che su quell’enciclopedia standard stavo osservando il modello – le due W degli artigli avevano, per esempio, la stessa angolatura, e così la testa e il becco – l’esatto modello che L–– aveva utilizzato per dipingere l’uccello appollaiato sul bambù.

E ancora una volta ho capito un po’ meglio cosa significa non avere casa.

(Traduzione di Maria Nadotti)

Questo articolo è uscito il 4 febbraio 2010 sul numero 883 di Internazionale. Era stato pubblicato su Harper’s Magazine.

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