Ci sono delle cose talmente ovvie ed evidenti che nessuno le vede, né tantomeno le menziona più; e chiunque le faccia notare agli altri, sembra che stia dicendo della banalità. Cosa che tuttavia non è affatto una buona ragione per non dirle.
L'attuale dibattito a proposito del 5G e del «progresso» ne costituisce un
buon esempio, con le sue ingiunzioni caricaturale che ci invitano a dover
scegliere tra il 5G e la «lampada ad olio».
La prima domanda che, con semplicemente un po' di buon senso, dovremmo
porci è: un progresso in che cosa?
Nessuno, per esempio, è felice del «progresso» del Covid! Bisogna che il
progresso migliori la vita umana.
Possiamo avere perciò due tipi principali di progresso: un progresso
tecnico, che consiste nell'accresciuto dominio dell'uomo sulla natura, ed un
progresso che potrebbe essere definito «morale» o «sociale»: le relazioni umane
diventano migliori, meno violente, più solidali, più «inclusive».
A partire dal discorso sul progresso, fin dall'inizio, il rapporto tra
queste due forme è stato sempre non troppo chiaro. Spesso si presuppone, come
se fosse ovvio. che il progresso tecnico comporti automaticamente anche un
progresso morale; ci sono alcuni, soprattutto a sinistra, che pongono l'accento
sul progresso sociale, ma ritengono che la base indispensabile sia il
miglioramento delle condizioni materiali, e che solo lo sviluppo tecnico possa
garantire un tale miglioramento.
Un governo non può sostenere l'adozione di nuove tecnologie come se questo
fosse un fine in sé: deve sostenere che esse renderanno migliore la vita di
tutti.
Tuttavia, non esiste alcun legame necessario tra le due forme di progresso:
ci può essere un forte sviluppo tecnologico associato ad una regressione
morale, come è avvenuto nel caso del nazismo, ma ci può essere anche un
progresso sociale che non si preoccupa dello sviluppo tecnico, come propugnato
da Jean-Jacques Rousseau, dalla maggior parte delle correnti anarchiche, ma
anche da molti discorsi religiosi (come gli Amish!).
Soprattutto negli ultimi decenni, la società ha preso coscienza del fatto
che le soluzioni tecnologiche, perfino laddove apportano degli evidenti
benefici, comportano quasi inevitabilmente degli effetti indesiderati.
Lo si sa, per esperienza, e assai prima di qualsiasi «valutazione
dell'impatto» o «stima dei rischi». Per questo semplice motivo, chiunque
proponga l'uso di una nuova tecnologia come risposta ad un problema dovrebbe
sempre dimostrare che quello stesso risultato, o la risoluzione di quello
stesso problema, non possa essere ottenuto senza fare ricorso alla tecnologia,
e quindi correndo meno rischi.
Ed è ecco la seconda invisibile ovvietà.
Prima di arrivare ad essere in grado di permetterci di guardare un video
mentre siamo nell'ascensore, o di andare a visitare in aereo ad ogni
fine-settimana una nuova metropoli, il progresso coltivava soprattutto questa
nobile vocazione: diminuire le sofferenze non necessarie. «Che nessun bambino
debba andare a letto affamato»: era questo il modo per definire l'obiettivo
minimo del progresso umano.
Ma come arrivarci? Attraverso mezzi tecnici o sociali?
Al giorno d'oggi, la stragrande maggioranza delle sofferenze umane non
viene causata dalla «natura», ma dall'organizzazione della vita sociale.
Dovrebbe quindi essere molto più facile per l'uomo poter cambiare ciò che
dipende dall'uomo, rispetto a ciò che dipende dalla natura. Ciò che l'uomo ha
fatto - in linea di principio - lo può anche disfare.
Ragion per cui, per porre fine alla fame nel mondo, potrebbe essere
sufficiente coltivare tutte le superfici agricole per mezzo di piccole aziende
agricole polivalenti, evitare le monocolture orientate all'esportazione, non
dare dei bonus agli agricoltori perché smettano di coltivare la terra, evitare
di gettare a mare le «eccedenze» agricole, ed inoltre smettere di sostenere dei
regimi che esportano arachidi in cambio di armi...
Impossibile, ci verrà detto, tutto ciò è bello ma è utopico: il commercio
mondiale crollerebbe, i consumatori occidentali non accetterebbero mai di
rinunciare alle loro bistecche, e gli investimenti e i posti di lavoro ne
soffrirebbero.
Se l'ordine sociale è intoccabile, allora cominciamo a cambiare la natura:
si inventano i pesticidi e la manipolazione genetica, dei prodotti chimici e
delle macchine gigantesche al fine di creare delle enormi masse di prodotti
agricoli, ma in condizioni spaventose.
A quanto pare, sembra più facile rompere l'entità più piccola dell'essere
vivente, il genoma, piuttosto che espropriare una compagnia di frutta, è più
facile creare miglia di molecole di sintesi piuttosto che accettare il
fallimento della Monsanto, più facile inventare dei semi autosterili piuttosto
che privare i consumatori del loro Big Mac.
Un altro esempio: una delle principali cause sia dell'inquinamento che del
consumo sfrenato di energia, per una parte considerevole della popolazione, è
il trasporto quotidiano tra il luogo di lavoro e l'abitazione. Questo problema
è oramai globale, ed è ovvio che abbia molto a che fare con i prezzi delle
abitazioni nelle grandi città, e quindi con la speculazione immobiliare.
Ma affrontare alla radice tale flagello, significherebbe attaccare la
sacrosanta proprietà privata: e perciò sarebbe più facile estrare petrolio
all'altro capo della terra e poi inviarlo per mezzo di un oleodotto, oppure
ricorrere al nucleare. La fissione dell'uranio appare essere più facile da
padroneggiare di quanto lo siano gli azionisti della Total o dell’Exxon.
Oppure ancora: molte persone, desiderose di riuscire ad avere un figlio in maniera
«naturale», ricorrono alla procreazione assistita; cosa che però pone problemi
di ogni genere. Naturalmente, in questi ultimi decenni il tasso di fertilità è
diminuito fortemente, e questo molto probabilmente ha a che fare con
l'eccessiva presenza di alimenti sintetici nel nostro ambiente; ma affrontarne
le cause è troppo complicato e si scontra con troppi interessi ed abitudini, a
tutti i livelli della scala sociale.
Meglio allora imbarcarsi in soluzioni tecnologiche, per quanto pericolose
possano essere.
È questo uno dei grandi paradossi del nostro tempo: ciò che è sociale, e
quindi fatto dall'uomo, viene considerato come naturale, e quindi assolutamente
immutabile. Le «leggi del mercato», la «concorrenza internazionale», gli
«imperativi tecnologici», la «necessità della crescita» sembrano assai più
immutabili della legge di gravità. Chi propone di cambiarli, nella migliore
delle ipotesi viene considerato ingenuo, se non un terrorista.
Al contrario, i limiti che la natura pone effettivamente all'uomo (ad
esempio, sotto forma di insetti che vogliono, anch'essi, mangiare le piante
coltivate, o dal fatto che l'essere umano sia mortale, oppure che non ha il
dono dell'ubiquità) vengono considerati come se fossero sociali: sempre
provvisori, in attesa di «trovare una soluzione», costi quel che costi.
Così facendo, l'umanità ammette di essere impotente di fronte alle proprie
creazioni. Si tratta di un destino ineluttabile? O ci possiamo organizzare in
maniera diversa?
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