La loro e la nostra democrazia
(intervista di Astra Taylor)
Angela Davis
discute su Trump, sul divorzio tra capitalismo e democrazia, sul nuovo
abolizionismo, sulla lezione del movimento Black Lives Matter e sulla necessità
di un socialismo in cui il potere sia davvero condiviso
A metà ottobre, la rinomata regista e scrittrice Astra Taylor ha dialogato con la leggendaria pensatrice radicale Angela Davis in un evento in live streaming promosso da Jacobin e Haymarket Books. Il tema: «La loro e la nostra democrazia». In questa discussione ad ampio raggio, le due hanno parlato del rapporto tra democrazia e socialismo, del ruolo storico dei radicali nelle lotte democratiche, della necessità di un rinnovato internazionalismo e di molto altro ancora.
Astra Taylor ha scritto Democracy May
Not Exist, But We’ll Miss It When It’s Gone ed è
coautrice del manifesto di Debt Collective, Can’t Pay, Won’t Pay: The Case for
Economic Disobedience and Debt Abolition. Angela Davis
è professoressa emerita all’Università della California, Santa Cruz e ha
scritto diversi libri tra i quali Donne, Razza e Classe. La loro conversazione
è stata rivista ai fini della divulgazione.
Vorrei parlare del concetto di democrazia dei Padri fondatori e di come il
sistema politico in cui operiamo si fondi su diverse forme di esclusione:
quella degli schiavi e quella delle donne e degli uomini senza proprietà.
Volevano proteggere i diritti di una minoranza di opulenti, proprietari
terrieri e schiavisti. Le strutture che hanno messo in piedi sono ancora
davanti a noi. Vorrei parlare anche dell’orizzonte dell’abolizionismo, penso che dobbiamo essere consapevoli
del fatto che i progressi compiuti possono essere annullati. Questo è ciò che
ci insegna il precedente della Ricostruzione. Guarda alla persecuzione degli elettori
che sta avvenendo nel North Carolina. In Florida, chi ha debiti non potrà
votare. Cosa possiamo fare, considerando questi livelli di oppressione?
Se guardiamo semplicemente alla democrazia come forma di governo,
escludiamo tutta una serie di questioni che dovrebbero essere affrontate.
Perché il mito degli Stati uniti come prima democrazia continua ad avere così
tanto credito? Come hai detto, in realtà era una democrazia della minoranza, il
che dovrebbe essere un ossimoro.
Sarebbe interessante parlare delle applicazioni economiche della
democrazia. Cosa comporterebbe una democrazia economica? E rispetto alle
dimensioni sociali della democrazia? E come è cambiata la democrazia in
relazione al sistema economico che costituisce il fondamento di quella
democrazia stessa? È possibile immaginare una democrazia in cui tutti possano
partecipare sulla base dell’uguaglianza economica, culturale, sociale e
politica? Se sostenessimo che tutti, in virtù del fatto di vivere in una
determinata area, dovrebbero essere considerati cittadini e dovrebbero essere
in grado di partecipare al governo e all’economia, ciò cosa significherebbe?
Amo questo tipo di domande. Quando intervistavo gente per il mio film What
Is Democracy?, in particolare quando intervistavo giovani conservatori, mi
aspettavo che mi dicessero quanto il capitalismo fosse democratico e usassero
la retorica della democrazia. Ma ho scoperto, soprattutto nei giorni successivi
alla vittoria di Donald Trump, che erano consapevoli del fatto che non
sarebbero mai stati maggioranza. Dimentica il matrimonio tra capitalismo e
democrazia: hanno preso la parte capitalista e sono diventati consapevolmente
elitari. [Il mese scorso], abbiamo visto il repubblicano [il senatore Mike Lee]
affermare su Twitter che non siamo una democrazia.
Dall’altro lato, sempre più gente si sta convincendo della necessità di
tenere insieme socialismo e democrazia. Abbiamo bisogno di una base economica
per l’uguaglianza. Non abbiamo i diritti e le libertà liberali che dovremmo
avere perché c’è troppa disuguaglianza. Ma non credo che ciò risponda a tutte
le nostre domande. Dobbiamo prevenire le questioni sulla democrazia nel
socialismo. Come condividiamo il potere? Come viviamo un mondo in cui la
ricchezza è messa in comune, in cui vogliamo che le persone abbiano il
controllo sulle loro vite? Come stabiliamo chi deve essere a prendere una
decisione? Penso che le questioni sulla democrazia sarebbero molto ricche e
profonde.
Mi chiedo se il risultato delle elezioni del 2016 avrebbe potuto essere
diverso se fosse stata prestata maggiore attenzione a coloro che stanno vivendo
l’impatto del capitalismo globale: le famiglie bianche povere che ora
riconoscono che i loro figli non staranno meglio di quanto stessero loro. Il
risultato avrebbe potuto essere diverso se avessimo sviluppato strategie che ci
avrebbero consentito di riconoscere che molti dei problemi esistenti in questo
paese sono direttamente collegati all’ascesa e alla diffusione del capitalismo
globale.
In effetti, prima avevamo più democrazia economica. Una volta le persone
potevano aspettarsi di essere curate in qualsiasi ospedale se erano malate. Gli
ospedali e l’intero sistema sanitario non erano stati privatizzati, come lo
sono ora, il che è uno dei motivi per cui la pandemia Covid-19 ha generato lo
stato di emergenza, in particolare per quanto riguarda i posti in ospedale,
perché i letti in corsia vuoti non sono redditizi.
Se si guarda all’impatto del capitalismo globale, si spiega in gran parte
l’ascesa del complesso carcerario industriale, così come la soppressione di
molte istituzioni che fungevano da rete di sicurezza economica per la gente. Il
mancato sviluppo di più istituzioni dedite al bene pubblico ha creato un
terreno in cui la povertà si è espansa non solo tra le comunità nere,
anche tra i bianchi.
Donald Trump ha fatto leva su quelli che soffrivano fornendo false
soluzioni, come il ritorno a un’epoca in cui l’economia industrializzata di
questo paese rispondeva ai bisogni della gente. Non succederà. I posti di
lavoro che si sono sparpagliati in tutto il mondo, in particolare al Sud, non
torneranno negli Stati uniti. È importante considerare il modo in cui le
trasformazioni economiche hanno un impatto diretto sulla democrazia.
Voglio farti una domanda sulla storia della persecuzione e degli attacchi
alla sinistra e sul ruolo che questi hanno svolto nel minare la democrazia.
Penso che ciò si riferisca a quello che stavi dicendo: la mancanza di sindacati
solidi, di associazioni in cui le persone normali possono ottenere
un’educazione politica radicale ed essere trattate come partecipanti attivi e
riflessivi.
Per decenni, le persone coinvolte nelle lotte socialiste e comuniste hanno
fatto riferimento all’«altra America». C’era l’America rappresentata da chi era
al potere, e poi c’erano i sindacati e le lotte contro il razzismo e il
sessismo. Quello che abbiamo perso nei nostri resoconti storici è il ruolo che
i comunisti e i socialisti hanno svolto nell’espansione delle possibilità di
democrazia in questo paese. Abbiamo un sussidio contro la disoccupazione come
conseguenza delle lotte negli anni Trenta. I comunisti neri nel sud [aiutarono]
a creare il terreno per il movimento per i diritti civili.
Oggi, visto che ci stiamo impegnando in quello che la gente chiama una
«resa dei conti razziale», la nostra terminologia dovrebbe essere più ampia.
Non è semplicemente una resa dei conti razziale. È una resa dei conti con la
storia di questo paese, non solo la storia del razzismo e la storia dello
sfruttamento di classe, ma anche la storia della resistenza. Se non siamo
consapevoli di coloro le cui lotte hanno creato la democrazia come concetto
mosso da aspirazioni, non come il modo per tenere insieme gli affari – ossia
non semplicemente come il modo in cui il governo è organizzato, ma come lotta
per una società più giusta, più equa – allora non abbiamo da dove cominciare. Non
riconosciamo il continuum su cui si svolgono le nostre lotte.
Puoi riflettere un po’ sulla connessione tra carcerazione e democrazia?
Stiamo andando a un’elezione in cui la privazione del diritto di voto in
Florida potrebbe avvantaggiare i repubblicani. Questo è quello che è successo
nel 2000. Ma è molto più profondo. Hai sottolineato che La democrazia
in America di Alexis de Tocqueville è stato scritto dopo un giro nelle
carceri della nazione. Hai detto che la reclusione è una negazione che la
democrazia liberale richiedeva come prova della sua esistenza. Questa negazione
– sono libero se non sei libero – è intrinseca alla democrazia o appartiene
solo alla versione della democrazia in cui viviamo adesso?
Nel suo libro sulla schiavitù e la morte sociale, Orlando Patterson
ipotizza che la democrazia occidentale debba nascere dalle aspirazioni degli
schiavi a essere liberi. Il concetto stesso di libertà con cui lavoriamo
richiede un senso di non libertà per spiegare la sua comparsa. La schiavitù era
la prova tangibile della libertà per quelli che non erano ridotti in schiavitù.
Ma con l’emergere delle carceri come punizione, in concomitanza con l’ascesa
degli ideali rivoluzionari e la nascita della prigionia democratica, la
punizione è diventata il ventre della democrazia.
Serve la democrazia capitalista per immaginare la reclusione come
punizione, perché la reclusione implica la cessione dei diritti. Non avrebbe
senso in una società che non riconosce i diritti individuali. Non avrebbe senso
al di fuori del contesto di una società democratica. Penso che sia davvero
importante tenere presente che quella negazione costitutiva della democrazia in
realtà costruisce una democrazia che quindi deve essere negata a coloro che
sono in prigione.
Voglio invitarti a dire qualcosa sull’idea del «femminismo abolizionista».
Le femministe sociali, come molte altre, hanno pensato all’importanza della
riproduzione sociale, che a volte implica il lavoro di cura. M’è sembrato un
problema democratico, poiché siamo governati da un’amministrazione che sembra
sprezzante della vulnerabilità. Debolezza, malattia e disabilità vengono
derise. Mi piacerebbe sentire i tuoi pensieri sul femminismo, la democrazia e
l’importanza della cura in una società democratica.
Generalmente presumiamo che quando parliamo di femminismo, affrontiamo
questioni di genere. Naturalmente, dobbiamo affrontare le questioni di genere.
Ma gli approcci femministi sono molto più ampi del semplice coinvolgimento del
genere. Il «femminismo abolizionista» ci spinge a pensare a cosa potrebbe
servire per iniziare a muoverci in una direzione democratica, vale a dire di
cosa potremmo aver bisogno di gettare nella pattumiera della storia.
Consentitemi di usare un esempio di violenza di genere. Se non assumiamo
l’idea che le istituzioni di polizia e carcerazione siano lì per risolvere
questo problema, dobbiamo adottare un approccio molto più complesso. Questo è
ciò che apprezzo del femminismo: mette in crisi la nostra analisi. Ci fa
riconoscere che le realtà sociali non riflettono sempre la chiarezza delle
categorie analitiche, che dobbiamo essere disposti ad accostarci al disordine
della realtà sociale. Quando diciamo che la polizia e le carceri sono due istituzioni
che devono essere gettate nella pattumiera della storia, come affrontiamo i
problemi che queste istituzioni pretendevano di affrontare ma non potevano?
Il politico costruisce il personale e costruisce ciò che spesso assumiamo
essere idee generate dalle nostre individualità. Una femminista sosterrebbe che
non possiamo ottenere l’abolizione di polizia e carcere senza riconoscere anche
che dobbiamo adattare un atteggiamento critico alle nostre emozioni e alle idee
che pensiamo siano nostre. Mentre spesso sono le idee dello stato che lavorano
attraverso di noi. Penso che queste intuizioni femministe siano essenziali
quando si tratta di reinventare una democrazia maggiormente egualitaria e
giusta per tutti.
Adesso parliamo di animali non umani. Il Covid non è un disastro naturale.
Il salto di specie del virus è dovuto al fatto che gli esseri umani, sotto il
capitalismo, stanno divorando il mondo naturale. Usiamo il 40% della superficie
terrestre per le scorte di cibo. La prossima pandemia probabilmente emergerà da
un allevamento industriale statunitense, perché stipiamo migliaia di animali in
queste gabbie. C’entra anche il clima. Può essere utopistico pensare di
includere la vita non umana nella nostra politica democratica. Personalmente
sento che le nostre vite dipendono da questo. Con la distruzione dell’ambiente,
le malattie aumentano di numero e di virulenza. La gente dice che dobbiamo dare
la priorità agli umani come se la solidarietà fosse un gioco a somma zero, ma
mi sembra che dobbiamo rifiutarlo ed espandere il cerchio delle nostre
preoccupazioni. Che ne pensi?
Sono completamente d’accordo. Stabilire la priorità degli esseri umani
porta anche a definizioni restrittive di chi è considerato umano, e la
brutalizzazione degli animali è correlata alla brutalizzazione degli animali
umani. Questo terreno di lotta sarà molto importante nel prossimo futuro.
Se vogliamo lottare per la libertà e la democrazia, dobbiamo riconoscere
che le questioni diventeranno sempre più ampie, perché inizialmente la democrazia
aveva a che fare solo con un piccolo sottogruppo di uomini bianchi e ricchi.
Non sto dicendo che la traiettoria della storia sia automatica. Ma abbiamo
visto come il concetto di democrazia sia andato allargandosi. E non vedo come
possiamo escludere i nostri compagni non umani con cui condividiamo questo
pianeta.
In precedenza, durante la pandemia, ho fatto un webinar con persone
dell’Amazzonia brasiliana. Devono fare i conti col razzismo, ma anche con
l’incendio dell’Amazzonia. Ciò suggerisce che bisogna evitare approcci
ristretti. Dobbiamo lavorare contro la sindrome di Blinder, il che significa
che non possiamo pensare solo alle persone in questo paese.
Per quanto riguarda il voto, gli immigrati che vivono in questo Paese
dovrebbero poter votare perché fanno parte della comunità. Dovremo anche
affrontare l’obsolescenza dello Stato-nazione. Sto pensando a questioni che
molto probabilmente si presenteranno in futuro. Non so se ci sarò quando
diventeranno mainstream. In fondo non pensavo che sarei stata in grado di
assistere al mainstreaming dell’abolizione della polizia. Ma
eccoci qui.
Nonostante tutte le esclusioni della democrazia, ci sono alcuni comuni in
cui la residenza è l’unico requisito di voto. Ci sono altri paesi in cui non è
necessario essere cittadini per votare. In alcuni stati, le persone in prigione
potevano votare. E i candidati dovevano andare a visitare la prigione.
La nostra immaginazione è chiusa a cose che nel passato sono realmente
esistite. Amo questa visione della democrazia come un cerchio in espansione:
ciò che evoca sono le persone che si guardano indietro e dicono: «Vivevamo
nell’età oscura della democrazia». Insieme a Critical Resistance, hai fatto un lavoro
straordinario portando il concetto radicale di abolizione della prigione nel
mainstream. Voglio che tu mi dica un po’ cosa si prova. E puoi anche parlare
della tua straordinaria apertura ai nuovi attivisti e della tua volontà di
imparare da loro?
Dobbiamo sfidare le gerarchie, comprese le gerarchie che sembrano scolpite
nella pietra – come quelle che garantiscono agli anziani più potere e influenza
in virtù dell’età e quelle che impongono alle giovani generazioni di seguire le
orme degli anziani. Penso che dovremmo essere più egualitari.
Questo è uno dei modi in cui possiamo mettere in atto relazioni
democratiche nel corso della lotta per il cambiamento, non solo nella
relazionalità delle generazioni, ma anche in relazione a chi è in carcere e chi
è fuori. Spesso, coloro che abitano il cosiddetto mondo libero presumono di
avere una maggiore capacità di dare leadership rispetto a coloro che sono
imprigionati. E sono grato a Critical Resistance, perché fin dall’inizio
l’organizzazione ha insistito per portare coloro che erano effettivamente in
prigione nella leadership.
Non credo che abbiamo abbastanza occasioni per creare la democrazia mentre
lottiamo per la democrazia. Ma penso che anche questo sia un approccio
femminista. Ci aiuta non solo a immaginare un nuovo mondo, ma a diventare degni
di partecipare a quel mondo nel corso della lotta per esso.
È una risposta così meravigliosa. E penso che nello spirito della
democrazia ora risponderemo ad alcune domande dal pubblico. Cosa ti ispira di
Black Lives Matter? Cosa possiamo imparare dall’esperienza della Nuova Sinistra
e dalle lotte dei movimenti sociali degli anni Sessanta?
Quel movimento è così eccitante. Le proteste di Ferguson e l’emergere di
Black Lives Matter hanno avuto un impatto non solo in tutto il paese, ma in
tutto il mondo: la comprensione del significato della «materia delle vite
nere», che era stata così spesso interpretata erroneamente come «tutte le vite
contano». La tirannia dell’universale, come mi piace chiamarla, è stata un modo
per ignorare l’impatto e le esperienze particolari dei neri in questo paese.
Ho imparato tanto dalle tre donne che hanno fondato la rete Black Lives
Matter e il Movement for Black Lives. I miei mentori durante questo periodo
sono stati i giovani che hanno ripreso le lotte del passato e dato loro molta
più sostanza. Mi ispira perché vedo una generazione che non dà per scontato
quanto a lungo e duramente abbiamo lottato. Non solo sanno come articolare
quella storia, sanno come espanderla e come sviluppare modi per trasformare il
mondo che siano fonte di ispirazione.
Spesso, impariamo molto di più dai nostri errori che da ciò che abbiamo
fatto correttamente, e le giovani generazioni devono essere preparate a
sperimentare nel tentativo di capire come si costruiscono i movimenti. Qual è
la lingua che piace alle persone? Anche se viviamo in un mondo fatto dal
capitalismo razziale, come creiamo comunque una risposta critica? Come
incoraggiamo le persone, i movimenti e le organizzazioni a riconoscere che alla
fine dovremo smantellare questo sistema e muoverci in una direzione socialista?
Quando pensiamo a ciò che ha sostenuto le generazioni dalla Vecchia
Sinistra alla Nuova Sinistra e oltre, vediamo che spesso avevano organizzazioni
«centraliste democratiche» troppo rigide. Ma queste organizzazioni avevano un
certo senso di appartenenza, di dibattito sul loro programma e la capacità di
prendere le energie degli attivisti e incanalarle in veicoli organizzativi.
Ora, vediamo la crescita diffusa di diverse organizzazioni a sinistra, ma
sembra che siamo molto più dispersi. C’è qualcosa che abbiamo perso e che
dobbiamo ritrovare?
Posso parlare di una serie di cose, ma per il momento mi concentrerò
sull’internazionalismo. A volte mi chiedo perché non siamo stati in grado di
creare un senso di connessione emotiva con persone in altre parti del mondo.
Perché le donne nere in questo paese non sono più legate al movimento delle
donne nere brasiliane? C’è così tanto che possiamo imparare dalle lotte delle
donne nere in Brasile.
Desidero ardentemente il tipo di internazionalismo che ci fa sentire forti,
ci fa riconoscere come i nostri desideri sono desideri che animano le persone
in tutto il mondo. Non sto sostenendo che non ci sia internazionalismo oggi,
perché ad esempio la Palestina ha certamente svolto un ruolo nell’indicare la
via alle nostre lotte abolizioniste in questo paese. L’abolizione non significa
sbarazzarsi delle prigioni; riguarda l’intero regime carcerario, e lo vediamo
nella Palestina occupata. Per questo serve l’internazionalismo adesso.
*Angela Davis è professoressa emerita all’Università della California, a
Santa Cruz. Astra Taylor è una scrittrice, regista di documentari e
organizzatrice. Il suo ultimo film è What Is Democracy? e il suo
prossimo libro è Democracy May Not Exist, but We’ll Miss it When It’s
Gone. Questo testo è apparso su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
La lotta per
cambiare il mondo secondo Angela Davis
(intervista di Lanre Bakare)
È il 1972. Angela Davis sta rispondendo alle domande di un
giornalista svedese che le ha chiesto cosa pensa del ricorso alla violenza da
parte delle Pantere nere. Alle sue spalle c’è il muro della cella di una
prigione statale della California. Davis indossa un dolcevita rosso e porta la
sua classica pettinatura afro. Con una sigaretta accesa tra le dita, fissa il
giornalista con uno sguardo penetrante, poi risponde: “Mi chiede se approvo la
violenza? Per me è una domanda senza senso. Mi chiede se approvo l’uso delle
armi? Sono cresciuta a Birmingham, in Alabama. Alcuni miei amici sono stati
uccisi dalle bombe fatte esplodere dai razzisti. Del periodo in cui ero molto
piccola ricordo il rumore delle bombe che esplodevano, la casa che tremava. Per
questo motivo, quando qualcuno mi chiede di parlare della violenza, mi sembra
incredibile. Significa che la persona che mi sta davanti non ha la minima idea
di cosa abbiano subìto gli afroamericani in questo paese dal momento in cui il
primo nero è stato rapito sulle coste dell’Africa”.
Osservando il breve filmato si capisce perché Angela Davis
è diventata un’icona. L’immagine, la determinazione, l’intelligenza. Davis è
stata immortalata nel documentario del 2011 The black power mixtape,
e alcuni spezzoni dell’intervista sono stati diffusi sui social network dopo
che George Floyd, un nero di 46 anni, è stato ucciso da un poliziotto a
Minneapolis, scatenando proteste in tutto il mondo. Oggi il suo libro Donne, razza e classe (Alegre
2018), pubblicato nel 1981, è considerato una lettura essenziale per chiunque
voglia capire cos’è l’attivismo antirazzista, insieme a La prossima volta il fuoco di
James Baldwin (Fandango 2020) e all’autobiografia dell’abolizionista Frederick
Douglass.
Angela Davis ha 76 anni. È collegata via Zoom dal suo
ufficio, in California. Le chiedo se dopo tutti questi anni ha la sensazione
che un cambiamento concreto sia possibile. “Certo, la situazione oggi potrebbe
essere diversa”, risponde. “Ma non è scontato”. Davis, comprensibilmente, si
mostra prudente. D’altronde nella sua vita ha visto di tutto, dalle rivolte del
1965 a Watts, un quartiere di Los Angeles, alla guerra in Vietnam fino
all’invasione dell’Iraq e ai disordini di Ferguson. “Dopo tutti i momenti
segnati da una grande consapevolezza e dalla volontà di cambiamento, le riforme
che sono state introdotte hanno cancellato qualsiasi possibilità di un
cambiamento radicale”.
Davis, nel complesso, trova incoraggianti le proteste
innescate dalla morte di Floyd. Non è la prima volta che gli Stati Uniti
assistono alla nascita di movimenti su larga scala – l’ultima volta nel 2014,
dopo la morte di Michael Brown, Tamir Rice ed Eric Garner – ma Davis pensa che
oggi qualcosa sia cambiato: i bianchi stanno cominciando a capire.
“Non avevamo mai visto manifestazioni così prolungate,
partecipate e diversificate”, sottolinea. “Penso che questo stia dando molta
speranza alla gente. In passato, quando dicevamo Black lives matter (le vite
dei neri sono importanti), c’era sempre qualcuno che diceva: ‘Ma non sarebbe
meglio dire che tutte le vite sono importanti?’. Ora finalmente hanno capito.
Si sono resi conto del fatto che fino a quando i neri verranno trattati in
questo modo, fino a quando la violenza del razzismo resterà inalterata, nessuno
sarà al sicuro”.
Se c’è una persona adatta a valutare la situazione attuale
è sicuramente Angela Davis. Per cinquant’anni è stata una delle intellettuali
più importanti della campagna per la giustizia razziale, anche se le cause che
ha difeso – riforma carceraria, riduzione dei fondi della polizia,
riorganizzazione del sistema di rilascio su cauzione – sono state sempre
considerate troppo radicali. A un certo punto è sembrato che Davis fosse
rimasta congelata nel passato, vincolata allo stile “radical chic” degli anni
sessanta e sostenitrice di idee ormai fuori moda. Nel 2016 un giornalista del
Wall Street Journal scrisse un ritratto dell’attivista in cui chiedeva ai suoi
colleghi se conoscessero Davis. Tra quelli che non avevano ancora compiuto 35
anni nessuno sapeva chi fosse.
Oggi, a cinquant’anni dall’inizio della sua lotta, Davis
sembra improvvisamente diventata il simbolo della giustizia sociale, ma ci
tiene a riconoscere i meriti della nuova generazione di attivisti e pensatori
politici. “Osservo questi ragazzi, così intelligenti e capaci di apprendere dal
passato per creare nuove idee. Imparo molto anche da persone che hanno
cinquant’anni meno di me. È emozionante, mi spinge a continuare la lotta”.
“Anche se la portata della reazione è sicuramente nuova, la
causa non lo è, e penso sia importante sottolinearlo”. Davis non vuole che si
dimentichi l’impatto dell’impegno sociale delle Pantere nere negli anni
sessanta, in particolare dell’attivismo di comunità, dei laboratori formativi e
dei banchi alimentari. “La causa va avanti da molto tempo. Ciò che osserviamo
oggi nasce da un lavoro che è stato fatto per anni e che non ha ricevuto la
giusta attenzione da parte dei mezzi d’informazione”.
Davis parla della militarizzazione della polizia
statunitense dopo il Vietnam e dell’apertura per una riforma carceraria dopo la
rivolta nel penitenziario di Attica del 1971, che però non è mai arrivata,
almeno non nella forma che lei aveva immaginato. All’epoca della rivolta la
popolazione carceraria degli Stati Uniti era di 200mila detenuti. Alla fine
degli anni novanta è arrivata a più di un milione. “Ripensando a quel periodo
ci siamo accorti che le riforme non hanno fatto altro che consolidare il
sistema. Oggi abbiamo il timore che succeda di nuovo”.
Quale consiglio ha dato al movimento Black lives matter?
“Dal mio punto di vista la cosa più importante è cominciare a esprimere idee su
come far evolvere il movimento”. Naturalmente si tratta di un aspetto difficile
da analizzare nel fervore di una protesta che si sta diffondendo in tutto il
mondo. Tuttavia, per Davis è importante capire che l’incendio di un
commissariato a Minneapolis o la rimozione della
statua di Edward Colston a Bristol non sono la risposta
definitiva. “A prescindere da quello che pensano le persone, questi gesti non
porteranno un cambiamento reale”, spiega riferendosi alla rimozione della
statua. “Ciò che conta è l’organizzazione, il lavoro. Bisogna continuare a
lavorare, a organizzarsi per combattere il razzismo, a trovare nuovi modi per
trasformare le nostre società. Solo così si può fare la differenza”.
Angela Yvonne Davis è nata a Birmingham, in Alabama, nel
1944. All’epoca uno dei politici più potenti della città e dello stato era il
suprematista bianco Bull Connor. Conosceva alcune delle quattro ragazze che
morirono nell’attentato realizzato dal Ku Klux Klan nel 1963 contro una chiesa
battista, un crimine per cui le prime incriminazioni arrivarono solo nel 1977.
“Sapevamo che il ruolo della polizia era quello di proteggere i bianchi”,
ricorda Davis.
A 15 anni si trasferì a New York per frequentare le scuole
superiori, per poi spostarsi in Germania Ovest e studiare filosofia e marxismo
seguendo Herbert Marcuse e la scuola di Francoforte. Tornata negli Stati Uniti alla fine degli
anni sessanta, entrò nel partito delle Pantere nere e nel Partito comunista. A
causa dei suoi legami con il comunismo, il governatore della California
dell’epoca, Ronald Reagan, la fece licenziare dall’incarico di assistente di
filosofia all’università della California (Ucla).
Poi, nel 1970, la vita di Davis cambiò radicalmente. Un
fucile che aveva comprato legalmente fu usato in un tentativo di fuga da un
tribunale. La vicenda si concluse con la morte di un giudice che era stato
rapito, oltre che di Jonathan Jackson (lo studente che aveva tentato la fuga) e
altri due imputati. Davis fu accusata di “rapimento aggravato e omicidio di
primo grado” perché aveva comprato il fucile, e dopo una breve latitanza fu
arrestata a New York. Aretha Franklin contribuì a pubblicizzare il suo caso
offrendosi di pagare la cauzione, mentre i Rolling Stones e John Lennon
scrissero canzoni su di lei. La causa di Davis diventò famosa in tutto il
mondo, fino a quando fu assolta dopo 18 mesi di carcere. Quell’episodio la
trasformò nel simbolo internazionale dell’attivismo politico di ogni genere.
“Sono felice di essere ancora viva. Sono testimone di tutto ciò che sta
accadendo, anche per conto di quelli che non ce l’hanno fatta”.
Davis sa che ha rischiato di essere tra quelli che non ce
l’hanno fatta. All’epoca dell’intervista con il giornalista svedese, nel 1972,
era ancora in carcere con l’accusa di omicidio e rischiava la pena di morte.
Molti esponenti delle Pantere nere sono morti in modo violento: Fred Hampton fu
ucciso durante una retata della polizia a Chicago, mentre Bobby Hutton fu
assassinato a Oakland anche se si era arreso agli agenti (Marlon Brando pronunciò il suo elogio
funebre). Altri sono ancora in carcere (Mumia Abu-Jamal) o in esilio (Assata
Shakur). “So che avrei potuto fare la stessa fine”, ammette Davis. “Potrei
essere in prigione, avrei potuto essere condannata all’ergastolo. A salvarmi la
vita è stato l’impegno di molte persone in tutto il mondo. In un certo senso il
mio lavoro si è sempre basato sulla consapevolezza che sono qui solo perché
molte persone hanno fatto lo stesso lavoro per difendermi. Continuerò a fare
quello che faccio, fino al giorno in cui morirò”.
Come avviene il cambiamento
Dopo essere uscita dal carcere, Davis ha fatto di tutto per evitare che il
contributo delle donne alla causa per i diritti civili fosse ignorato. Oggi
vede lo stesso impegno da parte degli attivisti che combattono per fare in modo
che le donne vittime della violenza della polizia – come Breonna Taylor, uccisa
a Louisville, in Kentucky, da agenti che avevano fatto irruzione nel suo
appartamento – abbiano la stessa visibilità dei maschi. “La maschilizzazione
della storia va avanti da decenni, da secoli”, sottolinea Davis. “I racconti
dei linciaggi, per esempio, tralasciano spesso il fatto che molte vittime erano
donne nere, così come donne e nere erano molte persone che si sono battute
contro i linciaggi, come Ida B Wells”.
“È importante cogliere la tendenza alla maschilizzazione
della lotta e chiedersi perché non riusciamo a riconoscere che le donne sono
sempre state al centro della causa, sia come vittime sia come attiviste”.
In questo momento ad affermarsi non sono solo le idee di
Davis sulla riforma della polizia e la giustizia sociale, ma anche le sue
riflessioni su come realizzare il cambiamento. Per decenni Davis ha promosso un
pensiero femminista che si oppone alla leadership e alle forme di resistenza
iper-maschiliste. Secondo Davis, i movimenti Occupy e Black lives matter hanno
portato una grande novità con il loro rifiuto di darsi una leadership
riconoscibile.
“In questo paese molti si chiedono dove siano i nuovi
Martin Luther King, Malcolm X e Marcus Garvey. Naturalmente quando pensano ai
leader immaginano uomini neri e carismatici. Ma i movimenti radicali più
recenti creati dai giovani hanno avuto un’impronta femminista e hanno
privilegiato la leadership collettiva”.
Le chiedo se non
esiste un conflitto tra il suo approccio al cambiamento – comunitario e senza
leader – e il suo status personale. “Non posso prendermi troppo sul serio”,
risponde. “Lo ripeto continuamente. Da sola non avrei potuto ottenere niente di
tutto questo. Il merito è del movimento e del suo impatto”.
Già in passato Davis ha cercato di portare il movimento
antirazzista al centro del dibattito pubblico. Nel 1980 si candidò alla
vicepresidenza degli Stati Uniti con il Partito comunista statunitense. In un
intervento del 2006 ha attaccato l’amministrazione di George W. Bush. Oggi
non vuole nemmeno pronunciare il nome di Donald Trump e preferisce definirlo
come “l’attuale inquilino della Casa Bianca”. Le chiedo se la democrazia
statunitense, allo stato attuale, lasci spazio a idee radicali sul cambiamento
sociale. “Non credo che possa accadere”, risponde. “Almeno non con gli attuali
dirigenti dei due partiti politici principali”.
Cosa pensa Davis del fatto che alcuni democratici si siano
inginocchiati per esprimere solidarietà ai manifestanti? Di recente Nancy
Pelosi, presidente della camera dei deputati, e alcuni suoi importanti colleghi
di partito hanno indossato indumenti di kente, un tessuto tipico ghaneano che gli era stato
regalato dai rappresentanti afroamericani del congresso. Il loro obiettivo era
mandare un messaggio ai cittadini neri, una base elettorale decisiva su cui il
candidato democratico alla presidenza Joe Biden non riesce a far presa. “Lo
hanno fatto solo perché vogliono stare dalla parte giusta della storia, ma non
è detto che vogliano anche fare la cosa giusta”, risponde Davis con un certo
distacco.
Durante le sue conferenze Davis racconta spesso di quando,
da bambina, chiedeva alla madre perché non potesse andare al parco giochi o
alle librerie di Birmingham. La madre, che era un’attivista, le spiegava come
funzionava la segregazione, ma non si fermava lì. “Ci ripeteva continuamente
che le cose sarebbero cambiate e che noi avremmo fatto parte del cambiamento.
Così ho imparato fin da piccola a vivere in un contesto di segregazione
razziale, ma anche, contemporaneamente, a immaginare un nuovo mondo, con la
certezza che la situazione non sarebbe rimasta la stessa per sempre. Mia madre
ce lo diceva sempre: ‘Non è così che dovrebbero andare le cose, non è così che
dovrebbe essere il mondo.’”
(Traduzione di Andrea
Sparacino)
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