giovedì 12 novembre 2020

intervistano Angela Davis


La loro e la nostra democrazia

(intervista di Astra Taylor)


Angela Davis discute su Trump, sul divorzio tra capitalismo e democrazia, sul nuovo abolizionismo, sulla lezione del movimento Black Lives Matter e sulla necessità di un socialismo in cui il potere sia davvero condiviso

A metà ottobre, la rinomata regista e scrittrice Astra Taylor ha dialogato con la leggendaria pensatrice radicale Angela Davis in un evento in live streaming promosso da Jacobin e Haymarket Books. Il tema: «La loro e la nostra democrazia». In questa discussione ad ampio raggio, le due hanno parlato del rapporto tra democrazia e socialismo, del ruolo storico dei radicali nelle lotte democratiche, della necessità di un rinnovato internazionalismo e di molto altro ancora.

Astra Taylor ha scritto Democracy May Not Exist, But We’ll Miss It When It’s Gone ed è coautrice del manifesto di Debt Collective, Can’t Pay, Won’t Pay: The Case for Economic Disobedience and Debt Abolition. Angela Davis è professoressa emerita all’Università della California, Santa Cruz e ha scritto diversi libri tra i quali Donne, Razza e Classe. La loro conversazione è stata rivista ai fini della divulgazione.

Vorrei parlare del concetto di democrazia dei Padri fondatori e di come il sistema politico in cui operiamo si fondi su diverse forme di esclusione: quella degli schiavi e quella delle donne e degli uomini senza proprietà. Volevano proteggere i diritti di una minoranza di opulenti, proprietari terrieri e schiavisti. Le strutture che hanno messo in piedi sono ancora davanti a noi. Vorrei parlare anche dell’orizzonte dell’abolizionismo, penso che dobbiamo essere consapevoli del fatto che i progressi compiuti possono essere annullati. Questo è ciò che ci insegna il precedente della Ricostruzione. Guarda alla persecuzione degli elettori che sta avvenendo nel North Carolina. In Florida, chi ha debiti non potrà votare. Cosa possiamo fare, considerando questi livelli di oppressione?

Se guardiamo semplicemente alla democrazia come forma di governo, escludiamo tutta una serie di questioni che dovrebbero essere affrontate. Perché il mito degli Stati uniti come prima democrazia continua ad avere così tanto credito? Come hai detto, in realtà era una democrazia della minoranza, il che dovrebbe essere un ossimoro.

Sarebbe interessante parlare delle applicazioni economiche della democrazia. Cosa comporterebbe una democrazia economica? E rispetto alle dimensioni sociali della democrazia? E come è cambiata la democrazia in relazione al sistema economico che costituisce il fondamento di quella democrazia stessa? È possibile immaginare una democrazia in cui tutti possano partecipare sulla base dell’uguaglianza economica, culturale, sociale e politica? Se sostenessimo che tutti, in virtù del fatto di vivere in una determinata area, dovrebbero essere considerati cittadini e dovrebbero essere in grado di partecipare al governo e all’economia, ciò cosa significherebbe?

Amo questo tipo di domande. Quando intervistavo gente per il mio film What Is Democracy?, in particolare quando intervistavo giovani conservatori, mi aspettavo che mi dicessero quanto il capitalismo fosse democratico e usassero la retorica della democrazia. Ma ho scoperto, soprattutto nei giorni successivi alla vittoria di Donald Trump, che erano consapevoli del fatto che non sarebbero mai stati maggioranza. Dimentica il matrimonio tra capitalismo e democrazia: hanno preso la parte capitalista e sono diventati consapevolmente elitari. [Il mese scorso], abbiamo visto il repubblicano [il senatore Mike Lee] affermare su Twitter che non siamo una democrazia.

Dall’altro lato, sempre più gente si sta convincendo della necessità di tenere insieme socialismo e democrazia. Abbiamo bisogno di una base economica per l’uguaglianza. Non abbiamo i diritti e le libertà liberali che dovremmo avere perché c’è troppa disuguaglianza. Ma non credo che ciò risponda a tutte le nostre domande. Dobbiamo prevenire le questioni sulla democrazia nel socialismo. Come condividiamo il potere? Come viviamo un mondo in cui la ricchezza è messa in comune, in cui vogliamo che le persone abbiano il controllo sulle loro vite? Come stabiliamo chi deve essere a prendere una decisione? Penso che le questioni sulla democrazia sarebbero molto ricche e profonde.

Mi chiedo se il risultato delle elezioni del 2016 avrebbe potuto essere diverso se fosse stata prestata maggiore attenzione a coloro che stanno vivendo l’impatto del capitalismo globale: le famiglie bianche povere che ora riconoscono che i loro figli non staranno meglio di quanto stessero loro. Il risultato avrebbe potuto essere diverso se avessimo sviluppato strategie che ci avrebbero consentito di riconoscere che molti dei problemi esistenti in questo paese sono direttamente collegati all’ascesa e alla diffusione del capitalismo globale.

In effetti, prima avevamo più democrazia economica. Una volta le persone potevano aspettarsi di essere curate in qualsiasi ospedale se erano malate. Gli ospedali e l’intero sistema sanitario non erano stati privatizzati, come lo sono ora, il che è uno dei motivi per cui la pandemia Covid-19 ha generato lo stato di emergenza, in particolare per quanto riguarda i posti in ospedale, perché i letti in corsia vuoti non sono redditizi.

Se si guarda all’impatto del capitalismo globale, si spiega in gran parte l’ascesa del complesso carcerario industriale, così come la soppressione di molte istituzioni che fungevano da rete di sicurezza economica per la gente. Il mancato sviluppo di più istituzioni dedite al bene pubblico ha creato un terreno in cui la povertà si è espansa non solo tra le comunità nere,  anche tra i bianchi.

Donald Trump ha fatto leva su quelli che soffrivano fornendo false soluzioni, come il ritorno a un’epoca in cui l’economia industrializzata di questo paese rispondeva ai bisogni della gente. Non succederà. I posti di lavoro che si sono sparpagliati in tutto il mondo, in particolare al Sud, non torneranno negli Stati uniti. È importante considerare il modo in cui le trasformazioni economiche hanno un impatto diretto sulla democrazia.

Voglio farti una domanda sulla storia della persecuzione e degli attacchi alla sinistra e sul ruolo che questi hanno svolto nel minare la democrazia. Penso che ciò si riferisca a quello che stavi dicendo: la mancanza di sindacati solidi, di associazioni in cui le persone normali possono ottenere un’educazione politica radicale ed essere trattate come partecipanti attivi e riflessivi.

Per decenni, le persone coinvolte nelle lotte socialiste e comuniste hanno fatto riferimento all’«altra America». C’era l’America rappresentata da chi era al potere, e poi c’erano i sindacati e le lotte contro il razzismo e il sessismo. Quello che abbiamo perso nei nostri resoconti storici è il ruolo che i comunisti e i socialisti hanno svolto nell’espansione delle possibilità di democrazia in questo paese. Abbiamo un sussidio contro la disoccupazione come conseguenza delle lotte negli anni Trenta. I comunisti neri nel sud [aiutarono] a creare il terreno per il movimento per i diritti civili.

Oggi, visto che ci stiamo impegnando in quello che la gente chiama una «resa dei conti razziale», la nostra terminologia dovrebbe essere più ampia. Non è semplicemente una resa dei conti razziale. È una resa dei conti con la storia di questo paese, non solo la storia del razzismo e la storia dello sfruttamento di classe, ma anche la storia della resistenza. Se non siamo consapevoli di coloro le cui lotte hanno creato la democrazia come concetto mosso da aspirazioni, non come il modo per tenere insieme gli affari – ossia non semplicemente come il modo in cui il governo è organizzato, ma come lotta per una società più giusta, più equa – allora non abbiamo da dove cominciare. Non riconosciamo il continuum su cui si svolgono le nostre lotte.

Puoi riflettere un po’ sulla connessione tra carcerazione e democrazia? Stiamo andando a un’elezione in cui la privazione del diritto di voto in Florida potrebbe avvantaggiare i repubblicani. Questo è quello che è successo nel 2000. Ma è molto più profondo. Hai sottolineato che La democrazia in America di Alexis de Tocqueville è stato scritto dopo un giro nelle carceri della nazione. Hai detto che la reclusione è una negazione che la democrazia liberale richiedeva come prova della sua esistenza. Questa negazione – sono libero se non sei libero – è intrinseca alla democrazia o appartiene solo alla versione della democrazia  in  cui viviamo adesso?

Nel suo libro sulla schiavitù e la morte sociale, Orlando Patterson ipotizza che la democrazia occidentale debba nascere dalle aspirazioni degli schiavi a essere liberi. Il concetto stesso di libertà con cui lavoriamo richiede un senso di non libertà per spiegare la sua comparsa. La schiavitù era la prova tangibile della libertà per quelli che non erano ridotti in schiavitù. Ma con l’emergere delle carceri come punizione, in concomitanza con l’ascesa degli ideali rivoluzionari e la nascita della prigionia democratica, la punizione è diventata il ventre della democrazia.

Serve la democrazia capitalista per immaginare la reclusione come punizione, perché la reclusione implica la cessione dei diritti. Non avrebbe senso in una società che non riconosce i diritti individuali. Non avrebbe senso al di fuori del contesto di una società democratica. Penso che sia davvero importante tenere presente che quella negazione costitutiva della democrazia in realtà costruisce una democrazia che quindi deve essere negata a coloro che sono in prigione.

Voglio invitarti a dire qualcosa sull’idea del «femminismo abolizionista». Le femministe sociali, come molte altre, hanno pensato all’importanza della riproduzione sociale, che a volte implica il lavoro di cura. M’è sembrato un problema democratico, poiché siamo governati da un’amministrazione che sembra sprezzante della vulnerabilità. Debolezza, malattia e disabilità vengono derise. Mi piacerebbe sentire i tuoi pensieri sul femminismo, la democrazia e l’importanza della cura in una società democratica.

Generalmente presumiamo che quando parliamo di femminismo, affrontiamo questioni di genere. Naturalmente, dobbiamo affrontare le questioni di genere. Ma gli approcci femministi sono molto più ampi del semplice coinvolgimento del genere. Il «femminismo abolizionista» ci spinge a pensare a cosa potrebbe servire per iniziare a muoverci in una direzione democratica, vale a dire di cosa potremmo aver bisogno di gettare nella pattumiera della storia.

Consentitemi di usare un esempio di violenza di genere. Se non assumiamo l’idea che le istituzioni di polizia e carcerazione siano lì per risolvere questo problema, dobbiamo adottare un approccio molto più complesso. Questo è ciò che apprezzo del femminismo: mette in crisi la nostra analisi. Ci fa riconoscere che le realtà sociali non riflettono sempre la chiarezza delle categorie analitiche, che dobbiamo essere disposti ad accostarci al disordine della realtà sociale. Quando diciamo che la polizia e le carceri sono due istituzioni che devono essere gettate nella pattumiera della storia, come affrontiamo i problemi che queste istituzioni pretendevano di affrontare ma non potevano?

Il politico costruisce il personale e costruisce ciò che spesso assumiamo essere idee generate dalle nostre individualità. Una femminista sosterrebbe che non possiamo ottenere l’abolizione di polizia e carcere senza riconoscere anche che dobbiamo adattare un atteggiamento critico alle nostre emozioni e alle idee che pensiamo siano nostre. Mentre spesso sono le idee dello stato che lavorano attraverso di noi. Penso che queste intuizioni femministe siano essenziali quando si tratta di reinventare una democrazia maggiormente egualitaria e giusta per tutti.

Adesso parliamo di animali non umani. Il Covid non è un disastro naturale. Il salto di specie del virus è dovuto al fatto che gli esseri umani, sotto il capitalismo, stanno divorando il mondo naturale. Usiamo il 40% della superficie terrestre per le scorte di cibo. La prossima pandemia probabilmente emergerà da un allevamento industriale statunitense, perché stipiamo migliaia di animali in queste gabbie. C’entra anche il clima. Può essere utopistico pensare di includere la vita non umana nella nostra politica democratica. Personalmente sento che le nostre vite dipendono da questo. Con la distruzione dell’ambiente, le malattie aumentano di numero e di virulenza. La gente dice che dobbiamo dare la priorità agli umani come se la solidarietà fosse un gioco a somma zero, ma mi sembra che dobbiamo rifiutarlo ed espandere il cerchio delle nostre preoccupazioni. Che ne pensi?

Sono completamente d’accordo. Stabilire la priorità degli esseri umani porta anche a definizioni restrittive di chi è considerato umano, e la brutalizzazione degli animali è correlata alla brutalizzazione degli animali umani. Questo terreno di lotta sarà molto importante nel prossimo futuro.

Se vogliamo lottare per la libertà e la democrazia, dobbiamo riconoscere che le questioni diventeranno sempre più ampie, perché inizialmente la democrazia aveva a che fare solo con un piccolo sottogruppo di uomini bianchi e ricchi. Non sto dicendo che la traiettoria della storia sia automatica. Ma abbiamo visto come il concetto di democrazia sia andato allargandosi. E non vedo come possiamo escludere i nostri compagni non umani con cui condividiamo questo pianeta.

In precedenza, durante la pandemia, ho fatto un webinar con persone dell’Amazzonia brasiliana. Devono fare i conti col razzismo, ma anche con l’incendio dell’Amazzonia. Ciò suggerisce che bisogna evitare approcci ristretti. Dobbiamo lavorare contro la sindrome di Blinder, il che significa che non possiamo pensare solo alle persone in questo paese.

Per quanto riguarda il voto, gli immigrati che vivono in questo Paese dovrebbero poter votare perché fanno parte della comunità. Dovremo anche affrontare l’obsolescenza dello Stato-nazione. Sto pensando a questioni che molto probabilmente si presenteranno in futuro. Non so se ci sarò quando diventeranno mainstream. In fondo non pensavo che sarei stata in grado di assistere al mainstreaming dell’abolizione della polizia. Ma eccoci qui.

Nonostante tutte le esclusioni della democrazia, ci sono alcuni comuni in cui la residenza è l’unico requisito di voto. Ci sono altri paesi in cui non è necessario essere cittadini per votare. In alcuni stati, le persone in prigione potevano votare. E i candidati dovevano andare a visitare la prigione.

La nostra immaginazione è chiusa a cose che nel passato sono realmente esistite. Amo questa visione della democrazia come un cerchio in espansione: ciò che evoca sono le persone che si guardano indietro e dicono: «Vivevamo nell’età oscura della democrazia». Insieme a Critical Resistance, hai fatto un lavoro straordinario portando il concetto radicale di abolizione della prigione nel mainstream. Voglio che tu mi dica un po’ cosa si prova. E puoi anche parlare della tua straordinaria apertura ai nuovi attivisti e della tua volontà di imparare da loro?

Dobbiamo sfidare le gerarchie, comprese le gerarchie che sembrano scolpite nella pietra – come quelle che garantiscono agli anziani più potere e influenza in virtù dell’età e quelle che impongono alle giovani generazioni di seguire le orme degli anziani. Penso che dovremmo essere più egualitari.

Questo è uno dei modi in cui possiamo mettere in atto relazioni democratiche nel corso della lotta per il cambiamento, non solo nella relazionalità delle generazioni, ma anche in relazione a chi è in carcere e chi è fuori. Spesso, coloro che abitano il cosiddetto mondo libero presumono di avere una maggiore capacità di dare leadership rispetto a coloro che sono imprigionati. E sono grato a Critical Resistance, perché fin dall’inizio l’organizzazione ha insistito per portare coloro che erano effettivamente in prigione nella leadership.

Non credo che abbiamo abbastanza occasioni per creare la democrazia mentre lottiamo per la democrazia. Ma penso che anche questo sia un approccio femminista. Ci aiuta non solo a immaginare un nuovo mondo, ma a diventare degni di partecipare a quel mondo nel corso della lotta per esso.

È una risposta così meravigliosa. E penso che nello spirito della democrazia ora risponderemo ad alcune domande dal pubblico. Cosa ti ispira di Black Lives Matter? Cosa possiamo imparare dall’esperienza della Nuova Sinistra e dalle lotte dei movimenti sociali degli anni Sessanta?

Quel movimento è così eccitante. Le proteste di Ferguson e l’emergere di Black Lives Matter hanno avuto un impatto non solo in tutto il paese, ma in tutto il mondo: la comprensione del significato della «materia delle vite nere», che era stata così spesso interpretata erroneamente come «tutte le vite contano». La tirannia dell’universale, come mi piace chiamarla, è stata un modo per ignorare l’impatto e le esperienze particolari dei neri in questo paese.

Ho imparato tanto dalle tre donne che hanno fondato la rete Black Lives Matter e il Movement for Black Lives. I miei mentori durante questo periodo sono stati i giovani che hanno ripreso le lotte del passato e dato loro molta più sostanza. Mi ispira perché vedo una generazione che non dà per scontato quanto a lungo e duramente abbiamo lottato. Non solo sanno come articolare quella storia, sanno come espanderla e come sviluppare modi per trasformare il mondo che siano fonte di ispirazione.

Spesso, impariamo molto di più dai nostri errori che da ciò che abbiamo fatto correttamente, e le giovani generazioni devono essere preparate a sperimentare nel tentativo di capire come si costruiscono i movimenti. Qual è la lingua che piace alle persone? Anche se viviamo in un mondo fatto dal capitalismo razziale, come creiamo comunque una risposta critica? Come incoraggiamo le persone, i movimenti e le organizzazioni a riconoscere che alla fine dovremo smantellare questo sistema e muoverci in una direzione socialista?

Quando pensiamo a ciò che ha sostenuto le generazioni dalla Vecchia Sinistra alla Nuova Sinistra e oltre, vediamo che spesso avevano organizzazioni «centraliste democratiche» troppo rigide. Ma queste organizzazioni avevano un certo senso di appartenenza, di dibattito sul loro programma e la capacità di prendere le energie degli attivisti e incanalarle in veicoli organizzativi. Ora, vediamo la crescita diffusa di diverse organizzazioni a sinistra, ma sembra che siamo molto più dispersi. C’è qualcosa che abbiamo perso e che dobbiamo ritrovare?

Posso parlare di una serie di cose, ma per il momento mi concentrerò sull’internazionalismo. A volte mi chiedo perché non siamo stati in grado di creare un senso di connessione emotiva con persone in altre parti del mondo. Perché le donne nere in questo paese non sono più legate al movimento delle donne nere brasiliane? C’è così tanto che possiamo imparare dalle lotte delle donne nere in Brasile.

Desidero ardentemente il tipo di internazionalismo che ci fa sentire forti, ci fa riconoscere come i nostri desideri sono desideri che animano le persone in tutto il mondo. Non sto sostenendo che non ci sia internazionalismo oggi, perché ad esempio la Palestina ha certamente svolto un ruolo nell’indicare la via alle nostre lotte abolizioniste in questo paese. L’abolizione non significa sbarazzarsi delle prigioni; riguarda l’intero regime carcerario, e lo vediamo nella Palestina occupata. Per questo serve l’internazionalismo adesso.

*Angela Davis è professoressa emerita all’Università della California, a Santa Cruz. Astra Taylor è una scrittrice, regista di documentari e organizzatrice. Il suo ultimo film è What Is Democracy? e il suo prossimo libro è  Democracy May Not Exist, but We’ll Miss it When It’s Gone. Questo testo è apparso su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

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La lotta per cambiare il mondo secondo Angela Davis

(intervista di Lanre Bakare)

 

È il 1972. Angela Davis sta rispondendo alle domande di un giornalista svedese che le ha chiesto cosa pensa del ricorso alla violenza da parte delle Pantere nere. Alle sue spalle c’è il muro della cella di una prigione statale della California. Davis indossa un dolcevita rosso e porta la sua classica pettinatura afro. Con una sigaretta accesa tra le dita, fissa il giornalista con uno sguardo penetrante, poi risponde: “Mi chiede se approvo la violenza? Per me è una domanda senza senso. Mi chiede se approvo l’uso delle armi? Sono cresciuta a Birmingham, in Alabama. Alcuni miei amici sono stati uccisi dalle bombe fatte esplodere dai razzisti. Del periodo in cui ero molto piccola ricordo il rumore delle bombe che esplodevano, la casa che tremava. Per questo motivo, quando qualcuno mi chiede di parlare della violenza, mi sembra incredibile. Significa che la persona che mi sta davanti non ha la minima idea di cosa abbiano subìto gli afroamericani in questo paese dal momento in cui il primo nero è stato rapito sulle coste dell’Africa”.

Osservando il breve filmato si capisce perché Angela Davis è diventata un’icona. L’immagine, la determinazione, l’intelligenza. Davis è stata immortalata nel documentario del 2011 The black power mixtape, e alcuni spezzoni dell’intervista sono stati diffusi sui social network dopo che George Floyd, un nero di 46 anni, è stato ucciso da un poliziotto a Minneapolis, scatenando proteste in tutto il mondo. Oggi il suo libro Donne, razza e classe (Alegre 2018), pubblicato nel 1981, è considerato una lettura essenziale per chiunque voglia capire cos’è l’attivismo antirazzista, insieme a La prossima volta il fuoco di James Baldwin (Fandango 2020) e all’autobiografia dell’abolizionista Frederick Douglass.

 

Angela Davis ha 76 anni. È collegata via Zoom dal suo ufficio, in California. Le chiedo se dopo tutti questi anni ha la sensazione che un cambiamento concreto sia possibile. “Certo, la situazione oggi potrebbe essere diversa”, risponde. “Ma non è scontato”. Davis, comprensibilmente, si mostra prudente. D’altronde nella sua vita ha visto di tutto, dalle rivolte del 1965 a Watts, un quartiere di Los Angeles, alla guerra in Vietnam fino all’invasione dell’Iraq e ai disordini di Ferguson. “Dopo tutti i momenti segnati da una grande consapevolezza e dalla volontà di cambiamento, le riforme che sono state introdotte hanno cancellato qualsiasi possibilità di un cambiamento radicale”.

Davis, nel complesso, trova incoraggianti le proteste innescate dalla morte di Floyd. Non è la prima volta che gli Stati Uniti assistono alla nascita di movimenti su larga scala – l’ultima volta nel 2014, dopo la morte di Michael Brown, Tamir Rice ed Eric Garner – ma Davis pensa che oggi qualcosa sia cambiato: i bianchi stanno cominciando a capire.

“Non avevamo mai visto manifestazioni così prolungate, partecipate e diversificate”, sottolinea. “Penso che questo stia dando molta speranza alla gente. In passato, quando dicevamo Black lives matter (le vite dei neri sono importanti), c’era sempre qualcuno che diceva: ‘Ma non sarebbe meglio dire che tutte le vite sono importanti?’. Ora finalmente hanno capito. Si sono resi conto del fatto che fino a quando i neri verranno trattati in questo modo, fino a quando la violenza del razzismo resterà inalterata, nessuno sarà al sicuro”.

Se c’è una persona adatta a valutare la situazione attuale è sicuramente Angela Davis. Per cinquant’anni è stata una delle intellettuali più importanti della campagna per la giustizia razziale, anche se le cause che ha difeso – riforma carceraria, riduzione dei fondi della polizia, riorganizzazione del sistema di rilascio su cauzione – sono state sempre considerate troppo radicali. A un certo punto è sembrato che Davis fosse rimasta congelata nel passato, vincolata allo stile “radical chic” degli anni sessanta e sostenitrice di idee ormai fuori moda. Nel 2016 un giornalista del Wall Street Journal scrisse un ritratto dell’attivista in cui chiedeva ai suoi colleghi se conoscessero Davis. Tra quelli che non avevano ancora compiuto 35 anni nessuno sapeva chi fosse.

 

Oggi, a cinquant’anni dall’inizio della sua lotta, Davis sembra improvvisamente diventata il simbolo della giustizia sociale, ma ci tiene a riconoscere i meriti della nuova generazione di attivisti e pensatori politici. “Osservo questi ragazzi, così intelligenti e capaci di apprendere dal passato per creare nuove idee. Imparo molto anche da persone che hanno cinquant’anni meno di me. È emozionante, mi spinge a continuare la lotta”.

“Anche se la portata della reazione è sicuramente nuova, la causa non lo è, e penso sia importante sottolinearlo”. Davis non vuole che si dimentichi l’impatto dell’impegno sociale delle Pantere nere negli anni sessanta, in particolare dell’attivismo di comunità, dei laboratori formativi e dei banchi alimentari. “La causa va avanti da molto tempo. Ciò che osserviamo oggi nasce da un lavoro che è stato fatto per anni e che non ha ricevuto la giusta attenzione da parte dei mezzi d’informazione”.

Davis parla della militarizzazione della polizia statunitense dopo il Vietnam e dell’apertura per una riforma carceraria dopo la rivolta nel penitenziario di Attica del 1971, che però non è mai arrivata, almeno non nella forma che lei aveva immaginato. All’epoca della rivolta la popolazione carceraria degli Stati Uniti era di 200mila detenuti. Alla fine degli anni novanta è arrivata a più di un milione. “Ripensando a quel periodo ci siamo accorti che le riforme non hanno fatto altro che consolidare il sistema. Oggi abbiamo il timore che succeda di nuovo”.

Quale consiglio ha dato al movimento Black lives matter? “Dal mio punto di vista la cosa più importante è cominciare a esprimere idee su come far evolvere il movimento”. Naturalmente si tratta di un aspetto difficile da analizzare nel fervore di una protesta che si sta diffondendo in tutto il mondo. Tuttavia, per Davis è importante capire che l’incendio di un commissariato a Minneapolis o la rimozione della statua di Edward Colston a Bristol non sono la risposta definitiva. “A prescindere da quello che pensano le persone, questi gesti non porteranno un cambiamento reale”, spiega riferendosi alla rimozione della statua. “Ciò che conta è l’organizzazione, il lavoro. Bisogna continuare a lavorare, a organizzarsi per combattere il razzismo, a trovare nuovi modi per trasformare le nostre società. Solo così si può fare la differenza”.

Angela Yvonne Davis è nata a Birmingham, in Alabama, nel 1944. All’epoca uno dei politici più potenti della città e dello stato era il suprematista bianco Bull Connor. Conosceva alcune delle quattro ragazze che morirono nell’attentato realizzato dal Ku Klux Klan nel 1963 contro una chiesa battista, un crimine per cui le prime incriminazioni arrivarono solo nel 1977. “Sapevamo che il ruolo della polizia era quello di proteggere i bianchi”, ricorda Davis.

A 15 anni si trasferì a New York per frequentare le scuole superiori, per poi spostarsi in Germania Ovest e studiare filosofia e marxismo seguendo Herbert Marcuse e la scuola di Francoforte. Tornata negli Stati Uniti alla fine degli anni sessanta, entrò nel partito delle Pantere nere e nel Partito comunista. A causa dei suoi legami con il comunismo, il governatore della California dell’epoca, Ronald Reagan, la fece licenziare dall’incarico di assistente di filosofia all’università della California (Ucla).

Poi, nel 1970, la vita di Davis cambiò radicalmente. Un fucile che aveva comprato legalmente fu usato in un tentativo di fuga da un tribunale. La vicenda si concluse con la morte di un giudice che era stato rapito, oltre che di Jonathan Jackson (lo studente che aveva tentato la fuga) e altri due imputati. Davis fu accusata di “rapimento aggravato e omicidio di primo grado” perché aveva comprato il fucile, e dopo una breve latitanza fu arrestata a New York. Aretha Franklin contribuì a pubblicizzare il suo caso offrendosi di pagare la cauzione, mentre i Rolling Stones e John Lennon scrissero canzoni su di lei. La causa di Davis diventò famosa in tutto il mondo, fino a quando fu assolta dopo 18 mesi di carcere. Quell’episodio la trasformò nel simbolo internazionale dell’attivismo politico di ogni genere. “Sono felice di essere ancora viva. Sono testimone di tutto ciò che sta accadendo, anche per conto di quelli che non ce l’hanno fatta”.

Davis sa che ha rischiato di essere tra quelli che non ce l’hanno fatta. All’epoca dell’intervista con il giornalista svedese, nel 1972, era ancora in carcere con l’accusa di omicidio e rischiava la pena di morte. Molti esponenti delle Pantere nere sono morti in modo violento: Fred Hampton fu ucciso durante una retata della polizia a Chicago, mentre Bobby Hutton fu assassinato a Oakland anche se si era arreso agli agenti (Marlon Brando pronunciò il suo elogio funebre). Altri sono ancora in carcere (Mumia Abu-Jamal) o in esilio (Assata Shakur). “So che avrei potuto fare la stessa fine”, ammette Davis. “Potrei essere in prigione, avrei potuto essere condannata all’ergastolo. A salvarmi la vita è stato l’impegno di molte persone in tutto il mondo. In un certo senso il mio lavoro si è sempre basato sulla consapevolezza che sono qui solo perché molte persone hanno fatto lo stesso lavoro per difendermi. Continuerò a fare quello che faccio, fino al giorno in cui morirò”.

Come avviene il cambiamento
Dopo essere uscita dal carcere, Davis ha fatto di tutto per evitare che il contributo delle donne alla causa per i diritti civili fosse ignorato. Oggi vede lo stesso impegno da parte degli attivisti che combattono per fare in modo che le donne vittime della violenza della polizia – come Breonna Taylor, uccisa a Louisville, in Kentucky, da agenti che avevano fatto irruzione nel suo appartamento – abbiano la stessa visibilità dei maschi. “La maschilizzazione della storia va avanti da decenni, da secoli”, sottolinea Davis. “I racconti dei linciaggi, per esempio, tralasciano spesso il fatto che molte vittime erano donne nere, così come donne e nere erano molte persone che si sono battute contro i linciaggi, come Ida B Wells”.

“È importante cogliere la tendenza alla maschilizzazione della lotta e chiedersi perché non riusciamo a riconoscere che le donne sono sempre state al centro della causa, sia come vittime sia come attiviste”.

In questo momento ad affermarsi non sono solo le idee di Davis sulla riforma della polizia e la giustizia sociale, ma anche le sue riflessioni su come realizzare il cambiamento. Per decenni Davis ha promosso un pensiero femminista che si oppone alla leadership e alle forme di resistenza iper-maschiliste. Secondo Davis, i movimenti Occupy e Black lives matter hanno portato una grande novità con il loro rifiuto di darsi una leadership riconoscibile.

“In questo paese molti si chiedono dove siano i nuovi Martin Luther King, Malcolm X e Marcus Garvey. Naturalmente quando pensano ai leader immaginano uomini neri e carismatici. Ma i movimenti radicali più recenti creati dai giovani hanno avuto un’impronta femminista e hanno privilegiato la leadership collettiva”.

Le chiedo se non esiste un conflitto tra il suo approccio al cambiamento – comunitario e senza leader – e il suo status personale. “Non posso prendermi troppo sul serio”, risponde. “Lo ripeto continuamente. Da sola non avrei potuto ottenere niente di tutto questo. Il merito è del movimento e del suo impatto”.

Già in passato Davis ha cercato di portare il movimento antirazzista al centro del dibattito pubblico. Nel 1980 si candidò alla vicepresidenza degli Stati Uniti con il Partito comunista statunitense. In un intervento del 2006 ha attaccato l’amministrazione di George W. Bush. Oggi non vuole nemmeno pronunciare il nome di Donald Trump e preferisce definirlo come “l’attuale inquilino della Casa Bianca”. Le chiedo se la democrazia statunitense, allo stato attuale, lasci spazio a idee radicali sul cambiamento sociale. “Non credo che possa accadere”, risponde. “Almeno non con gli attuali dirigenti dei due partiti politici principali”.

Cosa pensa Davis del fatto che alcuni democratici si siano inginocchiati per esprimere solidarietà ai manifestanti? Di recente Nancy Pelosi, presidente della camera dei deputati, e alcuni suoi importanti colleghi di partito hanno indossato indumenti di kente, un tessuto tipico ghaneano che gli era stato regalato dai rappresentanti afroamericani del congresso. Il loro obiettivo era mandare un messaggio ai cittadini neri, una base elettorale decisiva su cui il candidato democratico alla presidenza Joe Biden non riesce a far presa. “Lo hanno fatto solo perché vogliono stare dalla parte giusta della storia, ma non è detto che vogliano anche fare la cosa giusta”, risponde Davis con un certo distacco.

Durante le sue conferenze Davis racconta spesso di quando, da bambina, chiedeva alla madre perché non potesse andare al parco giochi o alle librerie di Birmingham. La madre, che era un’attivista, le spiegava come funzionava la segregazione, ma non si fermava lì. “Ci ripeteva continuamente che le cose sarebbero cambiate e che noi avremmo fatto parte del cambiamento. Così ho imparato fin da piccola a vivere in un contesto di segregazione razziale, ma anche, contemporaneamente, a immaginare un nuovo mondo, con la certezza che la situazione non sarebbe rimasta la stessa per sempre. Mia madre ce lo diceva sempre: ‘Non è così che dovrebbero andare le cose, non è così che dovrebbe essere il mondo.’”

 

(Traduzione di Andrea Sparacino)

 

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