1914: il mondo, in procinto di sprofondare nel baratro della prima guerra mondiale, è segnato da diseguaglianze estreme. In Francia l’1% della popolazione detiene il 55% della ricchezza; in Svezia questa quota raggiunge il 60%; nel Regno Unito, in cui la concentrazione della proprietà terriera è particolarmente elevata, il 70%. Più in generale, nell’Europa della belle époque, in media, il 10% più ricco detiene l’85-90% della proprietà privata complessiva, di contro all’1-2% posseduto dal 50% dei più poveri e al 10-15% in mano alle classi intermedie. L’Europa è la terra della diseguaglianza, più di quanto non siano, in questo periodo, gli Stati Uniti. A sostegno di queste disparità stratosferiche, che interessano sia i patrimoni (immobiliari, mobiliari, finanziari) sia, in misura minore, i redditi, con drammatiche ricadute sull’accesso all’istruzione, alla casa, alla salute, regna incontrastata l’ideologia “proprietarista”, che sanziona l’intangibilità e l’assolutezza della proprietà privata.
1970-80: il potere dei super-ricchi ha subito un
drastico ridimensionamento. Il centile superiore della popolazione nei tre
paesi prima ricordati (Francia, Svezia e Regno Unito) possiede ormai “solo” il
15-20% dei patrimoni. Ma è il livello complessivo delle diseguaglianze
economico-sociali a essere precipitato, in tutta Europa e in Giappone,
scendendo a livelli inferiori a quelli statunitensi. Ė calato il numero delle
persone talmente ricche da vivere di rendita e cresciuto il numero dei
lavoratori in grado di acquistare una casa o di aprire una piccola attività.
«Il crollo degli alti patrimoni – commenta Piketty – è stato tanto più
spettacolare in quanto nulla aveva fatto presagire un’evoluzione del genere,
prima dello scoppio della prima guerra mondiale» (p. 487). Ciò che prima
appariva impensabile, indicibile, inaudito, durante i “trent’anni gloriosi”
(1946-75) si verifica, senza che gli stessi ceti colpiti nei loro privilegi
riescano a opporre qualcosa di più di una flebile resistenza: espropri,
nazionalizzazioni, misure dirette a calmierare gli affitti e i prezzi,
tassazione fortemente progressiva dei redditi e dei patrimoni.
La proprietà, ancora «sacra e inviolabile» alle soglie
della prima guerra mondiale, viene detronizzata e i diritti corrispondenti
declassati a diritti di seconda categoria, garantiti, ma solo entro certi
limiti e funzionalizzati, come dice la Legge fondamentale tedesca (ma anche la
Costituzione italiana, che Piketty non menziona), al bene collettivo.
Significativa è ad esempio la scelta, in diversi paesi, di effettuare prelievi
straordinari sui patrimoni privati per abbattere il debito pubblico gonfiato dalle
spese belliche. In Francia l’imposta di solidarietà nazionale istituita con
un’ordinanza del 15 agosto 1945 si traduce in prelievi eccezionali sui
patrimoni più ingenti e sugli arricchimenti realizzati tra il 1940 e il ’45,
con aliquote che arrivano al 100%. Di lì a pochi anni, nel 1956, la
nazionalizzazione del canale di Suez, voluta da Nasser, si tradurrà in un
esproprio senza tanti complimenti degli azionisti francesi e britannici. Una
scelta dalla portata non solo simbolica, che incide sulle stesse diseguaglianze
interne alle società europee, dove sono gli investitori più ricchi a registrare
le maggiori perdite. Non bisogna poi dimenticare la tassazione ordinaria sui
redditi e sulle successioni, che nel corso del Novecento viene ad assumere un
carattere sempre più progressivo: se nel 1900 le aliquote sui redditi e i
patrimoni più elevati erano ovunque inferiori al 10%, negli Stati Uniti tra il
1932 e il 1980 esse salgono, rispettivamente, all’81% e al 75% (in media),
mentre nel Regno Unito nello stesso periodo si attestano su una media dell’89 e
del 72%.
Come è stato possibile un cambiamento tanto radicale?
Piketty insiste molto sul ruolo delle idee e delle ideologie (o “grandi
narrazioni”) nel trainare il cambiamento, tanto da attirarsi le critiche di chi
intravede nella sua impostazione un eccesso di idealismo. In realtà, nelle
quasi milleduecento pagine di Capitale e ideologia (La nave di
Teseo, 2020) non manca l’attenzione per le condizioni storico-sociali che
rendono possibile il cambiamento. Nello specifico, la svolta dei “trent’anni
gloriosi” risulterebbe incomprensibile senza ricordare tre fondamentali fattori
che l’hanno preparata: un profondo trauma, un imponente ciclo di mobilitazioni,
una grande speranza.
Il trauma, anzi i traumi all’origine della crisi della
“società dei proprietari” sono presto detti: le due guerre mondiali, la grande
depressione, la rivoluzione bolscevica (shoccante per qualcuno, liberatoria per
altri). La speranza che mette le ali alle proteste dei più svantaggiati, spingendoli
a organizzarsi in movimenti, sindacati, partiti, è la comparsa sulla scena del
mondo di un modello sociale alternativo al capitalismo, che sembra incarnare il
sogno di una società più giusta e solidale. Costringendo gli stessi ceti
abbienti all’interno dei paesi capitalisti ad accettare politiche economiche e
fiscali volte a ridurre gli squilibri più evidenti di un modello che rischia
altrimenti di schiantarsi e di travolgere le loro stesse fortune. Di qui il
passaggio a un modello di economia mista, la costruzione dei moderni sistemi
di welfare, l’introduzione, in alcuni paesi (tra cui la Germania e
la Svezia) di forme di co-gestione delle imprese.
E oggi? Di fronte a una forbice della diseguaglianza
tornata, nell’ultimo quarantennio, ad allargarsi vertiginosamente, fino a
tornare a livelli paragonabili a quelli della belle époque,
possiamo chiederci se siano presenti almeno alcune delle condizioni che erano
venute a crearsi nel corso del Novecento. Sul piano dei traumi, direi che ci
siamo: la grande crisi del 2008 e, oggi, la pandemia da covid-19, con i suoi
effetti devastanti sull’economia mondiale, hanno fatto sostenere a molti che
«nulla potrà più essere come prima». E tuttavia è chiaro – Piketty lo ribadisce
più volte – che nella storia non esistono automatismi, né traiettorie uniche e
predeterminate. Ed è dunque ben possibile che questa crisi, anche
questa crisi, venga “sprecata” (per usare le parole di Mariana Mazzucato),
al pari di quella del 2008, o peggio. L’eventualità di uno sbocco a destra –
una destra brutale, disumana, fascista – anziché a sinistra non è affatto
peregrina ed è anzi assai probabile, in assenza di un progetto
economico-sociale-culturale alternativo a quello dominante, in grado di
suscitare mobilitazioni e di indirizzare la rabbia del ceto medio impoverito
contro i privilegi dell’1% o del 10%, e non contro chi vive condizioni di
ancora maggiore povertà e marginalità.
Certo, dopo l’esperienza fallimentare del socialismo
reale, è oggi difficile intravedere all’orizzonte un progetto credibile di
superamento del capitalismo, reso tanto più indispensabile dalla catastrofe
climatica in corso. E tuttavia, qualche indicazione utile a muovere passi nella
giusta direzione emerge dal volume di Piketty, il cui principale pregio – a mio
avviso – non consiste solo, o soprattutto, nella proposta di tutta una serie di
riforme (riguardanti il fisco, gli assetti proprietari, un radicale
ripensamento dell’Unione europea anche a Trattati invariati), ma nell’adozione
di uno “sguardo lungo” sulla storia, che consente di sdrammatizzare il presente
e di ampliare la nostra percezione del possibile.
Mi limito qui a toccare un solo punto. A proposito del
debito pubblico, che nel nostro paese schiaccia come un macigno ogni velleità
di giustizia sociale, chi l’ha detto che l’unico modo per ridurlo consista
nell’attingere agli avanzi primari del bilancio (a detrimento della spesa
sociale) o nel lasciar galoppare l’inflazione (che colpisce allo stesso modo
abbienti e meno abbienti)? «La riduzione dei debiti pubblici derivanti dalle
guerre novecentesche dimostra che è possibile operare in modo diverso. Debiti
che nel quinquennio 1945-1950 oscillavano tra il 200 e il 300% del reddito
nazionale furono pressoché azzerati nel giro di pochi anni dalla Francia e dalla
Germania», ma anche dal Giappone, che scelsero la strada dell’imposizione di
prelievi straordinari (e progressivi) ai super-ricchi (p. 509). «La giovane
Repubblica Federale Tedesca introdusse varie forme di esazioni progressive ed
eccezionali sui patrimoni privati, che i proprietari interessati furono tenuti
a pagare per diversi decenni, in alcuni casi fino agli anni Ottanta del
Novecento». A contribuire al risanamento dei bilanci tedeschi, riducendo la
forbice della diseguaglianza e ponendo le basi per la spettacolare crescita
successiva, fu anche la sospensione (nel ’53) e poi la definitiva cancellazione
(al momento dell’unificazione tedesca, nel 1991), del debito estero della
Germania. A dimostrazione che ciò che è stato sciaguratamente negato alla Grecia
nel 2015 era – ed è – nell’ordine del possibile, e del ragionevole, anche sul
piano strettamente economico. Degna di nota è anche l’entità del prelievo
eccezionale applicato dal Giappone nel 1946-1947, «con tassi che arrivarono al
90% sui principali portafogli» (p. 505).
«Siamo in guerra» – ci sentiamo ossessivamente
ripetere in questi giorni di coprifuoco e zone rosse. Perché non trarre qualche
insegnamento dal modo in cui dall’ultima grande guerra siamo usciti, ponendo le
basi per il trentennio più egualitario, e più prospero, di sempre?
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