Non passa neanche un quarto d’ora dall’annuncio alla Cnn della vittoria di
Joe Biden che su WhatsApp cominciano ad arrivare da San Francisco, Los Angeles,
New York i video delle manifestazioni spontanee di esultanza. Dopo quattro
giorni appesi all’ansia per la conta salta il tappo di quattro anni plumbei,
aggressivi e depressivi, che avevano immerso nella malinconia il sogno
americano. Non che adesso si apra un futuro radioso: asserragliato nella Casa
Bianca con i suoi avvocati, il presidente sconfitto si rifiuta di telefonare al
vincitore come prassi vorrebbe e promette ancora tempesta. Domani chissà che
succede, ma adesso è il momento della festa. L’inviato politico afroamericano
della Cnn piange in diretta: “Da oggi è più facile dire ai nostri figli in che
paese vivono. We couldn’t breathe”. Non si
respirava più. George Floyd è vendicato.
Passano ancora una decina di minuti e le tv cominciano a snocciolare i
messaggi ufficiali di felicitazioni dei capi di stato e dei vertici europei:
Merkel e Macron, Mattarella, Sassoli e Von der Leyen brindano al
riavvicinamento delle due sponde dell’Atlantico. Il presidente sconfitto non
riconosce il vincitore, ma il mondo sì: di fronte al fatto compiuto, diventa
sempre più difficile per Trump inventarsi i suoi scoppiettanti “fatti
alternativi”. Poche ore dopo, dal fortino dello Studio ovale arriverà una
briciola di senno: il presidente uscente riconoscerà l’esito legale del voto,
non si sa quando e a quali condizioni ma prima o poi, gli stanno spiegando i
figli e gli avvocati, sarà costretto a farlo, la vittoria di Biden essendo tale
che nessun riconteggio in questo o quello stato può metterla in discussione.
La direzione della storia
Kamala Harris sale sul palco del parcheggio tirato a festa e popolato di
mascherine anticovid di Wilmington, la città di Joe Biden nel Delaware, quando
in Italia sono passate le due di notte. È magnifica nel suo tailleur bianco,
raggiante nei suoi tratti meticci, e d’improvviso con la sua comparsa si palesa
la direzione vera che la storia sta prendendo. Il duello tra i due maschi
bianchi ultrasettantenni che ha occupato fin qui il centro della scena sfuma
come d’incanto sullo sfondo mentre in primo piano si materializza la metà
rimossa della storia americana: “La genealogia delle donne nere, ispaniche,
immigrate che come mia madre hanno aperto la strada a questo momento, che sono
da sempre la spina dorsale della nostra democrazia, che hanno lottato in
passato per il diritto di voto e che oggi continuano a lottare per farsi
ascoltare”. Figlia di immigrati, nera, asiatica, Kamala Harris è la prima donna
a varcare da vicepresidente la soglia della Casa Bianca e a varcarla senza
essere la moglie di nessuno, “ma di certo non sarò l’ultima”: un nuovo primato
apre una nuova possibilità. Interrotta da Trump, la narrativa del sogno
americano può ricominciare.
Biden si incarica di completarne il canovaccio, presentandosi come da
copione come il presidente di tutti: “Non ci sono stati blu e stati rossi, ci
sono solo gli Stati Uniti d’America”. Ringrazia l’immensa moltitudine dei suoi
che si è mobilitata per eleggerlo – mai nella storia tanti voti, quasi 75
milioni, un altro primato – ma ha di fronte un paese spaccato in due e deve
riunificarlo in qualche modo; nomina uno per uno i segmenti della coalizione sociale
che sono confluiti sul suo nome, “i neri, i bianchi, i latini, i gay e gli
etero” ma fa appello agli sconfitti, “vi capisco, anche a me è capitato di
perdere, non è piacevole, ma adesso siamo tutti americani”, e lui è lì “per
guarire l’America” e ritrovarne l’anima “col potere dell’esempio e l’esempio
del potere”.
We did it!
Come sempre nei momenti topici, l’istantanea del palco di Wilmington
restituisce lo stato delle cose più di mille analisi politologiche. Con la sua
sola fisicità, ma anche con la sua retorica scarna e diretta – “Hi Joe, we did it!”, così la sua telefonata di congratulazioni a
Biden – Harris archivia d’un botto l’estetica mortifera,
plastificata e berlusconiana, della corte di Trump, e d’un botto riporta alla
memoria quella piena di vita e di futuro della famiglia nera che nel 2008 era
salita sull’indimenticabile palco del parco di Chicago. Il backlash trumpiano, suprematista e razzista, che
nel 2016 aveva cercato di mettere una pietra tombale sull’era obamiana
sconfiggendo al contempo la prima candidata bianca alla presidenza viene
fermato non per caso dall’ex vice, bianco, di Obama e da un’altra donna,
meticcia come Obama. Nei momenti topici, la storia presenta sempre il conto e i
conti, alla fine, tornano.
La narrativa progressista dell’esperimento americano può ripartire, ma non
siamo nel 2008, se non per il fatto che oggi come e più di allora, incombe sul
governo democratico una crisi economica di proporzioni incalcolabili. Quattro
anni di populismo suprematista lasciano un segno anch’esso incalcolabile e non
si sa quanto cicatrizzabile, e dalle urne esce un paese spaccato in due come
una mela, polarizzato politicamente e soprattutto, in una delle due metà,
psichicamente bipolare, oscillante fra fissazioni identitarie e incubi complottistici,
cognitivamente disorientato sul confine perduto tra vero e falso. L’anima
dell’America, quella che Biden evoca come discendente dai Lumi e alleata della
scienza al tempo del covid, faticherà non poco a riportare alla razionalità
politica l’emotività postpolitica del popolo trumpiano. E non si tratta
soltanto, come pensano in coro molti commentatori di casa nostra, di mettere
all’opera l’abilità da politico di lungo corso di Biden, la sua sperimentata
capacità di mediare con un senato che probabilmente resterà repubblicano e di
comporre una squadra di governo incorporando i moderati della sua coalizione e
magari qualche repubblicano in fuga dal trumpismo. Le cose saranno più
complicate, e lo schema di gioco, per fortuna, meno scontato.
Guardando all’esito del voto infatti, e in attesa che le consuete analisi
sociologiche forniscano dati più precisi sulla sua composizione demografica,
sociale e culturale, il quadro che emerge è più articolato di quello che
impazza nei nostri talk. Per quanto polarizzata, la situazione non è affatto
simmetrica, e soprattutto non sospinge affatto verso un’ennesima riedizione del
già perdente centrismo democratico. In primo luogo, la partecipazione oceanica
al voto è il segnale di una politicizzazione vitale della società americana, di
cui un vettore è stato indiscutibilmente lo stesso populismo trumpiano, ma
l’altro, altrettanto indiscutibilmente, è stata la mobilitazione incessante dei
movimenti di contestazione del trumpismo. Lo dice benissimo Harris nel suo
discorso: “La democrazia non è uno stato, è un atto. Non è garantita, è forte
solo se non la diamo mai per scontata e la difendiamo praticandola. Per quattro
anni avete lottato per le nostre vite e per il nostro pianeta, e poi avete
votato”: senza di voi, sottinteso, non ce l’avremmo fatta.
In secondo luogo, la vittoria di Biden, per quattro lunghi giorni sul filo
del rasoio, alla fine non è affatto una vittoria di misura. Non solo
numericamente, per via dei quasi cinque milioni di voti di scarto rispetto a
Trump (dei quali più della metà californiani, tanto per capire da che parte
batte il vento del cambiamento), ma soprattutto politicamente. Biden ha
riportato a casa il voto operaio bianco del “muro blu”, ha strappato a Trump
alcuni stati decisivi, gli ha conteso l’elettorato frammentato ma cruciale
della suburbia metropolitana, ha prevalso tra i neri e, salvo che in Florida,
fra gli ispanici del sud e del sudovest, già determinanti per la sua vittoria
alle primarie, ha raccolto il sostegno, preparato da Bernie Sanders e
Alexandria Ocasio-Cortez, della nuova classe operaia, se così possiamo
chiamarla, fatta di precari ed essentials. È vero
ovviamente che Biden non avrebbe vinto senza il sostegno di larghi settori
dell’establishment centrista; ma è altrettanto vero che
non avrebbe vinto neanche senza il sostegno della sinistra dentro e fuori il
suo partito. È la differenza cruciale che passa fra la vittoria di “zio Joe”
oggi e la sconfitta di Hillary Clinton ieri.
La partita di Bernie Sanders
Niente è stato frutto del caso, e anche per questo – in terzo luogo – il
risultato è carico di valore politico. Non è vero, e non è mai stato vero, che
Sanders sarebbe stato un candidato migliore: Biden ha fatto bene a perseverare
quando, all’inizio delle primarie, era dato da tutti per spacciato e Sanders
pareva volare; la parola d’ordine della maggiore “eleggibilità” del candidato
moderato ha funzionato. Ma ha funzionato solo perché l’hanno sostenuto l’ala
radicale dei dem e un movimento sociale plurale e intelligente che si è snodato
in tante forme, dalle women’s march al #MeToo, da Black lives matter al
sabotaggio del muslim ban, dalle lotte dei precari alla magnifica campagna
elettorale vincente delle candidate di nuova generazione nel mid term.
Perciò, se il sentiero della pacificazione con i repubblicani e con il
popolo trumpiano è stretto, la strada di un’alleanza stabile fra moderati e
radicali è obbligata. Niente destina Biden a una deriva centrista: l’anima
americana che lui invoca, di un’America devastata non solo dal trumpismo ma
anche dalla pandemia e dal tracollo economico, ha bisogno con ogni evidenza di
una svolta riformista. Se l’immaginario dei movimenti ha pescato nella storia
lunga delle lotte contro la segregazione razziale, l’immaginario democratico
deve pescare, oggi, nella memoria rooseveltiana del New Deal.
Si vedrà nel frattempo che ne sarà del lascito di Trump, che non ha solo
mantenuto, com’era nelle previsioni, il suo consenso ma l’ha accresciuto, non
solo nelle zone rurali ma perfino in settori insospettabili come l’elettorato
femminile bianco e in quello gay, a dimostrazione che il populismo scompagina
tutte le caselle e le linee di conflitto novecentesche con cui siamo abituati a
ragionare. Il presidente sconfitto non ha molti appigli per le sue fantasie
golpiste: il rito del voto ha tenuto, e il sistema giudiziario non è nelle sue
mani per quanto lui abbia fatto di tutto per appropriarsene, dai tribunali
statali alla corte suprema. La forma democratica ha retto al suo assalto e reggerà
a quello eventuale dei Proud boys. Anche per lui, la strada è solo politica:
deve decidere che fare del capitale di consenso accumulato, e lo stesso dovrà
fare il suo partito, per ora incerto fra la tentazione di mollarlo e quella di
incassare il suo malloppo di settanta milioni di voti.
Nel mondo intanto l’internazionale sovranista, dal Sudamerica all’Europa
dell’Est, d’improvviso piange. Quanto a noi qui sull’altra sponda
dell’Atlantico, abbiamo capito che il sovranismo populista può portare le pericolanti
democrazie occidentali sull’orlo del baratro, ma può essere sconfitto, quando
il popolo plurale che si mobilita dal basso intorno a valori di uguaglianza,
giustizia sociale e solidarietà prevale sul popolo mobilitato dall’alto e
compattato da leader superomisti sulla base di valori gerarchici e identità
escludenti. Forse la politica può rimettersi in moto anche da questa parte
dell’oceano.
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