Kamala
Harris, raggiungendo la vice-presidenza degli Stati Uniti, come vice di Joe
Biden, frantuma non uno ma ben tre tetti di cristallo. Quello di genere
innanzitutto, quello razziale e quello migratorio. La rilevanza storica di
questo risultato della senatrice californiana, è comparabile con quella che 12
anni fa portò alla candidatura e alla vittoria di Barack Obama. Prima di lei
solo tre donne erano state candidate. Alla vice-presidenza Geraldine Ferraro
nel 1984 in ticket con Walter Mondale contro Ronald Reagan; Sarah Palin con
John McCain contro Barack Obama; Hillary Clinton alla presidenza contro Trump;
sono state le uniche tre donne a contendere la Casa Bianca, finendo sempre sconfitte.
In un’epoca storica votata al pessimismo, in particolare per le istanze di
progresso e uguaglianza, invece Kamala Harris rappresenta un passo
straordinario nella caduta del plurisecolare dominio del maschio bianco sul
pianeta, così plasticamente incarnato da Donald Trump e della riproposizione
della necessità di ridurre le disuguaglianze, che questa è stata capace di
colmare da outsider assoluta.
Negare che
Kamala Harris incarni molti gap superati è infatti un esercizio di cecità e di
stupidità per una donna che è riuscita a diventare una dei due senatori della
California, il più popoloso stato degli USA, con i suoi 40 milioni di abitanti,
e con un PIL maggiore di quello della Gran Bretagna. Partiamo da un dato
incontrovertibile. Nella storia degli Stati Uniti, i senatori afro-discendenti
sono stati appena dieci, due nel XIX secolo, due nel XX secolo, sei nel XXI
secolo, Harris compresa, che è appena la seconda donna afrodiscendente
senatrice nella storia. Appena otto sono di origine asiatica (e qui Kamala è di
nuovo calcolata). A questi aggiungiamo nove ispanici e tre nativi. In quasi 250
anni di storia degli Stati Uniti appena 29 sono stati i membri del Senato non
bianchi. Le donne non bianche poi, non arrivano alle dita di una mano.
Dunque una
donna, figlia di immigrati non bianchi provenienti dalla Giamaica e dall’India
arriva alla Casa Bianca, mettendo in un colpo solo in discussione il gender gap, quello razziale e quello migratorio, e
questa non sarebbe una cosa straordinaria? Non basta, per alcuni non basta mai.
Ad alcuni pare perfino che i suoi natali non siano abbastanza disgraziati per
considerarla meritevole. In particolare, il fatto che i genitori di Kamala
Harris siano entrambi giunti negli USA per studiare, abbiano poi avuto una
buona carriera accademica, economista il padre, medico la madre, impedirebbe di
considerare la Harris una “vera immigrata” ma piuttosto un’esponente della
classe dirigente, quasi un membro aggiunto della aristocrazia americana.
Laddove non si può stigmatizzare l’alterigia di Hillary Clinton, se ne
costruisce una ad arte; va da sé, falsa. Da agosto in qua ho trovato questo
aspetto sottolineato soprattutto in lingua italiana, in un paese dove è invalso
lo stereotipo per il quale “immigrato” sia sinonimo da destra di
indesiderabile, e da sinistra di “ultimo” da compatire per le sue disgrazie, e
non di persona in cerca del suo posto nel mondo in grado di apportare almeno
quanto riceve dal paese di arrivo. Kamala Harris, donna in carriera (e che
carriera!), figlia di immigrati di classe media, non sarebbe una vera immigrata
perché romperebbe lo stereotipo di dannata della terra e sarebbe pertanto da
rubricare come privilegiata (sic).
Descrivere
la famiglia di Kamala Harris come appartenente a una élite facoltosa e quindi
sostenere che l’appartenenza di classe cancelli in un colpo solo
discriminazione di genere, razziale e migrazione (e quindi l’importante ascesa
intergenerazionale degli Harris Gopalan) è innanzitutto falso: un docente
universitario in posizione apicale ha un buon reddito ma non è né ricco né
classe dirigente. Se proveniente dal Sud del mondo poi, non porta con sé alcuna
accumulazione primaria che non la faccia cominciare da zero.
Per pagare
gli studi in California di Shyamala Gopalan, la madre di Kamala Harris,
scomparsa nel 2009, suo padre, il nonno, che era un funzionario pubblico
indiano che partendo da stenografo arrivò a un buon livello, impegnò la propria
liquidazione. Shyamala lo ripagò in modo brillante, divenendo la prima Gopalan
laureata, riuscendo a entrare in un PhD e poi avendo una carriera accademica in
un mondo dove era una totale outsider.
Appena
arrivata negli Stati Uniti, Shyamala studiava e marciava per i diritti civili.
E così conobbe colui che sposò negli anni Sessanta (divorziando nel ’71),
Donald Harris. Questo veniva dalla stessa “parrocchia” di Bob Marley, in
Giamaica. La sua famiglia, fino a poche generazioni prima, era di proprietà di
Hamilton Brown, un irlandese e il più grande proprietario di schiavi
dell’isola. Gli Harris non erano abbastanza poveri da non potersi permettere di
far studiare Donald. Questo, militante di sinistra da sempre, li ricompensò
costruendo una carriera accademica di prestigio da economista keynesiano in un
mondo dove già andavano avanti solo i neoclassici.
Coerente con
la propria storia, Donald Harris ha dedicato la sua vita di studioso alle
disuguaglianze e al sottosviluppo, in particolare in Giamaica. Furono i
movimenti per i diritti civili che fecero innamorare quel giovane accademico
venuto da un’isola dei Caraibi e la dottoranda venuta dall’India. Furono i libri, non i soldi che, in una famiglia
di immigrati, abbastanza bravi a scuola da vincere borse di studio e non
rinnegare se stessi, hanno creato le basi per permettere a Kamala Harris di
proseguire quella straordinaria ascensione intergenerazionale che oggi la porta
addirittura alla Casa Bianca. Brava, gigantesca Kamala Harris.
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