Ripubblichiamo una riflessione di Piero Bevilacqua, in forma estesa, già uscita sul Manifesto del 2/10/20.
Un sovrumano silenzio e una profondissima
quiete gravano sulla vita dell’Università italiana e il fatto che a custodire
tale pace mortuaria, sia, in qualità di Ministro, un ex rettore, un uomo che
viene da quel mondo, mi confermano in una desolata convinzione. La nostra
Università, quale protagonista attivo della vita civile del Paese, è
fisiologicamente morta. E non l’ha uccisa il Covid 19, ma un insieme di
processi e di scelte, che l’hanno radicalmente trasformata.
Intanto, va ricordato che è
antropologicamente cambiato il corpo dei docenti. Da 10-15 anni ha lasciato
l’insegnamento un’ampia schiera di almeno due scaglioni, di quella che potremmo
chiamare la generazione dei maestri. Studiosi che dagli anni ’50 in poi hanno
portato, accanto ai saperi delle loro discipline, un grande afflato civile,
legato alle sorti del paese. Ad essa è seguita un’altra generazione di
insegnanti, coloro che da studenti hanno attraversato l’esperienza del ’68 e
comunque si sono formati nell’Italia dei conflitti sociali e delle grandi
manifestazioni di massa.
Oggi, nella fascia alta dei docenti,
dominano figure anche scientificamente attrezzate, ma che vivono il proprio
lavoro come un ritaglio specialistico, finalizzato a dei risultati da
certificare presso agenzie di controllo. Sono inoltre sotto l’assedio quotidiano
di un flusso continuo di disposizioni normative, soffocati da compiti
organizzativi mutevoli, spesso di difficile comprensione, da pratiche
quotidiane di interpretazioni e applicazioni che sottraggono tempo alla ricerca
e a un insegnamento non di routine. E’ comprensibile che questi docenti non
abbiano molti legami con la vita politica e culturale della società. Più in
basso abbiamo le figure dei ricercatori, che devono attraversare un lungo
purgatorio di precarietà e che sono impegnati non a realizzare ricerche
fondative per il proprio profilo di studiosi, ma per produrre quanto più
possibile titoli – anzi “prodotti” come vengono definiti con gergo di
fabbrica – per salire la scala della carriera accademica.
Qui, al gravissimo scadimento
scientifico e culturale, che dà luogo a pubblicazioni seriali di brevi articoli
e saggi di scarso valore, si accompagna una subalternità politica assoluta dei
giovani ricercatori. Grazie alla riforma Gelmini queste figure, oggi come nel
peggiore passato, debbono la propria possibilità di carriera alla fedeltà ai
professori ordinari, e soprattutto alla propria latenza politica, al loro
carrieristico conformismo.
Infine un altro grande mutamento ha
cambiato i connotati degli studenti. Costoro, in linea di massima – e questo
appare in maniera parossistica nelle Facoltà umanistiche – non studiano delle
discipline per percorrere un itinerario formativo, ma vanno a caccia di
crediti da mettere insieme secondo una disposizione cumulativa, finalizzata ai
risultati, che distrugge alla radice lo studio quale esperienza di riflessione,
acquisizione critica, plasmazione spirituale. I ragazzi oggi non ascoltano
lezioni, ma corrono da una cattedra all’altra a raccattare punteggi. E occorre
ricordare che mai una generazione era stata così tenacemente avversata, come
quella dei nostri ragazzi, ai quali viene impedito di proseguire negli studi
con ogni mezzo, dal numero chiuso in tante facoltà all’aumento delle tasse
universitarie.
Da questo mondo regredito, schiacciato
sotto il peso di una ideologia produttivistica che soffoca ogni visione
generale, incatenato alla precarietà, non può più venire alcun moto di
ribellione, né tanto meno un conato di revisione dello status quo. E’
necessario che a intervenire sia dunque il ceto politico di governo
e lo deve fare al più presto , anche perché molti miglioramenti sono possibili
senza esborsi finanziari. E’ necessario abolire l’ANVUR e i suoi criteri di
valutazione industriale della ricerca, cancellare i crediti a partire dal lemma
finanziario che li designa, rivedere il 3 più 2 e i percorsi delle lauree
brevi, riformare i criteri dell’accesso alla docenza, bandendo la precarietà
che è il vessillo funesto dell’ideologia neoliberistica, la pestilenza
culturale universale da cui dipendono i fallimenti a catena del nostro tempo.
Nell’Università è urgente un’opera
demolitrice di delegificazione. Liberiamo i docenti da compiti inutili di controllo
produttivistico. Ma forniamo anche risorse per fare accedere una
nuova leva di docenti, che ha accumulato studi ed esperienze e vive ai margini.
Nel momento in cui l’UE rivede alcuni dei suoi erronei fondamenti costitutivi,
occorre ricordarsi che l’Università è una loro vittima, a partire dal
cosiddetto “processo di Bologna”. Non avrei tante speranze, tuttavia, in queste
possibilità, se non fosse che il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha
annunziato un convegno internazionale sul nuovo umanesimo. Dopo decenni di
emarginazione dei saperi umanistici dalle nostre università e dalla
considerazione pubblica, questa è una novità che sorprende e che ci dà qualche
speranza.
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