Al tempo di una delle
tante “primarie” del Partito democratico, ebbi l’occasione di seguire le
diverse linee e i diversi programmi che si contendevano la segreteria del
partito. Fra gli oratori, in quell’occasione, salì sul palco Claudio Martini,
allora governatore della Toscana, e dette una definizione folgorante della
qualità di partito che immaginava: «voglio un partito colto che fa quello che
deve perché sa quello che fa!». Dopo molti anni di politique
politicienne, di tatticismi e di vaniloqui, ascoltavo parole alte, nobili
ma anche vincenti. Sicuramente in quella sintesi faceva eco la grande lezione
gramsciana sull’egemonia culturale, presupposto per un qualsiasi partito della
sinistra degno di questo nome per conquistare un ruolo fattivo e trasformativo
nella società. Non per vincere a una tornata elettorale per poi perdere la
successiva senza che nulla cambi. Che fine fece Claudio Martini? Non fu più
ricandidato e, per sovramercato, senza neppure che gli fosse comunicato: lo
apprese dai giornali.
Ho voluto rammentare
questo episodio per dare l’abbrivio a una riflessione sul ruolo della cultura e
sul senso di questo ruolo, perché quella sintesi afferma che un soggetto colto
‒ che sia un corpo intermedio, un governo o una persona ‒ fa quello che deve
perché sa quello che fa. La cultura si sostanzia in un bagaglio di saperi, di
conoscenze, di esperienze e di confronti con l’eredità di sapienti, in diversi
campi delle conoscenze umane: arti, filosofia, scienze, esperienze di vita. Ma
non è erudizione. È un patrimonio vivo che sollecita il dubbio, la costante
rimessa in questione delle certezze, sì che non esiste cultura autentica se non
si fonda su tale sensibilità e se non è innervata da una coscienza etica che
ponga dei limiti al rischio di un hybris dell’eccellenza
culturale la quale si senta libera di legittimare ideologie perverse o peggio
criminali. Il caso dell’adesione al nazismo del grandissimo filosofo Martin
Heidegger rimane un monito indelebile. Ma di quale coscienza etica parliamo?
Quella che l’umanità ha scelto in forma assiomatica: la Dichiarazione
Universale dei Diritti dell’Uomo, espressa già in mirabile sintesi nel primo
articolo: «Tutti gli uomini nascono liberi ed eguali in dignità e diritti».
Immaginatevi un Paese
i cui i cittadini fossero colti, nel senso espresso da Claudio Martini. Non
sarebbero possibili le derive delle classi dirigenti, in termini di mediocrità,
corruzione, pretesa di immunità e di impunità, di demagogia, di strumentalità,
di rendite di posizioni. In linea di principio il potere, anche il migliore dei
poteri, non ama essere messo in questione, preferisce gli yes men. Gli
uomini colti, nell’accezione che ho cercato di esprimere, per parte loro, non
sono disponibili a inchinarsi acriticamente ai poteri e ai potentati. Se lo
fanno se ne intuiscono immediatamente gli scopi: il raggiungimento di privilegi
e prebende.
Una società di donne
e uomini colti in un tempo drammatico come quello della pandemia da Covid non
accetterebbe lo starnazzio interminabile e insensato dei media per incrementare
i gettiti pubblicitari, rifiuterebbe i vaniloqui propagandistici di politicanti
di varia genia e, qualora fosse costretta a quarantene, saprebbe trasformare la
costrizione in ricchezza interiore e in ricerca di senso per riconoscere le
fragilità ontogenetiche dell’essere umano, per compiere scelte, per rifondare
il rapporto con l’esistente sulla base della solidarietà e del rispetto. Ecco
perché dobbiamo chiedere a gran voce che la cultura abbia un ruolo primario
nelle scelte politiche, a partire dall’investimento, soprattutto in un Paese
come l’Italia che detiene un immenso patrimonio di culture materiali e
immateriali.
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