Ieri
pomeriggio, insieme ai miei due soci, sono stato in Piazza Maggiore a Bologna,
alla manifestazione per chiedere la riapertura delle scuole superiori.
Considerato il clima plumbeo del paese, e la scarsa pubblicizzazione
dell’evento – praticamente solo tam tam – e nessuna sigla di peso a
organizzarla, è stata piuttosto partecipata. Faccio fatica a quantificare,
perché dovendo stare distanziati occupavamo una superficie tripla rispetto al
normale.
Tagliando un
po’ con l’accetta, si può dire che abbiamo ascoltato due tipi di interventi.
Quelli degli adulti – genitori e docenti – che spiegavano come la DAD non si
possa in alcun modo considerare scuola e come le scuole siano luoghi più sicuri
di altri, essendo sotto protocollo, dove ragazzi e ragazze sono più controllati
anziché no; e quelli degli studenti delle scuole superiori, che dicevano la
stessa cosa, ma parlando della propria esperienza diretta. Devo dire che i
giovani mi sono parsi estremamente efficaci, benché la partecipazione fosse
prevalentemente di adulti.
L’intervento
più fuori contesto lo ha fatto l’unico studente universitario che è
intervenuto. Credo che avesse sbagliato manifestazione, perché ha detto
che la DAD può andare anche bene, se la scuola va tenuta chiusa teniamola
chiusa, ma dobbiamo mobilitarci perché lo stato inverta la rotta e torni a
investire nell’istruzione. Il poveretto non ha capito che la DAD è precisamente l’investimento che lo stato sta
facendo sull’istruzione e che se non la combatti ora te la ritroverai integrata
nel piano di studi dalle superiori all’università vita natural durante. Ecco,
quello che in teoria doveva essere il più colto e, rispetto ai ragazzi delle
superiori, il più politicizzato, ha espresso la posizione più retrograda e
conciliante rispetto alle scelte del governo.
Questo mi ha
confermato due cose:
1) se arriveranno segnali di rabbia e insorgenza politica contro la gestione
dell’emergenza, è improbabile che vengano dall’università;
2) quei collettivi ed ensemble politici che hanno appoggiato il lockdown senza
se e senza ma – «Lockdown fino alla vittoria!» – oggi nelle piazze non hanno
niente da dire, sono del tutto fuori posto.
Tornato a
casa ho scoperto che mio figlio maggiore era rimasto a cena da compagni di
classe. Sono andato a recuperare lui e altri due suoi amici alle 21:30, prima
che scattasse il coprifuoco.
Mentre attraversavo il quartiere in auto per riaccompagnare tutti a casa,
vedevo gruppi di ragazzi della stessa età, mascherati, che si aggiravano per
l’ultima mezz’ora, prima di salutarsi e andare a trascorrere il resto del
sabato sera tra le mura domestiche, in famiglia. Ho pensato a cosa potessero
pensare. Quale messaggio questo paese stesse trasmettendo loro. Allo scopo di
combattere un contagio che minaccia di morte i loro nonni e rischia di far
collassare il sistema sanitario nazionale per i troppi ricoveri, possono
frequentarsi di persona soltanto fuori da scuola e fino alle dieci di sera.
Dopo, tutti in casa. In quale modo questo possa incidere sul contrasto di
un’epidemia non può spiegarglielo nessuno, perché ovviamente è una cosa senza
senso. Ed è a questo vivere senza senso che li stiamo abituando.
È un effetto
collaterale, sia chiaro, non premeditato. Vivete in Assurdistan, ragazzi, è un
fatto. Un paese dove da febbraio comanda un sultano, insieme a un consiglio di
«esperti» i cui atti sono secretati; un paese in cui durante una pandemia si è
votato per dimezzare il numero dei parlamentari, ma di fatto li si è aboliti
tutti; un paese in cui l’unico bilanciamento del potere centrale è quello di
venti piccoli satrapi regionali che trattano separatamente con il sultano; un
paese dove gli esercenti virtuosi che avevano applicato i protocolli covid a
proprie spese sono stati chiusi per primi, mentre tutti gli altri vanno a
lavorare; un paese che per primo ha chiuso le scuole, per ultimo le ha
riaperte, per unico le ha richiuse. Eccetera.
Ho provato a
mettermi nei loro panni, a liberarmi del cinismo, dell’assuefazione e della
disillusione dei miei quasi cinquant’anni, e mi sono venuti i brividi. Stavamo
attraversando una città deserta, alle nove e mezza di un sabato sera, e avrei
voluto citare loro la scena di un vecchio film di Woody Allen che sicuramente
non hanno visto: Il dittatore dello stato libero di Bananas.
È la scena nella quale, dopo il trionfo della rivoluzione, il primo dpcm del
nuovo presidente consiste nel proclamare lo svedese lingua nazionale e
nell’obbligo per la popolazione di indossare la biancheria sopra i vestiti.
Invece non
ho detto nulla, ho seguitato a guidare in silenzio, pensando a quanto potessero
sentirsi spaesati (letteralmente) quei tre ragazzi, insieme a un’intera
generazione. Una generazione colpevolizzata, abbandonata, reclusa nelle proprie
camerette a far lezione in pigiama, videodipendente e a forte rischio di
depressione.
Ma state allegri! In un’altra epoca o in un altro continente sarebbe potuto
toccarvi di andare in guerra.
Bella
consolazione.
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