Inossidabile resilienza - Raymon Dessi
Docente, giurista e avvocato. Ma prima di
tutto rivale numero uno dell’ottantasettenne presidente Paul Biya, al potere da
trentotto anni. Da settembre Maurice Kamto è di fatto recluso nella sua
abitazione da un cordone di polizia che gli impedisce di uscire
«Maurice Kamto ha la schiena dritta. Ѐ uno che sa incassare i colpi. Fosse
stato qualcun’altro al suo posto, già tempo fa avrebbe piantato baracca e
burattini». Il commento sulla resilienza politica del sessantaseienne leader
dell’opposizione camerunese è del suo collega Yondo Black, ex-presidente
dell’ordine degli avocati del Camerun. La sua affermazione, pronunciata a metà
ottobre, evidenzia, in un certo senso, la vocazione suicidaria che deve abitare
chi s’impegna ad interpretare il ruolo dell’opposizione nella scacchiera
politica camerunese.
Le parole di Yondo Black nei confronti di Maurice Kamto non sono solo un
commento di un osservatore esterno. Lui stesso è stato incarcerato, agli inizi
degli anni ‘90, per aver osato organizzare una manifestazione politica
pacifica, ma contro la quale il governo di allora – e di adesso – aveva posto
un veto. Nel 2018, trent’anni dopo, il leader dell’opposizione si è trovato
incarcerato per aver organizzato una manifestazione di protesta contro la rielezione dello stesso
presidente di allora, Paul Biya.
Alle stesse elezioni aveva partecipato Kamto che si era auto-proclamato vincitore anche sulla base
di dati numerici risultanti dallo spoglio. Anche se numerosi osservatori erano
d’accordo sul fatto che avesse vinto il leader dell’opposizione, la Commissione
elettorale e la Corte costituzionale avevano riconfermando l’inossidabile Paul
Biya alla guida del paese.
La memoria collettiva del paese è tutt’oggi scossa dallo svolgimento
caotico, in diretta televisiva, del contenzioso elettorale presso la Corte
costituzionale, quando le discussioni fra fazioni opposte di giuristi avevano
contribuito ad accentuare la gravità delle violazioni denunciate dai leader
dell’opposizione, e in particolare da Kamto. Alla fine la Corte costituzionale
aveva trovato cavilli giuridici, a volte palesemente pretestuosi, per
dichiarare irricevibile ogni ricorso.
Gli altri leader delle opposizioni, impotenti di fronte al castello
fortificato del partito governativo e degli organismi giudiziari infeudati,
hanno deciso di “piantare baracca e burattini”. Non così Kamto che ha invece
rilanciato con un “piano di resistenza nazionale”, sorta di programma di
contestazione permanente dell’usurpazione del potere. Programma che richiede il
sollevamento delle masse di cittadini camerunesi.
Il primo appuntamento era fissato per gennaio 2019 con una manifestazione
pubblica contro il golpe elettorale. I leader dell’opposizione occupavano la
testa dei cortei, ma la manifestazione fu subito repressa nel sangue dalle
forze dell’ordine. Alcuni gruppi di attivisti camerunesi della diaspora, sparsi
in Occidente, s’indignarono e lanciarono una serie di spedizioni punitive
contro le ambasciate del paese.
L’operazione andò in porto con il saccheggio, in particolare, della
rappresentanza diplomatica parigina. Dai muri dell’ambasciata camerunese gli
assalitori staccarono le fotografie del presidente, che sostituirono con quelle
di Kamto, cantando l’inno nazionale. Riprese con gli immancabili smartphone, le
immagini della scena furono diffuse sul web, in segno di incitamento per i
giovani rimasti nel paese, chiamati ad seguire l’esempio.
Non importa che Kamto avesse preventivamente chiesto manifestazioni
pacifiche e che non si potesse dimostrare che fosse stato lui a dare
indicazioni per l’occupazione delle sedi diplomatiche. Il governo lo arrestò
insieme ad alcuni suoi collaboratori in un domicilio privato a Douala e lo trasferì
nella temibile e sovraffollata “Rebibbia camerunese”, detta nkodengui, la
prigione centrale della capitale Yaoundé, a oltre 200 km dal luogo
dell’arresto. Fu liberato quasi nove mesi dopo, come atto di
clemenza del presidente Biya.
Maurice Kamto non è un uomo che si lascia intimidire, anche perché conosce
profondamente la mentalità del governo, avendone fatto parte per un breve
periodo come ministro delegato alla giustizia dal 2004 al 2011, quando dovette
dimettersi per motivi personali. La sua competenza in materia giuridica è
riconosciuta alle istituzioni internazionali, in particolare a Ginevra, dove ha
presieduto un famoso directorium degli esperti giuristi, lavorando su questioni
di diritti umani nel mondo.
Del resto, si era meritato il rispetto del paese già negli anni ‘90, quando
guidò il collegio dei difensori del Camerun presso la corte internazionale di
giustizia, dove il paese era in causa con la Nigeria su una disputa
frontaliera. Al centro della contesa, la penisola di Bakassi, avamposto del
territorio camerunese all’interno del golfo di Guinea, un fazzoletto di terra
galleggiante su petrolio e gas naturale. Kamto vinse il processo, protrattosi
dal 1994 al 2002, e la Nigeria dovette ritirarsi dall’isola, restituendola al
Camerun.
In decenni di insegnamento nelle università del Camerun il professore ha
formato intere generazioni di giuristi, molti dei quali oggi fanno parte degli
organi dirigenziali del suo Movimento per la rinascita del Camerun. Le sue
mosse da oppositore politico hanno spesso colto il governo di sorpresa,
evidenziando i limiti dell’esecutivo nell’amministrare le questioni pubbliche
nel paese.
Il suo ingresso nel mondo della politica, nel 2013, ha animato il fronte
dell’opposizione e la democrazia camerunese ha dovuto esibire il proprio malconcio stato di salute. Il gioco politico
nel Camerun francofono ha preso le sembianze di una battaglia al massacro, dove
il governo cerca elementi giustificativi per neutralizzare un oppositore
radicalizzato e tenace.
L’ultimo episodio è stato la marcia del 22 settembre, indetta da Kamto
nell’ambito del suo piano di resistenza nazionale. Una marcia pacifica,
organizzata in tutte le città del paese per chiedere le dimissioni del
presidente, sempre più dipinto come un usurpatore.
L’annuncio della protesta, con circa un mese di preavviso, ha fatto
scattare un’ampia strategia militare e mediatica, finalizzata a non fare uscire
nessuno di casa. Centinaia di manifestanti sono stati arrestati e rinchiusi in
luoghi non adibiti alla detenzione temporanea. Le immagini dei reclusi che
circolavano su internet li mostravano accalcati in cortili, anche di ville
private recintate, esposti alle intemperie e sofferenti.
Alla marcia del 22 settembre Maurice Kamto non ha potuto partecipare. Dal
giorno prima la polizia lo ha bloccato nel suo domicilio, impedendogli di
uscire. Un vero e proprio sequestro di persona. Da uomo di diritto, Kamto ha
sporto denuncia. Una denuncia presentata agli stessi tribunali che nel
frattempo avevano disposto l’arresto e la carcerazione dei suoi stretti
collaboratori, accusati come lui di essere portatori di un progetto eversivo.
Maurice Kamto “sa incassare i colpi”, dice Yondo Black che riconosce però
che, allo stesso tempo, il popolo camerunese guarda questa via crucis personale
del professore come uno spettatore passivo, vedendo spegnersi le proprie già
tenue aspirazioni di emancipazione.
A Kinshasa si
discute, nel Kivu si muore - Raffaello Zordan
Mentre il presidente Tshisekedi ha avviato
una serie di consultazioni a largo raggio per tentare di scrollarsi di dosso la
tutela di Kabila, nel nordest si susseguono i raid di gruppi armati. La
testimonianza del comboniano Gaspare Di Vincenzo
Uno dei punti qualificanti del programma di Félix Tshisekedi, eletto due
anni fa presidente della Repubblica democratica del Congo, era di portare la
stabilità del nordest del paese, in particolare nelle province del Sud Kivu,
Nord Kivu e Ituri. Province ricche di risorse minerarie e terreno di disputa di
numerose milizia armate, alcune delle quali al soldo di Rwanda e Uganda.
Padre Gaspare Di Vincenzo, comboniano che lavora a Butembo (Nord Kivu),
dice a Nigrizia: «Qui la situazione continua a essere disastrata.
Ci sono attacchi continui e massacri che colpiscono
la popolazione. L’ultimo
è stato venerdì 30 ottobre: ci sono stati 19 morti alla porte
della cittadina di Butembo. Il gruppo armato che ha colpito proveniva dalla
valle del Graben, al confine con l’Uganda».
Questo sta accadendo perché il mandato di Tshisekedi è fortemente
condizionato dalla coalizione dell’ex presidente Joseph Kabila, che ha la
maggioranza sia alla camera sia al senato e che non ha certo tra le priorità
quella di stabilizzare l’area del nordest.
Kabila infatti si è sempre guardato dall’interferire con le mire del regime rwandese di Kagame sulla
Rd Congo. Ma è stato Tshisekedi a sceglierselo come alleato alla vigilia delle
elezioni del 2018, che poi si sono svolte all’insegna del disprezzo degli
elettori e della falsificazione dei risultati delle urne.
Continua padre Di Vincenzo: «Oltre a uccidere, il gruppo armato ha
incendiato il villaggio, saccheggiato tutto il possibile e rapito una parte
degli abitanti, tra questi gli infermieri di un piccolo dispensario. Anche la
chiesa è stata profanata».
Dovrebbero fischiare gli orecchi a Tshisekedi che, dopo essersi accorto di
essere prigioniero di Kabila, sta dedicando questa settimana a un ciclo di
consultazioni a tutto campo: lo scopo è di capire se fuori dall’area
governativa può trovare interlocutori ed escogitare una via d’uscita politica.
Un assetto che gli consenta di avviare le riforme. La strada maestra sarebbe
quella di indire nuove elezioni legislative, sciogliendo le camere. Ma non
sembra praticabile.
In ogni caso, il presidente ha incontrato i responsabili uscenti
della Commissione elettorale
indipendente, che porta la responsabilità maggiore delle elezioni-truffa del 2018 e che
deve essere rinnovata per intero. Poi ha visto i rappresentanti delle
confessioni religiose, le organizzazioni sindacali e vari esponenti della
società civile.
Ha in programma anche un confronto con il cardinale Fridolin Ambongo
Besungu, arcivescovi di Kinshasa, e con la Conferenza episcopale congolese, che
ha criticato aspramente il processo elettorale e il voto del 2018.
«Tra gli uccisi nel raid di venerdì scorso – sottolinea padre Gaspare – c’è
anche il catechista Richard Kisusi della parrocchia di Maboya sulla strada che
va verso l’Uganda. È stato legato, insieme ad altre persone, davanti alla
chiesa e poi ucciso. Aveva finito, giusto il 24 ottobre, il corso di formazione
annuale al centro catechistico di Butembo. E aveva ricevuto insieme a 65
catechisti l’attestato di partecipazione e l’accreditamento a poter esercitare
la funzione di animatore catechista nella parrocchia di Maboya. Era un ragazzo
molto intelligente, gioioso, amava la musica. Io stesso gli ho insegnato
liturgia e missiologia: spiccava tra i suoi compagni. Lo affidiamo alla
misericordia del Signore insieme con tutte le persone uccise. E ci auguriamo che
la comunità internazionale e lo stato congolese possano intervenire e mettere
fine a questi massacri attuati per occupare terre e sfruttare le risorse
minerarie della regione».
Vista dalla capitale Kinshasa e vista dal Nord Kivu, la Repubblica
democratica del Congo non sembra le stessa nazione.
Prigioni segrete e torture (in Ciad) - Pyrrhus Banadji Boguel (Commissione
nazionale dei diritti dell’uomo)
L’Agenzia nazionale di sicurezza (Ans), che risponde
direttamente al presidente, gestisce prigioni parallele dove infligge sevizie
ai detenuti. Lo afferma un rapporto della Convenzione ciadiana di difesa dei
diritti dell’uomo. Due ex prigionieri raccontano che cosa succede in quelle
celle.
La
Convenzione ciadiana di
difesa dei diritti dell’uomo (Ctddh) ha di recente reso pubblico un rapporto in
cui afferma che ci sono prigioni segrete,
gestite dall’Agenzia nazionale di sicurezza, (Ans) che sono vere e proprie
anticamere della morte.
Il
ministro della giustizia non ha negato l’esistenza di queste prigioni, ma ha
detto che i detenuti sono «trattati bene». Affermazione che ha provocato la
reazione di persone che sono stati ospiti delle prigioni dei servizi di
sicurezza. Due di loro hanno accetto testimoniare apertamente.
Una
delle prigioni segrete è sulla via Farcha, nella capitale N’Djamena, di fronte al
ministero dei lavori pubblici. Nelly Versinis Dingamnayal, presidente del
Collettivo contro il carovita, vi è stato rinchiuso la prima volta nell’aprile
2017 per aver organizzato uno sciopero dei commercianti. Daniel Ngadjadoum,
esponente del partito Federazione per la repubblica, era finito il quella
prigione nel febbraio 2017 per aver tenuto un convegno sul governo del presidente Idriss Déby, al potere da trent’anni.
Le loro
versioni concordano. Entrambi assicurano che sono stati condotti in questo
centro di detenzione con gli occhi bendati. Una volta sul posto sono stati
«gettati» in una piccola cella sovraffollata. Dingamnayal ha detto ai microfoni
di Radio France Internationale: «Ero ammanettato e la prigione
era lugubre, scura».
Le
sevizie, programmate tra le 23 e le 4 del mattino, sono iniziate fin dal primo
giorno. Racconta Ngadjadoum: «Peperoncino negli occhi, bastonate, cavi
elettrici… mi hanno infilato un tubo nel ventre e versato acqua del rubinetto a
forte pressione, poi mi hanno tolto il tubo e incominciato a calpestare il mio
ventre…».
Una
variante dei supplizi era cospargere un sacchetto di plastica di peperoncino in
polvere e infilare il sacchetto sulla testa della vittima, testimonia
Dingamnayal. E durante la detenzione veniva dato un solo pasto al giorno.
Sia
Dingamnayal che Ngadjadoum sono figure pubbliche e quindi i media locali,
seguiti da quelli internazionali, si sono interessati al loro caso e lo hanno
rilanciato. All’epoca, dei medici hanno potuto verificare la gravità delle
torture subite dai due, che hanno sporto denuncia. Ma finora, assicurano, non
si è mosso nulla.
I
limiti del mandato
L’Agenzia
nazionale di sicurezza è stata creata nel 1993 con il decreto 302 e in seguito
ristrutturata con un altro decreto nel gennaio del 2017. Secondo l’articolo 2
di quest’ultimo decreto, l’Ans è un servizio speciale che ha la missione di
contribuire alla protezione delle persone e dei beni oltre che alla sicurezza
delle istituzioni della repubblica.
L’Ans
esercita le sua funzione nel quadro della legge e degli impegni internazionali
che il Ciad ha sottoscritto. Contribuisce inoltre, in collaborazione con altri
servizi dello stato, al mantenimento dell’ordine, della sicurezza e della
tranquillità pubblica. L’Agenzia risponde direttamente alla presidenza della
repubblica.
Tra le
sue attribuzioni quelle di ricercare, raccogliere e utilizzare le informazioni
che hanno a che vedere con la sicurezza dello stato; di rilevare, prevenire e
anticipare ogni azione sovversiva e destabilizzante, diretta contro gli
interessi vitali dello stato.
L’articolo
7 del decreto specifica che la missione dell’Ans deve attuarsi nel rispetto dei
diritti dell’uomo. E l’articolo 8 dice che l’Ans ha il potere di procedere
all’arresto e alla detenzione di persone sospettate di rappresentare una
minaccia, reale e potenziale: il tutto nel rispetto delle leggi della
repubblica.
Quando
l’Ans detiene persone in maniera arbitraria e illegale, e infligge trattamenti
inumani e degradanti, oltrepassa i limiti del suo mandato. Per questo la
Commissione nazionale dei diritti dell’uomo ha chiesto ufficialmente di poter
visitare le prigioni dell’Ans. Finora non ha ricevuto risposta.
Etiopia, la crisi si aggrava - Bruna Sironi
Il conflitto
interno, allargatosi nei giorni scorsi all’Eritrea, rischia di fare da
detonatore per l’intera regione, dal Sudan alla Somalia
In meno
di due settimane la crisi etiopica è
diventata una crisi regionale che coinvolge l’Eritrea e il Sudan, mette in
gioco la sicurezza della Somalia e, in modo indiretto, anche quella del Kenya e
forse di Gibuti.
Un’escalation
che con ogni probabilità non era nelle intenzioni del primo ministro Abiy
Ahmed, quando, lo scorso 4 novembre, ha ordinato all’esercito federale di riportare l’ordine nel
Tigray, ma che molti osservatori paventavano.
Il
braccio di ferro tra Addis Abeba e Macallé (capitale del Tigray) era diventato
così grave che non si poteva pensare che si sarebbe risolto con un’operazione
chirurgica, alla fine della quale la regione “ribelle” si sarebbe adeguata alle
disposizioni del governo federale. Infatti, in pochi giorni si è superato
di molto il punto in cui la controversia poteva essere rapidamente composta
grazie a pressioni internazionali e mediazioni regionali.
E’ impossibile,
ad esempio, prescindere dalle atrocità commesse in questi pochissimi giorni di
conflitto, che hanno già spinto più di 20mila persone a cercare rifugio oltre
confine, in Sudan, dove, secondo agenzie dell’Onu competenti, si prospetta
l’ennesima crisi umanitaria della regione.
Alcuni
episodi sono diventati di dominio pubblico nonostante l’isolamento del Tigray –
causato dalla chiusura dello spazio aereo, delle linee telefoniche e della rete
internet – come i bombardamenti di basi militari che avrebbero fatto invece
molte vittime civili, o il massacro di decine, forse centinaia, di persone
nella cittadina di Mai-Kadra, al confine con la regione Amhara.
Crimine
denunciato da Amnesty International, che ne attribuisce la responsabilità a
milizie fedeli al Tplf, il Fronte popolare di liberazione del Tigray, pur
sottolineando che è stato impossibile finora confermarne i dettagli in modo
indipendente.
I
profughi nei campi sudanesi ne danno una versione differente. Secondo
interviste a testimoni oculari raccolte dalla Reuters, l’attacco ai civili,
comprese donne e bambini, sarebbe stato fatto da milizie amhara allineate con
l’esercito di Addis Abeba.
Nella
crisi etiopica si combatte infatti anche una guerra a colpi di notizie false e
di mistificazioni, in cui è quasi impossibile districarsi. Il ginepraio più
fitto riguarda probabilmente il coinvolgimento dell’Eritrea, dato per scontato
dal governo del Tigray fin dal primo giorno della crisi, ma sempre negato dagli
accusati.
La
scorsa settimana un sedicente giornalista del canale arabo della televisione
governativa eritrea aveva fatto circolare sui social media la notizia che
l’esercito di Asmara si era ormai attestato a Badme, la cittadina simbolo della
guerra di confine del 1998/2000, assegnata all’Eritrea dal tribunale dell’Aja,
ma che i tigrini non avevano mai voluto restituire, neppure dopo la pace
siglata tra i due paesi nel 2018.
Il
post, che aveva scatenato l’entusiasmo social dei nazionalisti eritrei, non è
mai stato né confermato né smentito dagli interessati e, in mancanza di
fonti attendibili, non è stato ripreso da nessun mezzo di informazione
indipendente. Una provocazione? L’indizio dell’obiettivo di un eventuale
intervento eritreo? Tutte le ipotesi sono possibili, compresa quella che in
realtà si trattasse di uno specchietto per le allodole a copertura di sviluppi
futuri.
Sta di
fatto che la narrazione del coinvolgimento eritreo ha determinato la regionalizzazione
conclamata del conflitto. Sabato 14 novembre, verso sera, Asmara è stata
colpita da almeno tre missili partiti dal Tigray. Obiettivi: l’aeroporto
internazionale e il ministero dell’Informazione, che, particolare non
irrilevante, si trova in città.
Nulla
si sa ufficialmente di danni e vittime. Le autorità eritree minimizzano, ma
testimoni in loco parlano di diversi feriti. L’attacco è stato rivendicato dal
presidente tigrino Debretsion Gebremicael – destituito con l’intera giunta
regionale e colpito da un mandato di cattura – con un discorso ufficiale alla
televisione della regione. Se davvero l’Eritrea si era finora tenuta al di
fuori dalla crisi etiopica, ora avrà un ottimo argomento per intervenire con
tutto il suo apparato militare.
Più
tardi la stessa tivù ha presentato un gruppo di presunti prigionieri di guerra
eritrei. Ma è impossibile distinguere un giovane eritreo da un giovane tigrino,
che non differiscono in nulla fisicamente e parlano la stessa lingua. Nel
comunicato con cui il primo ministro Abiy Ahmed ufficializzava l’intervento
dell’esercito federale nella regione si accusava il Tplf di aver fatto
confezionare divise eritree proprio allo scopo di mistificare la realtà.
Probabilmente
l’unica cosa certa tra tante notizie controverese e impossibili da verificare è
che ormai neppure Abyi Ahmed crede che la crisi nel Tigray possa essere risolta
velocemente, sostituendo il governo regionale e portando in tribunale i
responsabili della “ribellione”, come, con ogni probabilità, si proponeva di
fare.
Ed è
anche possibile che si trovi in difficoltà sul piano militare perché potrebbe
aver perso il pieno controllo degli uomini del contingente del nord, di stanza
a Macallé, il nerbo del suo esercito. Le autorità tigrine, infatti, hanno
dichiarato che molti militari del contingente hanno disertato unendosi alle
loro milizie – Addis Abeba ha fermamente smentito -, mentre quelle sudanesi
hanno fatto sapere che tra i profughi civili che hanno passato il confine ci
sono anche un certo numero di militari, a cui è stato chiesto di consegnare le
armi.
Sta di
fatto che Abiy ha deciso di richiamare il contingente etiopico che dal 2006 era
di stanza in Somalia, dove contribuiva alla stabilizzazione del paese e alla
lotta al terrorismo. Il governo di Mogadiscio si trova perciò ora più esposto
in un momento critico, il periodo pre elettorale – le elezioni sono previste a
febbraio – mentre assiste ad un intensificarsi degli attacchi del gruppo
al-Shabaab. Se in Somalia diventa impossibile controllare il territorio, anche
per il Kenya diventa più difficile evitare gli sconfinamenti dei terroristi nel
paese.
La
crisi etiopica rischia, insomma, di innescare una vera e propria cascata di
cause concatenate di destabilizzazione in tutta la regione, che è già tra le
più problematiche del continente.
I redditizi affari di al-Shabaab - Bruna Sironi
Tasse, estorsioni,
traffici illeciti. Il movimento terrorista somalo si è trasformato negli anni
in una vera e propria organizzazione di stampo mafioso, in grado di guadagnare
cifre astronomiche che reinveste in immobili e altre attività regolari. Soldi
che vengono movimentati anche tramite il sistema bancario nazionale
Da anni
il Consiglio di sicurezza dell’Onu segue con particolare attenzione la Somalia,
avvalendosi di gruppi di esperti in grado di analizzare l’evolversi della
situazione in relazione alle risoluzioni dell’Onu che riguardano il paese in
settori chiave quali la sicurezza, il commercio delle armi, il controllo del
territorio, la minaccia terroristica. Grande attenzione è riservata
all’evoluzione del gruppo al-Shabaab, il primo e più importante alleato di
al-Qaeda nell’Africa Orientale.
Negli
ultimi rapporti presentati dagli esperti al Consiglio di sicurezza è emerso un
crescente rafforzamento economico del gruppo. In pochi anni – dal 2006, quando
è nato dalle milizie giovanili dell’Unione delle corti islamiche sconfitte dal
governo federale di transizione, e per suo conto dall’esercito etiopico sostenuto
dalla comunità internazionale – al-Shabaab ha organizzato una specie di “stato parallelo” capace di imporre tasse e balzelli non solo nel
vasto territorio controllato, ma fin nei gangli economici del paese, quali il
porto e i mercati di Mogadiscio, di Kisimayo e di Baidoa.
Il
gruppo è stato anche in grado di differenziare le sue fonti di finanziamento. Fino ad un paio
d’anni fa, la maggiore, o la più conosciuta, era costituita dai balzelli sul
commercio del carbone di legna, raccolti durante il trasporto al porto di
Kisimayo, da dove la merce partiva soprattutto verso la Penisola Arabica e gli
Emirati del Golfo.
Fonti
credibili stimano che il traffico del carbone abbia fruttato almeno 7 milioni
di dollari all’anno al gruppo terroristico. La fonte di finanziamento era così
importante che nel 2012 l’Onu bandì il suo commercio, che però continuò illegalmente,
e continua anche adesso, seppur con maggiori difficoltà, grazie alla connivenza di molti nel
paese e tra il personale del contingente della missione di pace Amisom che pure
ne traevano, e ne traggono, un notevole vantaggio economico.
Secondo
rapporti diffusi recentemente dalla commissione di esperti Onu e dall’istituto
Hiraal, un centro di ricerca
specializzato in analisi sulla sicurezza in Somalia e nei paesi del Corno
d’Africa in generale, ora al-Shabaab è in grado di raccogliere
almeno 15 milioni di dollari al mese, una cifra pari al gettito
fiscale del governo ufficiale. Almeno la metà dei fondi provengono dalla
capitale, Mogadiscio.
I
proventi sono raccolti con
la minaccia, e se necessario con la violenza, imponendo quello che noi in
Italia chiameremmo “il pizzo” a tutti coloro che hanno attività economiche, non
solo nelle zone rurali controllate ma anche nelle zone urbane e nella stessa
capitale.
Il
gruppo è stato in grado di infiltrarsi nelle istituzioni del paese, come ad esempio gli uffici doganali del porto di
Mogadiscio, da cui passa la maggior parte dei beni importati ed esportati dal
paese, in modo da avere le informazioni necessarie per imporre i propri
balzelli in modo proporzionale al giro d’affari.
Per i
riscossori del gruppo, un container da 40 piedi “varrebbe” 160 dollari, uno da
20, 100 dollari. Lo affermano diversi commercianti, testimoni in inchieste
giornalistiche credibili, i quali aggiungono che al-Shabaab avrebbe accesso
alle informazioni ufficiali degli agenti portuali e saprebbe sempre con
precisione a chi rivolgersi per la riscossione. Lo stesso avviene praticamente
in tutti i settori economici.
Secondo
gli ultimi rapporti, tutte o quasi le maggiori compagnie del paese pagano
mensilmente una tangente ad al-Shabaab e annualmente versano una sorta di zaqat,
il contributo dovuto da ogni buon musulmano per il sostegno degli indigenti,
pari al 2,5% del proprio giro di affari. Nelle zone controllate dal gruppo,
perfino i comandanti di contingenti militari pagherebbero, pur di salvaguardare
la sicurezza propria e quella dei propri uomini.
Ma
questa dinamica, da molti osservatori definita come mafiosa, era già conosciuta.
Nell’ultimo periodo è stata probabilmente resa più efficace e capillare, grazie
alla crescente influenza del gruppo anche nelle zone controllate
dal governo.
La
novità degli ultimi rapporti riguarda piuttosto l’investimento delle risorse
nel settore edilizio ed immobiliare e nel commercio, compreso quello che
alimenta i maggiori mercati della capitale e del paese, facendo transitare
ingenti somme, si direbbe in modo regolare, attraverso il sistema
bancario ufficiale somalo, nonostante una legge varata nel 2016 abbia
l’obiettivo proprio di impedire le operazioni finanziarie di gruppi
terroristici.
I
ricercatori hanno seguito in particolare le operazioni di due conti correnti aperti
presso la Salaam Somali Bank. Su uno, quest’anno, in un periodo di due mesi e
mezzo, sono transitati 1,7 milioni di dollari che potrebbero essere frutto
della raccolta della zakat. Sull’altro, che potrebbe essere stato
aperto per le tangenti raccolte al porto di Mogadiscio, sono stati depositati
1,1 milioni di dollari da metà febbraio alla fine di giugno di quest’anno.
Complessivamente
sono state effettuate 128 operazioni nelle quali sono stati mossi più di 10mila
dollari, l’ammontare massimo, oltre il quale avrebbero dovuto scattare i
controlli dell’autorità competente, il Financial reporting centre. La
responsabile del centro, Amina Ali, cui l’agenzia Reuters ha chiesto se i conti erano stati chiusi, si è
limitata a dire, in modo evasivo, che “tutti i passi necessari sono stati
fatti”.
Hussein
Sheikh Ali, ex consigliere dei servizi di intelligence somali e fondatore
dell’istituto Hiraal, al-Shabaab si è dimostrata molto efficiente nel
raccogliere soldi. Ed è ormai risaputo che ne raccoglie molti più di quanti
gliene servano per gestire la propria organizzazione.
Secondo
i rapporti citati, l’anno scorso avrebbe speso circa 21 milioni di dollari per
sostenere circa 5mila miliziani e per l’organizzazione di operazioni
terroristiche nel paese e nella regione. Circa un quarto della somma sarebbe
andata ai suoi propri servizi di spionaggio, l’Amniyat intelligence.
Dell’ingente
surplus, una parte sarebbe ben investita, e un’altra, afferma Hussein Sheikh
Ali «… crediamo che potrebbero mandarla ad al-Qaeda».
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