Solidarietà a
Cristian: Meno repressione e più ospedali
Ogni attivista che immagina una Sardegna diversa
dall’isola delle diseguaglianze che viviamo e libera dall’occupazione militare
rischia di imbattersi nelle intimidazioni poliziesche della Questura di
Cagliari.
Intimidazioni puntuali, come orologi svizzeri che
arrivano solo quando sono presenti iniziative e mobilitazioni. L’idea è antica,
ignorare e sospendere la costituzione italiana per costruire una atmosfera di
tensione e violenza e per spaventare chiunque possa avvicinarsi alle iniziative
democratiche di dissenso all’attuale modello di società. Un clima di violenza
gratuita che dovrebbe preoccupare e allarmare ogni persona sensibile
all’azzeramento delle garanzie costituzionali e delle libertà individuali.
Queste forme di violenza della polizia italiana non sono nuove e non colpiscono
solo gli attivisti e le attiviste ma tutti coloro che frequentano la dimensione
delle loro vite, familiari, amicizie e coinquilini, addirittura circoli
privati. La redazione del manifesto sardo esprime la sua vicinanza e
solidarietà a Cristian riportando il suo post su quanto accaduto stamattina.
“Oggi ho subito una perquisizione da parte della forza
pubblica. Alle 8.00 mi suona il campanello con un uomo che mi dice “posta”:
alle 8. Chiaramente avevo capito che si trattava di altro tipo di servizio
pubblico. Sei agenti della digos sono entrati così in casa mia. Hanno frugato in
camera mia, tra le mie cose. Hanno aperto libro per libro (magari ci avessero
capito qualcosa).Mi hanno sequestrato il telefono, il computer, il tablet ed
ogni tipo di memoria esterna che potessi avere. Mi hanno sequestrato una giacca
e un paio di scarpe, gli unici decenti che avessi. Mi hanno sequestrato otto
fumogeni definiti come “razzi”, perchè il fumo uccide. Non contenti di ciò sono
andati a casa mia a Capoterra, da mio padre, appena dimesso dall’ospedale, per
puro atto di intimidazione. Sono rimasti per intere ore in casa fotografando il
loro “materiale probante” per passare così la velina a qualche giornalaio. Tutto
questo perchè secondo loro farei il paparazzo. Entro oggi mi farò un nuovo
numero e forse anche un nuovo profilo social. Per adesso non mandatemi
messaggi. Salvo foto di ghigni da fargli trovare quando accenderanno il pc. Non
posso tra l’altro accedere ai miei social, in quanto ho l’autenticazione a due
fattori. Le lotte non si fermano anche se questi “signori” continueranno a
intimidirci, perquisirci e reprimerci. A innantis ”Cristian”
La politica alternativa fatta con gli stessi mezzi della controparte non è una politica alternativa - Omar Onnis
In diverse occasioni ho argomentato su queste pagine
la sostanziale inesistenza storica della politica in
Sardegna. La condizione di subalternità economica e culturale ha impedito negli
ultimi due secoli il maturare di dinamiche socio-politiche autonome, situate,
pienamente dispiegate.
L’essere una porzione territoriale marginale
e tributaria di qualcos’altro ha prodotto e perpetuato dinamiche
sociali e politiche degeneri, che si sono riprodotte in modo estremamente
resiliente anche dentro il mutare del contesto.
Certe forme di diseguaglianza,
la concezione feudale dei rapporti politici e della
stessa amministrazione pubblica, il debordare delle misure
assistenziali e clientelari, la stessa debolezza del
tessuto produttivo sono tutti fattori di un circolo
vizioso che non si è mai interrotto.
Le cattive prove della politica sarda pressoché in ogni
epoca, con evidenti degenerazioni negli ultimi lustri, non sono casuali. La
feroce transizione storica in cui ci ritroviamo coinvolti non fa che peggiorare
le cose. L’epidemia di covid-19 ne è parte integrante, non un caso
straordinario e irripetibile.
Che in Sardegna sia necessario,
storicamente necessario, un cambio di rotta deciso, lo
sappiamo e lo diciamo da tanti anni. Lo dicono anche coloro che in realtà
agiscono in senso contrario, ossia affinché le cose vadano avanti ancora allo
stesso modo.
Ma è davvero possibile questo cambio di rotta? In quali
condizioni dovrebbe avvenire? E cosa significa concretamente un auspicio del
genere? Chi dovrebbe promuoverlo? Come?
Sono tante domande che bisognerebbe farsi ogni volta che
si fa questo discorso. Spesso le diamo per scontate o facciamo finta di
conoscere tutte le risposte. Io non credo che sia vero. E credo anche che siano
ancora troppe le cose di cui non parliamo o su cui stendiamo uno
spesso velo di ipocrisia, o di rimozione. Anche per paura, non solo e
non necessariamente per nascondere cattive intenzioni.
Ma forse serve ancora un ulteriore sforzo di
verità e di onestà intellettuale. Bisogna parlarsi chiaro e
bisogna calare le carte.
Di ieri è la notizia della perquisizione domiciliare di
Cristian Perra, studente, militante molto impegnato su più fronti politici e
sociali. Una figura nota e stimata del variegato movimento che si oppone
all’occupazione militare, alle politiche di saccheggio del territorio,
all’oscurantismo moralista, alle politiche padronali e anti-popolari dominanti.
Un’operazione di polizia che sa molto di rappresaglia e
intimidazione. Solo venerdì scorso,
il 13 novembre, Cristian, con altre decine di militanti, aveva dato vita a un
sit-in presso il poligono di Capo Frasca, sede tuttora di esercitazioni
militari, a dispetto della pandemia e delle restrizioni anche economiche che i
cittadini devono sopportare in questi mesi.
L’intimidazione naturalmente non è solo a carattere
individuale, benché naturalmente il bersaglio non sia scelto a caso, ma colpisce
un intero ambito politico e tende a lanciare un avvertimento
generalizzato.
È inevitabile che la Sardegna, considerata dalla classe
dominante italiana, dalla politica e dal deep state alla
stregua di una colonia oltremarina, debba essere tenuta
sotto controllo, con ogni mezzo. Un po’ come chiedevano gli USA negli anni ’60. Non solo per ragioni geo-strategiche pure e semplici,
ma anche per garantire la mole di affari che l’occupazione militare dell’isola
consente. E questa è una faccenda che dobbiamo sempre tenere ben presente.
Non è un caso se le azioni intimidatorie più forti da
parte delle forze dell’ordine colpiscano preferibilmente chi appare più esposto
sul fronte della lotta contro l’occupazione militare.
Non c’è solo questo, naturalmente. Le
partite strategiche in cui la Sardegna è inserita, sia pure come pedina
sacrificabile, sono anche altre. C’è quella energetica, con tutte le
sue implicazioni. Ci sono le relazioni conflittuali tra medie potenze dell’area
turco-arabo-persiana (il Qatar, che domina la scena in Sardegna, è ormai ai
ferri corti con l’Arabia Saudita ed altri attori di quello scenario, compresi
quelli europei ed extra-europei). Ci sono partite economiche in cui l’isola può
avere un ruolo di fornitore di materia prima, o di territorio da sfruttare, ma
non può avere ambizioni di protagonismo e di autonomia strategica.
La mediocrità e il discredito della nostra classe
politica complicano una situazione già aggravata da una crisi ormai strutturale
e da una pandemia gestita male e dagli esiti incerti.
Se pensiamo al susseguirsi delle giunte
regionali delle ultime legislature è facile constatare come di
volta in volta si sia pensato di aver toccato il fondo e invece al giro
successivo ci si debba sempre confessare di essere stati troppo
ottimisti.
La sconfitta di Renato Soru nel
2009, chiaramente una sorta di restaurazione oligarchica e anti-democratica,
era stata anche responsabilità – e in qualche caso opera diretta – di alcune
parti dello stesso centrosinistra.
La giunta Cappellacci, pur non
avendo conseguito alcuni degli scopi fondamentali per cui era stata promossa
(in primis lo smantellamento del PPR), aveva però rimesso a posto dinamiche di
spartizione e assetti di potere che per un attimo erano stati minacciati. Il
banco tuttavia sarebbe potuto saltare già al giro successivo, nel 2014, se non
fosse stato per la trovata estemporanea ma invero efficace della candidatura
Pigliaru.
L’esperimento normalizzatore della “giunta
dei professori” garantiva il perpetuarsi delle relazioni e delle
forme di potere consolidate, ma con un’aura di rispettabilità che consentiva di
svolgere i peggiori magheggi al riparo da troppe critiche. Non a caso quella
giunta, nominalmente di centrosinistra, è riuscita a realizzare obiettivi che i
suoi dirimpettai politici non sarebbero riusciti a realizzare così a buon
mercato. Per esempio la privatizzazione sistematica di
ampie porzioni di beni comuni (con una generalizzata licenza di occupare suolo
fertile a scopi speculativi) e lo
smantellamento o l’indebolimento drastico di ambiti
democraticamente vitali come la scuola e la sanità pubbliche.
Lo ricordo a vantaggio dei tanti che credettero di votare quella compagine per
“battere le destre” o come “il meno peggio”.
Oggi ci ritroviamo nelle mani di una giunta
sardo-leghista che al suo massimo splendore potremmo definire
imbarazzante, sennò si va da lì all’indietro, in un’ipotetica classificazione
della qualità politica. La cialtronaggine e la subalternità erette a regola
aurea dell’amministrazione pubblica. Di male in peggio, appunto.
Il guaio è che, come dicevo, tale decadenza politica si
inserisce in un quadro più ampio di disarticolazione sociale e politica e di
estrema incertezza. A livello italiano, europeo, mediterraneo e globale.
Questo è il quadro in cui deve muoversi qualsiasi
proposta di mutamento politico radicale in Sardegna. Che significa anche mutamento sociale ed economico,
oltre che culturale. Un mutamento che, se innescato, rimetterebbe in
discussione interessi corposi a un livello più ampio di quello locale, non solo
le aspirazioni di carriera a spese pubbliche dei vari arrivisti da quattro
soldi nostrani.
I quali, però, servono ancora, magari camuffati da
qualcos’altro. Le manovre di ricomposizione o ricollocazione
politica già in atto evidenziano la precisa coscienza della
debolezza delle compagini che hanno garantito fin qua gli assetti di potere
vigenti ed evocano il conseguente obiettivo di accaparrarsi o quanto meno
sabotare eventuali aggregazioni politiche alternative.
Io leggo anche in questo senso l’appello
fatto da Paolo Maninchedda, su cui mi sono soffermato nell’ultimo post su
SardegnaMondo. Di cui ribadisco le argomentazioni.
Non si può pretendere di essere un’alternativa se si fa
parte del meccanismo di potere a cui si dichiara di volersi contrapporre. Ciò significa che non se ne possono nemmeno mutuare
metodi, scopi, personale.
Noto invece con una certa costernazione, benché senza
grande sorpresa, che anche l’ambito indipendentista-autodeterminazionista
è percorso da tentazioni pericolose, in questo senso. Si equivoca la
furbizia tattica e opportunistica di alcuni soggetti, prendendola per
intelligenza politica; si ritiene la capacità di entrare nel Palazzo a
qualsiasi prezzo l’unico modo pragmatico di agire; si allentano i filtri etici
e ideali in nome di una malintesa necessità di conquistare il consenso
elettorale pur che sia.
È un problema. Questo modo di agire nega in
partenza la possibilità di costruire il cambiamento politico che si pretende di
perseguire. Per altro, sul piano meramente pragmatico, si accetta
di giocare con le regole e secondo i criteri di un meccanismo di selezione e di
gratificazione gestito da vecchi marpioni di questo gioco, a cui non si potrà
mai insegnare come vincere. Si accettano le condizioni e il
terreno di gioco altrui, finendo per ridursi a semplici strumenti di
una tattica che non si padroneggia e da cui si viene facilmente irretiti.
E per cosa, poi? Per poter “contaminare dall’interno” i
meccanismi di spartizione e di potere di intermediazione a cui è da tempo
ridotta la politica sarda contemporanea? O per ricevere gratificazioni al
proprio ego, per compiere una scalata sociale altrimenti impossibile?
I mezzi sono giustificati dal fine, si dice, ma, anche se
questo fosse sempre vero ed accettabile, resta la necessità che siano adeguati. Cedere ai meccanismi di contrattazione e di
compromesso richiesti dalla gestione della politica podataria sarda, oltre che
inaccettabile, è anche pragmaticamente controproducente.
È una pia illusione quella di avere la forza e la capacità di mutare questi
meccanismi politici facendone pienamente parte e dunque legittimandoli.
Chiaro, il percorso realmente alternativo,
che passa per il confronto aperto, la lealtà, la trasparenza degli scopi, la
rispondenza dell’azione politica a reali interessi collettivi e a una
prospettiva di emancipazione democratica generalizzata, è
difficile. Molto più facile accettare di entrare in combutta con i
vari maneggioni delle clientele e del consenso sotto ricatto, o allearsi con
centri di potere opachi, oligarchici, coloniali, ma che assicurano – almeno
nelle promesse iniziali – la partecipazione al bottino. Ma se si vuole questo,
che almeno si abbia il coraggio di schierarsi coerentemente,
senza fingere di aspirare a qualcosa di radicalmente diverso.
Esiste anche l’eventualità di operazioni scientemente
finalizzate a debilitare i percorsi alternativi. In questo caso la contaminazione dall’interno
sarebbe del tutto sensata. Ne ho già fatto cenno. È del tutto possibile e direi
anche probabile che chi ha qualcosa da perdere da un mutamento drastico degli
assetti di potere lavori a colonizzare, inquinare e al limite
sabotare il processo di costruzione di un fronte democratico e popolare.
Non sarebbe nemmeno difficilissimo (e perdonatemi se non scendo nei
particolari). Chi può escludere che non sia già successo?
Alle difficoltà oggettive si sommano dunque anche
difficoltà soggettive e contingenti. È
una partita estremamente complessa, ma decisiva. Il processo in corso ormai da
alcuni anni va avanti con la forza di un’inerzia storica difficile da
arrestare. Ciò significa che qualcosa succederà. Potrebbe
essere un esito democratico ed emancipativo, da difendere
strenuamente, oppure l’aggravamento definitivo della nostra condizione
di subalternità, di povertà, di degrado ambientale, sociale e culturale, di
spopolamento.
La ragione, oggi come oggi, suggerisce che quest’ultimo
sia l’esito più probabile. Per scongiurarlo non servirà la retorica da
social media, non servirà la presunzione di chi mette se stesso o il proprio
gruppo davanti a tutto e a tutt*, non basterà la furbizia da ladri di polli, né
garantirà il successo la malleabilità ideale ed etica.
La democrazia si conquista e soprattutto si garantisce
esclusivamente con la democrazia stessa. Idem la libertà e le conquiste sociali. Che si chiamano
conquiste perché sono il frutto di una lotta collettiva, l’esito di un
conflitto, non certo la concessione di un potente magnanimo o il premio per un
tradimento. Se qualcuno pensa il contrario, quale che sia la bandiera sotto cui
si presenta, non stiamo dalla stessa parte né abbiamo gli stessi obiettivi
politici.
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