Il principio regolativo della maggior parte delle organizzazioni per le
quali lavoriamo è il principio gerarchico. Per quanto illuminata, umanistica,
agile e partecipativa voglia apparire, il funzionamento di un'organizzazione
pubblica o privata, si fonda sulla divisione gerarchica del lavoro che implica
necessariamente differenze di ruoli e responsabilità e, con essi, differenze di
status e potere. In un ambiente di questo tipo il rischio di esclusione è
estremamente elevato. Una gerarchia, infatti, non funziona perché tutti i suoi
membri si coordinano volontariamente, sulla base di una condivisione di
intenti, sugli stessi fini.
Il potere (e i rischi)
della gerarchia
In una gerarchia, chi ha il potere, ordina a chi sta “sotto” di lui, di
fare ciò che è necessario per il raggiungimento dei fini dell'organizzazione,
indipendentemente dal fatto che chi deve eseguire sia d'accordo o meno, con fini
e mezzi. Ridotta all'osso, questa è la logica di funzionamento delle
organizzazioni, dalle più semplici alle più complesse. Ci sono, certo, molti
metodi per rimpolpare un po' quest'osso – c'è l'intera industria del management
consulting – ma questi metodi sono, spesso, solo palliativi rispetto al
generale senso di alienazione che può derivare da un simile modello di “command
and control”. Ne deriva che l'inclusione, la partecipazione, l'adesione ai
valori e ai fini, quello che oggi si chiama l'”engagement”, qualora lo si
voglia perseguire, debba essere attivamente ricercato, perché la tendenza
naturale, va, invece, nella direzione della differenziazione, della
segregazione e dell'isolamento. La gerarchia, di per sé, produce differenze,
muri, barriere; li produce perché si fonda su di essi.
Questo significa che in tutte le nostre organizzazioni, quindi, è sempre
presente, manifesto o nascosto, il rischio dell'esclusione. La possibilità di
sentirsi soli pur vivendo e lavorando in mezzo agli altri, a volte a molti
altri, è una possibilità tutt'altro che remota; per moltissimi, una realtà
quotidiana. E se le contromisure rispetto a questo rischio hanno la profondità
di pensiero di chi è convinto che eliminando i cubicles per passare ad ambienti
di lavoro open e destrutturati, allora, davvero, il futuro della qualità delle
relazioni all'interno delle nostre organizzazioni sarà tutt'altro che luminoso.
Le barriere all'inclusione non sono, nella stragrande maggioranza dei casi, di
natura fisica. Nascono e si sviluppano con lo status, con l'esercizio del
potere, con la strutturazione sociale che è per definizione immateriale.
Ristrutturare la natura delle
organizzazioni
Se vogliamo attivamente combattere il rischio di esclusione insito in ogni
organizzazione, le ri-strutturazioni dei luoghi di lavoro non possono limitarsi
agli ambienti fisici, ma devono coinvolgere la natura stessa
dell'organizzazione, la sua dimensione gerarchica e la qualità più profonda
delle relazioni tra i suoi membri.
Un'organizzazione gerarchica è la norma, ma al tempo stesso un'anomalia, in
un sistema economico che si fonda sul mercato, istituzione di natura
democratica e ugualitaria. Paradossalmente le grandi organizzazioni gerarchiche
rappresentano un ostacolo allo sviluppo dell'economia di mercato. Lo aveva ben
capito John Stuart Mill, che nei suoi “Principles of Political Economy” (1852)
scriveva: «La forma di associazione che, se l'umanità continua a migliorare, ci
si deve aspettare che alla fine prevalga, non è quella che può esistere tra un
capitalista come capo e un lavoratore senza voce alcuna nella gestione, ma
l'associazione degli stessi lavoratori su basi di eguaglianza che possiedono
collettivamente il capitale con cui essi svolgono le loro attività e che sono
diretti da manager nominati e rimossi da loro stessi. […]. Di conseguenza, non
c'è nulla di più sicuro tra i cambiamenti sociali del prossimo futuro di una
progressiva crescita del principio e della pratica della cooperazione». La
profezia di Mill non si è avverata perché, come abbiamo scoperto forse troppo
tardi, le grandi imprese hanno natura oligopoloide, tendono cioè alla crescita
dimensionale e con essa all'acquisizione di un potere di mercato tale che
finisce per ostacolare proprio il buon funzionamento del mercato stesso.
Lo stiamo vedendo nuovamente oggi, sui mercati tecnologici, con lo
strapotere di FAMGA, e i suoi quattro trilioni di valore complessivo, cui solo
timidamente e, al momento in maniera del tutto inefficace, i regolatori stanno
cercando di porre un limite. Ma questa è, parzialmente, un'altra storia.
Torniamo alle organizzazioni gerarchiche che originano isolamento ed esclusione
e chiediamoci, innanzitutto, perché questo dovrebbe essere un problema. Perché
una organizzazione non inclusiva dev'essere considerata un'organizzazione
disfunzionale?
Un esperimento
Facciamo un esperimento: immaginate di ritrovarvi con un gruppetto di altre
quattro o cinque sconosciuti ad un colloquio di lavoro. Al momento dell'arrivo
tutti hanno ricevuto una targhetta dove hanno scritto il proprio nome. Avete la
possibilità di chiacchierare un po', in attesa del vostro turno, vi scambiate
informazioni e fate conoscenza. Quando arriva il momento, venite chiamati in
una stanza separata dal selezionatore che vi fa qualche domanda e vi chiede,
tra le altre cose, di indicare su un foglio i nomi di due, tra le persone che
avete appena incontrato, con le quali vi piacerebbe lavorare e di altri due,
sempre nello stesso gruppo, con le quali proprio non vorreste avere a che fare.
A tutti i partecipanti viene fatta, individualmente, la stessa domanda.
Dopo questo colloquio iniziale, in una seconda fase, venite riconvocati e
vi viene detto che tutti gli altri hanno affermato che avrebbero piacere di
lavorare voi. Lo stesso viene detto alla metà dei partecipanti. All'altra metà
viene detto esattamente il contrario: che tutti gli altri hanno affermato di
non voler avere niente a che fare con loro. Naturalmente si tratta di una
manipolazione indipendente dalle reali risposte. Una manipolazione che gli
sperimentatori hanno escogitato per creare artificialmente in alcuni dei
partecipanti un senso di inclusione, e in altri, invece, un senso di rigetto ed
esclusione (Twenge J., Catanese K., Baumeister R., 2003. “Social Exclusion and
the Deconstructed State: Time Perception, Meaninglessness, Lethargy, Lack of
Emotion, and Self-Awareness”. Journal of Personality and Social Psychology
85(3), pp. 409–423). Quali sono le conseguenze del sentirsi inclusi o esclusi?
Lo studio procede con una serie di diversi esperimenti nei quali vengono
studiate le implicazioni dell'ostracismo su varie dimensioni psicologiche.
Globalmente quello che emerge è che sentirsi esclusi e non accettati dagli
altri produce un senso generale di “apatia” mentale (numbness).
L’esclusione come “spegnimento”
motivazionale
Le persone, sorprendentemente, non reagiscono in maniera emotiva con rabbia
o dispetto. La reazione è del tutto diversa, quasi non c'è reazione: si nota
indifferenza, un sentimento di vuota inconsapevolezza. È come se davanti al
dolore del sentirsi scartati si spegnesse il circuito delle emozioni per
evitare di provare sentimenti troppo forti e dolorosi. Questo non dovrebbe
sorprendere, visto che sappiamo dalle neuroscienze che il dolore
dell'esclusione sociale viene generato dagli stessi circuiti neuronali che sono
implicati nella percezione del dolore fisico. Sentirsi esclusi ci “spegne”. Gli
effetti comportamentali di questa reazione psicologica sono, naturalmente,
rilevanti. Gli esperimenti di Jean Twenge e dei suoi colleghi mostrano, per
esempio, che l'ostracismo determina modificazioni nell'atteggiamento
individuale rispetto al tempo. Gli esclusi perdono interesse per il futuro, si
concentrano quasi esclusivamente sulle conseguenze a breve termine delle loro
azioni e cercano gratificazioni immediate. Sviluppano una percezione distorta
del tempo e una sensazione che questo si muova più lentamente. Questo elemento
produce anche una perdita generalizzata di senso. In genere, infatti, il senso
che attribuiamo alle azioni presenti deriva dalle conseguenze future che queste
produrranno ed una ridotta focalizzazione sul domani tende a sottrarre
significato all'oggi.
L’accettazione sociale
e il senso
Mentre nessuno dei partecipanti “socialmente accettati” si dice d'accordo
con l'affermazione secondo cui “la vita è priva di senso”, il 21% degli
“esclusi” la sottoscrive. Ma questo, invece di generare rabbia e malessere, non
produce nessuna reazione emotiva, né gioia né tristezza, solo apatia. Questo
stato psicologico si trasforma, come osservato in un altro esperimento, in un
comportamento “letargico”, più lento, demotivato, insensibile agli stimoli e
agli incentivi. Un altro esperimento si è focalizzato sul senso di
autoconsapevolezza. Anche qui i risultati sono stati chiari. Coloro che vengono
ostracizzati cercano in ogni modo di difendersi emotivamente dalle conseguenze
dell'esclusione anche cercando di evitare il pensiero consapevole e adottando
comportamenti routinari e stereotipati. Si fa fatica, letteralmente, a
guardarsi in faccia. In una prova sperimentale i soggetti vengono introdotti un
una stanza con al centro due sedie sistemate di spalle l'una contro l'altra.
Una è rivolta verso una parete bianca, l'altra verso una parete con uno grande
specchio.
Una volta introdotti nella stanza, uno alla volta, i partecipanti possono
scegliere liberamente dove andare a sedersi. Mentre gli “accettati” sembrano
indifferenti sulla posizione e si dividono equamente tra le due sedie, il 90%
degli “esclusi” sceglie di optare per la sedia rivolta verso la parete bianca.
Lo specchio viene evitato. Guardarsi in faccia alimenterebbe un senso di
autoconsapevolezza che non farebbe altro che aumentare il dolore derivante dal
sentirsi rifiutato. Meglio la parete bianca, il vuoto, l'inconsapevole apatia.
Cosa succede nella psiche di chi si sente socialmente rifiutato ed escluso?
Sarebbe stato naturale aspettarsi sentimenti di ribellione, rabbia, infelicità.
Ciò che i dati sperimentali, invece mostrano, è che l'esclusione induce ad una
sorta di paralisi mentale, ad un intorpidimento dei sensi che funge da barriera
e antidoto ad una sofferenza difficile da gestire emotivamente. Uno stato
psicologico, secondo gli specialisti, paurosamente simile agli aspiranti
suicidi (Baumeister R. F.,1990. “Suicide as escape from self”. Psychological
Review 97, pp. 90–113).
Il movente più
profondo dell’agire umano
Non è difficile capirne il perché se consideriamo che il bisogno di
sentirsi accettati dagli altri è, forse, il movente più fondamentale e profondo
dell'agire umano (Baumeister R. F., Leary M. R., 1995. “The need to belong:
Desire for interpersonal attachments as a fundamental human motivation”.
Psychological Bulletin 117, pp. 497–529). Quando tale bisogno viene frustrato
dall'ambiente nel quale viviamo e operiamo e dalla struttura delle relazioni
nella quale interagiamo con gli altri, allora le persone reagiscono attivando
meccanismi difensivi che li portano a “spegnere” ogni reazione emotiva e, come
abbiamo visto, a modificare il loro atteggiamento nei confronti del tempo,
degli altri, delle circostanze esterne. L'aspetto forse più inquietante della
faccenda è che tale reazione può anche essere, in prima battuta, funzionale
agli interessi dell'organizzazione. Individui remissivi e facilmente
manipolabili possono essere percepiti come più facilmente gestibili e quindi
come minori costi.
Ma, allo stesso tempo, tali soggetti, privati delle loro caratteristiche
più fondamentali – le funzioni di pianificazione esecutiva, la motivazione
intrinseca, la responsività alle circostanze e agli incentivi e la capacità di
autoconsapevolezza – saranno, oltre che persone mutilate nella loro identità
psichica, anche vittime, invece che risorse, delle organizzazioni a cui
appartengono. Quando John Stuart Mill parlava dell'impresa cooperativa come
frutto della maturazione dell'economia capitalistica non aveva in mente solo la
questione della forma giuridica, quanto piuttosto una più fondamentale
questione di assetto organizzativo. Aveva in mente imprese pubbliche e private
capaci di coinvolgere i loro membri non solo come pezzi di un ingranaggio
sovraordinato, ma come agenti pensanti, creativi e generativi, capaci di
scegliere consapevolmente di fare la propria parte all'interno di un piano
collettivo orientato al raggiungimento dei fini dell'organizzazione e, in
definitiva, direttamente o indirettamente, dell'intera società. Quanto siamo
lontani, oggi, da questo ideale? Tanto più ce ne discostiamo, tanto più le
imprese, pur producendo valore per gli azionisti, estrarranno valore dai
singoli e dalle comunità.
La sfida
dell’inclusione
E come Acemoglu e Robinson hanno chiaramente dimostrato (“Why Nations
Fails: The Origins of Power, Prosperity, and Poverty”, Crown, 2012), imprese ed
istituzioni che estraggono valore dai cittadini con i quali interagiscono, sono
la causa principale dell'arretratezza economica e del fallimento delle nazioni.
Ci troviamo, davvero, di fronte ad un grande paradosso: organizzazioni che
crescono e che si strutturano per creare sempre maggiore ricchezza, ma che lo
fanno, spesso, a spese dei propri membri, la loro risorsa principale, e, così
facendo, minano alla radice il loro benessere e la loro capacità di trovare un
significato profondo al loro agire. La natura strettamente gerarchica di molte
organizzazioni è origine di alienazione e di quel senso di esclusione che
produce una grande sofferenza, spesso taciuta e non riconosciuta, tra i loro
membri. Una sofferenza che ha, come abbiamo visto, conseguenze comportamentali,
tutt'altro che trascurabili. Le imprese, le organizzazioni, in generale, sono
prima di tutto comunità di persone.
La loro performance è legata a filo doppio alla qualità dell'esperienza
esistenziale delle persone che in esse operano. La possibilità di sentirsi
inclusi è un fattore caratterizzante di questa esperienza. Ancora troppo pochi
sembrano essersene accorti. Ancora troppi sembrano ignorare tale dinamica.
Questa miopia ha un effetto perverso su tutti noi.
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