venerdì 27 novembre 2020

ricordando ancora Maradona

 


a 12500 chilometri di distanza, fra le rovine di Binnish, in Siria, il pittore Aziz Asmar rende omaggio a Diego sulla parete di una casa distrutta


A DIEGO - Gianni Minà

Con Maradona il mio rapporto è stato sempre molto franco.

Io rispettavo il campione, il genio del pallone, ma anche l’uomo, sul quale sapevo di non avere alcun diritto, solo perché lui era un personaggio pubblico e io un giornalista.

Per questo credo lui abbia sempre rispettato anche i miei diritti e la mia esigenza, a volte, di proporgli domande scabrose.

So che la comunicazione moderna spesso crede di poter disporre di un campione, di un artista soltanto perché la sua fama lo obbligherebbe a dire sempre di sì alle presunte esigenze giornalistiche e commerciali dell’industria dei media.

Maradona, che ha spesso rifiutato questa logica ambigua, è stato tante volte criminalizzato.

Una sorte che non è toccata invece, per esempio, a Platini, che come Diego ha detto sempre no a questa arroganza del giornalismo moderno, ma ha avuto l’accortezza di non farlo brutalmente, muro contro muro, bensì annunciando, magari con un sorriso sarcastico, al cronista prepotente o pettegolo “dopo quello che hai scritto oggi, sei squalificato per sei mesi. Torna da me al compimento di questo tempo.”

Era sicuro, l’ironico francese, che non solo il suo interlocutore assalito dall’imbarazzo non avrebbe replicato, ma che la Juventus lo avrebbe protetto da qualunque successiva polemica.

A Maradona questa tutela a Napoli non è stata concessa, anzi, per tentare di non pagargli gli ultimi due anni di contratto, malgrado le tante vittorie che aveva regalato in pochi anni agli azzurri, nel

1991 gli fu preparata una bella trappola nelle operazioni antidoping successive a una partita con il Bari, in modo che fosse costretto ad andarsene dall’ Italia rapidamente.

Eppure nessuno, né il presidente Ferlaino, né i suoi compagni (che per questo ancora adesso lo adorano) né i giornalisti, né il pubblico di Napoli, hanno mai avuto motivo di dubitare della lealtà di Diego.

Io, in questo breve ricordo, a conferma di questa affermazione, voglio segnalare un semplice episodio riguardante il nostro rapporto di reciproco rispetto.

Per i Mondiali del ’90, con l’aiuto del direttore di Rai Uno Carlo Fuscagni, mi ero ritagliato uno spazio la notte, dopo l’ultimo telegiornale, dove proponevo ritratti o testimonianze dell’evento in corso, al di fuori delle solite banalità tecniche o tattiche. Questa piccola trasmissione intitolata “Zona Cesarini”, aveva suscitato però il fastidio dei giovani cronisti d’assalto (diciamo così...) che occupavano, in quella stagione, senza smalto, tutto lo spazio possibile ad ogni ora del giorno e della notte. La circostanza non era sfuggita a Maradona ed era stata sufficiente per avere tutta la sua simpatia e collaborazione.

Così, nel pomeriggio prima della semifinale Argentina-Italia, allo stadio di Fuorigrotta di Napoli, davanti a un pubblico diviso fra l’amore per la nostra nazionale e la passione per lui, Diego, mi promise per telefono: “Comunque vada verrò al tuo microfono a darti il mio commento. E tengo a precisare, solo al tuo microfono.”

La partita andò come tutti sanno. Gol di Schillaci e pareggio di Caniggia per un’uscita un po’ avventata di Zenga.

Poi supplementari e calci di rigore con l’ultimo, quello fondamentale, messo a segno proprio da quello che i napoletani chiamavano ormai “Isso”, cioè Lui, il Dio del pallone.

L’atmosfera rifletteva un grande disagio. Maradona, per la seconda volta in quattro anni, aveva riportato un’Argentina peggiore di quella del Messico, alla finale di un Mondiale che la Germania, qualche giorno dopo, gli avrebbe sottratto per un rigore regalato dall’arbitro messicano Codesal, genero del vicepresidente della Fifa Guillermo Cañedo, sodale di Havelange, il presidente brasiliano del massimo ente calcistico, che non avrebbe sopportato due vittorie di seguito dell’Argentina, durante l’ultima parte della sua gestione.

C’erano tutte le possibilità, quindi, che Maradona disertasse l’appuntamento. E invece non avevo fatto a tempo a scendere negli spogliatoi, che dall’enorme porta che divideva gli stanzoni delle docce dalle salette delle tv, comparve, in tenuta da gioco, sporco di fango e erba, Diego, che chiedeva di me, dribblando perfino i colleghi argentini. C’era, è vero, nel suo sguardo, un’espressione un po’ ironica di sfida e di rivalsa verso un ambiente che in quel Mondiale, non gli aveva perdonato nulla, ma c’era anche il suo culto per la lealtà che, per esempio, lo aveva fatto espellere dal campo solo un paio di volte in quasi vent’anni di calcio.

Cominciammo l’intervista, la più ambita al mondo in quel momento, da qualunque network.

Era un programma registrato che doveva andare in onda mezz’ora dopo, perché più di trent’anni di Rai non mi avevano fatto “meritare” l’onore della diretta, concessa invece al cicaleggio più inutile.

Ma a metà del lavoro eravamo stati interrotti brutalmente non tanto da Galeazzi (al quale per l’incombente tg Diego concesse un paio di battute) ma da alcuni di quei cronisti d’assalto che già

giudicavano la Rai cosa propria e che pur avendo una postazione vicina ai pullman delle squadre, volevano accaparrarsi anche quella dove io stavo intervistando Maradona. El Pibe de Oro fu

tranciante: “Sono qui per parlare con Minà. Sono d’accordo con lui da ieri. Se avete bisogno di me prendete contatto con l’ufficio stampa della Nazionale argentina. Se ci sarà tempo vi accorderemo qualche minuto.” Aspettò in piedi, vicino a me, che terminasse l’intervista con un impavido dirigente del calcio italiano, disposto a parlare in quella serata di desolazione, poi si risedette, battemmo un nuovo ciak e terminammo il nostro dialogo interrotto. Quella testimonianza speciale, di circa venti minuti, fu richiesta anche dai colleghi argentini, e andò in onda (riannodate le due parti) dopo il telegiornale della notte.

Fu un’intervista unica e giornalisticamente irripetibile, solo per l’abitudine di Diego Maradona a mantenere le parole date.

Lo stesso aveva fatto per i Mondiali americani del ’94 quando aveva accettato per due volte di ritornare all’attività agonistica in nazionale prima per assicurare la partecipazione alla querida Argentina nel match di spareggio contro l’Australia e poi giocando tre partite all’inizio dei Mondiali stessi, prima che lo fermassero. Eppure, val la pena ricordarlo, nel momento in cui, con un'accusa ridicola era stato sospeso per doping dopo le prime due partite.

La Federazione del suo amato paese non aveva mandato nemmeno un avvocato a respingere legalmente l’imputazione che non stava in piedi: “Hanno preferito trafiggere con un coltello il cuore di un bambino” aveva commentato Fernando Signorini, il suo allenatore e consigliere, quando la mattina dopo ci eravamo incontrati.

L’intervista da un motel dove aveva soggiornato con i parenti l’avevo ottenuta io. I giapponesi l’avevano mandata in diretta e i francesi in differita, un po’ di ore dopo, non credendola possibile.

Così, insomma, questo modo di comportarsi da grande e da piccino lo ha portato a superare ogni avversità e pericoli - anche quelli che sembravano impossibili - della sua esistenza.

Dalla polvere di Villa Fiorito, nella provincia di Buenos Aires, dove è cominciata la sua avventura di più grande calciatore mai nato alla militanza politica nei partiti progressisti latinoamericani per i quali ha dato molte volte la propria faccia.

Nessun calciatore è mai arrivato a tanto.

Diego, per una ironia del destino, se n’è andato da questo mondo lo stesso giorno di un altro gigante, Fidel Castro.

Alla fine li rimpiangeremo, come succede a chi ha lasciato una traccia indelebile nel gioco del calcio e della vita.

E ora silenzio.

Il suo prezzo al mondo del pallone lo ha pagato da tempo.

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A Diego mio fratello, a Diego Maradona, rivoluzionario latinoamericano e napoletano - Gennaro Carotenuto

 

Piango l’uomo prima del calciatore. Sei morto un 25 novembre, lo stesso giorno di Fidel Castro, tuo amico e compagno vero, non di un giorno. Rivoluzionario latinoamericano tu e lui, la Storia vi ha già assolto. Diego villero, Diego fattosi uomo in una Villa Miseria, Diego che poteva essere quello che è solo a Napoli. Diego nostro. Diego che non si è fatto napoletano, lo era. Diego Sud, Diego tutti i Sud del mondo. Diego il Ribelle contro il potere, fosse Blatter o Bush o tutti i Nord del mondo. Diego il grande uomo, gran-de uo-mo, che viene dal basso che più in basso non si può, per farsi D10S, il più grande di tutti.

Quanti insegnamenti ho ricevuto da te, Diego Maradona. L’uomo che cade e si rialza, nella sua grandezza e nelle sue fragilità. L’uomo che sa di essere grande e fragile. L’uomo che quando sbaglia, sbaglia contro se stesso e paga in prima persona. L’uomo che non abbassa la testa, l’uomo con la schiena dritta, che in quello Stadio Olimpico che ribolliva d’odio (irrisolvibile, irredimibile, imperdonabile) fischiando l’inno argentino, elevò in mondovisione il suo limpido, legittimo, a testa alta: “hijos de puta”. Sette anni sei stato il più odiato dagli italiani, in quanto napoletano. Se perdi in quanto Sud, ti malsopportano. Ma se vinci, morti d’invidia, non te lo perdonano. Ti sarebbe bastato tradire la città, ma tu non hai tradito. Perciò ti odiavano. Perciò ti amiamo.

Odiavano quel tuo corpo massacrato perché non potevano averlo. Odiavano quel corpo biopolitico, come quello del Che Guevara tatuato sul tuo braccio, massacrato di calci maligni e di infiltrazioni velenose, quel tuo corpo castigato dalle droghe, dall’alcool e dal cibo. Da qualche parte dovevi pur sfogare tanta grandezza. Quel corpo è quello dell’umanità come siamo, non quella borghesuccia, perbenista e ipocrita che ti disprezzava. In troppi oggi s’intesteranno la tua memoria, ma solo due nazioni possono rivendicarti come figlio: la nazione argentina e quella napoletana.

Solo chi è un analfabeta della cultura popolare di tutto questo pianeta può pensare che tu sia stato solo un calciatore. Sei stato la coscienza popolare dell’umanità ferita di tutti i Sud del mondo, che balbetta, zoppica, desidera, cade, ma non abbassa la testa. Sei stato l’unico nella Storia a vincere una guerra con due gol, in Messico, con la mano di D10S e il gol del siglo, entrambi necessari a ricacciare in gola tutta la boria e tutto il disprezzo dell’impero britannico, il Nord contro il Sud. Come cantano i Calle 13, Latinoamerica è “Maradona contra Inglaterra anotándote dos goles”. A Sud, con il tuo sinistro. Solo Sud, di sinistra. Eri Sud, solo Sud, Diego, fratello mio.

A Juan Da Silva, mi hermano, a Salvatore Pisano, mio fratello,
estén donde estén, hoy brinden con el Diego de la gente

 

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MARADONA TRA NAPOLI E IL SUDAMERICA - Rino Genovese

 

È la morte di un mito, quella che ci colpisce oggi. Una morte, per quanto prematura, perfino prevedibile considerando la nota tossicodipendenza dell’uomo. Ma, riflettendo un po’ a mente fredda sul significato di questo mito, non si potrebbe non vederne – come accade del resto per tutti i miti – l’intrinseca ambivalenza: Maradona ha incarnato un’aspirazione al riscatto degli ultimi, anche attraverso le sue prese di posizione, o ha contribuito in modo decisivo a quella narcosi di massa prodotta, in particolare a partire dagli anni ottanta, dalla miscela di sport, affari, politica e grande spettacolo?

 

Napoli, la più sudamericana delle città italiane, aveva dei precedenti in questo senso risalenti ai tempi di Vinicio e Pesaola e poi di Sivori e Altafini: una voglia di miti, tra l’Argentina e il Brasile, che trovava alimento in quella mitopoiesi sempre in azione nei paesi dell’America latina. Lo storico “comandante” Achille Lauro, l’armatore fascista e poi monarchico, era stato in stretto contatto con l’Argentina del “momento Perón”, traendone tutto il succo politico-sociale che se ne poteva trarre, e organizzando, mediante la sua presidenza della società di calcio, l’ascesa che lo condurrà a diventare sindaco di una città che nel referendum del 1946 aveva dato la maggioranza dei voti alla monarchia. Maradona viene a innestarsi dunque, pochi anni dopo il terremoto del 1980, nel fertile humus di un populismo napoletano di lunga data. A questo proposito, tuttavia, non bisogna riferirsi a Masaniello, ai lazzaroni, alla plebe, di cui aveva parlato finanche Hegel, quanto piuttosto all’uso che del “popolaccio”, come lo chiamava Vincenzo Cuoco, avevano fatto i sanfedisti, i borboni, le famiglie del potere meridionale tradizionale per sconfiggere la fragile rivoluzione del 1799.

 

Questo è stato Maradona a Napoli, al di là del genio calcistico: un elemento di grande presa simbolica, di rinnovamento e coesione, del blocco storico che da un certo momento in poi, nel post-terremoto, ha stabilmente incluso gli affari della nuova camorra nel proprio cerchio. Non c’era nessuno, durante il suo regno incontrastato, che potesse obiettare qualcosa: tutto gli era consentito, naturalmente anche l’evasione fiscale, che in Italia d’altronde non ha mai scandalizzato nessuno. Ricordo che una volta Gianni Minà, in un salotto napoletano, ce ne parlò come di una vittima della terribile macchina del calcio: l’associazione Calcio Napoli, già al momento del suo acquisto dal Barcellona, sarebbe stata a conoscenza della pervicace tossicodipendenza del divo. A mio parere, però, Maradona fu sempre ben contento di farsi triturare da quella macchina che gli aveva dato fama, ricchezza, onori – e a Napoli anche grossi quantitativi di cocaina a prezzo scontato.

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DIEGO ARMANDO MARADONA - La Ragione di Stato

 

Come in tutte le agiografie che si rispettino, c’è sempre un momento in cui qualcuno riesce a entrare in contatto fisico diretto con la santità. E la testimonianza è tanto più forte, se viene da un fedele aderente a un’altra confessione. “Maradona lo sono andato a vedere a Torino mentre si allenava prima del match contro di noi. Era basso, ma l’ho toccato sul petto, ed era come toccare la pietra”, così disse mio cugino più grande che viveva a Torino, juventino come me, ma ovviamente capace di vedere la santità aldilà delle diverse declinazioni della fede nel trascendente.

 

Gli anni ’80 e ’90 sono l’era assiale del calcio, vale a dire l’era in cui profeti e figure divine di diversa origine geografica a pochi anni di distanza e l’uno indipendente dall’altro invadono il mondo con messaggi, gesta e dottrine di portata universale. Per motivi anagrafici, estetici e morali, il mio profeta è Roberto Baggio da Caldogno, Vicenza. Conservo le sue magliette bianconere di inizio anni 90’, probabilmente false, con due sponsor diversi – Upim e Danone – come se fossero appunto due reliquie. Non accetto che nessuno ne metta in dubbio la santità, anche se sono ben disposto a riconoscere come profeti legittimi Van Basten, Zidane, Ronaldo, Totti, e ovviamente, un gradino sopra tutti, Maradona.




Agli infedeli, agli scettici che per ignoranza, malvagità, confusione spirituale non sono disposti a riconoscere immediatamente la santità di Baggio, presento sempre un argomento inconfutabile: quale semplice essere umano è capace di portare la sua nazionale a un passo dalla vittoria di un Mondiale pressoché per sua singola iniziativa, come accadde a USA 94? La risposta è: nessuno. Con una piccola aggiunta: qualcuno otto anni prima aveva portato una squadra composta da ruvidi tagliagole e un fine scrittore come Jorge Valdano non solo in finale, ma addirittura sul tetto del mondo. E inoltre, proprio in quegli anni, a seguito di dinamiche che solo un miscredente può considerare casuali, lo stesso profeta si era spostato da Barcellona a Napoli, trasformando una piazza sino ad allora non esattamente di élite calcistica in una potenza nazionale ed europea. Oggi il calcio ama presentarsi come una scienza esatta, con statistiche, expected goals, occasioni, assist, passaggi riusciti, e così via. Niente di male in tutto ciò. Ma non è in questi pur utili numeri che si trova la cifra del divino. Le sue tracce sono altrove, in qualche raro episodio che la nostra mente seleziona faziosamente e soggettivamente, come del resto è personale e particolare ogni esperienza religiosa individuale e collettiva. A livello di pura oltreumanità calcistica, vorrei menzionare un momento che apparentemente confligge con il mio orientamento religioso.

3 Novembre 1985. Un anno prima, Maradona diventava un giocatore del Napoli. Dopo un anno interlocutorio, la mano del pibe de oro comincia a dare i suoi frutti. Quella stagione il Napoli la chiuderà al terzo posto, togliendosi numerose soddisfazioni. Tra cui questa vittoria con la Juventus, campione d’Europa in carica dopo l’orrore del massacro dell’Heysel. I bianconeri vinceranno poi lo scudetto anche grazie ai gol di Aldo Serena, che la sera della cessione era tra il pubblico del concerto di Bruce Springsteen. Quel 3 Novembre tuttavia la musica è diversa. La “Domenica sportiva” lo capisce: nel momento clou del montaggio del riassunto della partita, fa partire l’”Inno alla gioia” di Beethoven e lo dedica con un pizzico di paternalismo al pubblico di Napoli, “non abituato a vincere, diversamente da quello della Juventus”. Ma il gesto di Diego non è solo per i suoi tifosi. È piuttosto, appunto come l’opera di Beethoven, un capolavoro fruibile dall’intera umanità.



Non mi dilungo sul rapporto tra Maradona e la sua Napoli. Sarebbe come entrare in un rapporto d’amore che non ci vede coinvolti. Come in tutti i legami più forti e viscerali, non mancano ambiguità e contraddizioni. Mettendo da parte le questioni economiche con il presidente Ferlaino – sottolineate più volte dallo stesso Maradona e ripresa dal denso post di commiato di Gianni Minà –, ci limitiamo a un solo esempio: stagione 1989-1990. Nell’estate del 1989, Maradona è a un passo dal diventare un giocatore dell’Olympique Marseille. La città reagisce con sdegno. L’intellighenzia artistica e letteraria napoletana non resta a guardare. Ecco alcuni interventi raccolti dall’ottimo articolo di Marco Gaetani per “L’ultimo uomo”: “De Crescenzo: «Ferlaino ha sbagliato a non venderlo, a Maradona non importa assolutamente niente del Napoli, pensa solo ai Mondiali». Bennato: «Sono convinto che ci sia qualcuno che lo manovra. Forse il Marsiglia, oppure chissà, gli americani». Carosone: «Maradona non è serio, un cantante che si è fatto pagare una tournée anticipata e non rispetta le date fissate»”. Poi, qualche mese dopo, rientrerà tutto, e Maradona trascinerà i suoi al secondo scudetto. Ma il meglio deve ancora arrivare. Estate 1990: l’Italia organizza un mondiale che avrebbe potuto e dovuto vincere per manifesta superiorità. Finché non accade l’impensabile: contro ogni legge statistica e contro ogni previsione della accurata regia dell’organizzazione, la semifinale è Italia-Argentina, e si gioca a casa di Diego, a Napoli. Nei giorni precedenti il match, Maradona con furbizia cerca di mettere il suo pubblico contro una nazione che non ha mai cacato Napoli, che l’ha sempre trattata come l’ultima ruota del carro, e adesso vuole che tifi per lei perché le fa comodo. L’Italia, come tipico di quegli anni lì di fine lira, perderà ai rigori. Il giorno della finale Argentina-Germania, allo Stadio Olimpico parte del pubblico fischierà volgarmente l’inno argentino. Maradona risponderà con il labiale di sotto.




Tutto ciò, insieme ad altri mille capolavori tecnici e sportivi di Diego, l’ho solo vissuto indirettamente, o forse solo vagamente. Il mio primo anno di piena coscienza calcistica è infatti il 1992. Maradona era già in decadenza. Il 17 marzo 1991, dopo l’incontro Napoli-Bari, Diego risulta positivo alla cocaina a seguito di un controllo antidoping, e viene condannato a 15 mesi di squalifica. È il classico inizio della fine: viene ceduto al Siviglia, torna in Argentina per giocare 5 partite con i Newell’s Old Boys, e il 2 febbraio 1994, pochi mesi prima del Mondiale, un gruppo di giornalisti circonda la casa di Maradona: in tutta risposta El Pibe de Oro gli spara con un fucile e si prende 2 anni di galera con la condizionale. Con l’inizio dei mondiali, la coltre ormai fitta di degrado tragicomico sembra di nuovo, miracolosamente diradarsi per lasciare spazio al sacro. L’Argentina schianta la modesta Grecia 4 a 0, e Maradona segna un goal stellare, con annessa esultanza energetica e un pizzico inquietante. Ma la parabola orami è inesorabilmente discendente: dopo la partita con la Nigeria, Diego risulta positivo all’efedrina. Prima nega, giurando persino sulle sue figlie. Poi ammette: “ho commesso una leggerezza”.

Da quel momento in poi, per chi come me non aveva avuto la fortuna di assistere in diretta al prime di Diego, è cominciato un lungo tira e molla. Da un lato, notizie sempre più grottesche, drammatiche, amare. Dall’altro, un calcio che sembrava sempre trovare il modo di rimandare a quel passato di Maradona, come se le imprese degli anni ’80 fossero una sorta di quadro trascendentale, una griglia a partire dalla quale poter valutare quello che accadeva nel presente. Ogni goal può ambire al massimo a diventare il secondo più bello di sempre, perché c’era quello di Maradona contro l’Inghilterra con cui fare i conti. Ogni impresa romantica poteva diventare soltanto la seconda impresa romantica della storia, dopo la sua epopea napoletana. E infine, ogni giocatore in attività che pure avesse cifre e continuità mai viste prima, poteva ambire al massimo al titolo di secondo miglior giocatore di sempre, perché prima c’era Diego – ci dispiace, Leo Messi. Nel frattempo, la vita di Diego viveva di un’alternanza tra sussulti e amarezze. I sussulti, proveniente dai riconoscimenti di “classico vivente” provenienti non solo dal mondo dello sport, ma anche dallo spettacolo, dalla letteratura, dalla politica e dal cinema. Le amarezze, provenienti dalla vita reale. Visto che, come recita un proverbio delle mie parti, non c’è matrimonio in cui non si pianga e non c’è funerale in cui non si rida, ammetto senza problemi che alcune di queste amarezze mi hanno fatto ridere.

La rosa è piuttosto ampia: le sceneggiate all’ultimo mondiale russo meritano un posto di rilievo in questo senso. Di tutto rispetto grottesco anche le comparsate televisive di Diego Maradona Jr. al reality show calcistico cult “Campioni”, con i colori del Cervia e sotto la guida tecnica ed esistenziale di Ciccio Graziani. Ma al primo posto, senza alcuna esitazione, metto la comparsata di Maradona a “Carramba che fortuna” (tardi anni 90’) insieme ai suoi ex compagni di squadra del Napoli, e sotto il comando di un’altra divinità italo-ispanica: Raffaella Carrà. Palleggi da foca, abbracci, torelli, carrambate, tifosi napoletani in diretta da Piazza del Plebiscito, bambini in braccio del Pibe, il nipote del Pibe che si chiama come il figlio di Careca: questo video racconta più di tante parole quella simbiosi perversa tra Diego e i bassifondi dell’intrattenimento italiano. Che il suo agio in questo disagio ci sia di sostegno e aiuto nei momenti di maggiore imbarazzo.

Poi ci sono state le macchiette drammatiche, quelle in cui si intravedeva un declino ormai inarrestabile e una fragilità spaventosa, soprattutto se confrontata alle immagini di onnipotenza che qualunque raccolta video di Youtube può offrire. Mi riferisco in particolare a “Maradona in Messico”, docu-serie di Netflix del 2019. La trama è semplice: dopo l’esperienza negli Emirati Arabi, Maradona va ad allenare i Dorados di Culiacàn, nazione Messico, stato Sinaloa, al top mondiale per il traffico di cocaina. In un misto di scetticismo, sacralità, drammi emotivi, balli propiziatori e bassa attività cognitiva, Diego riesce a portare i Dorados ai playoff e a un passo dall’agognata promozione, mancando l’obiettivo per un pelo. Sebbene non manchino i momenti goliardici, chiunque affermi di non aver provato pena per il protagonista, o mente, o non sa cosa e chi sia stato Maradona. Non è tanto la sua fragilità a creare disagio, quanto piuttosto il misto totalmente caotica di riverenza e compassione che suscita la sua figura. È chiaro che, al netto delle musichette mariachi, la serie mette in scena un uomo che non ha mai smesso di farsi male, e che non sa come smettere.

Questo continuo tira e molla di epicità e amarezza oggi è finito. Chiunque avesse seguito gli sviluppi più recenti, ivi compreso il sopramenzionato documentario, non può dirsi del tutto sorpreso da questo esito. Ma anche in questo, anche nella compresenza a volte goliardica, a volte devastante di superiore e inferiore, alto e basso, sacralità e auto-dissacrazione, Maradona sembrava essere una condizione di possibilità incondizionata ed eterna.

Pensare di fare una rassegna dell’impatto della sua vita e della sua figura così, a caldo, nei giorni appena successivi alla sua scomparsa, sarebbe pura follia. Eppure, qualcosa si può dire. Si può dire che il ruolo politico di Maradona secondo me non va visto solo nelle sue amicizie con i socialismi sudamericani, quanto piuttosto nella sfacciataggine con cui non ha mai smesso di essere un povero pieno di soldi e amato da milioni di persone. La puzza di povertà non l’ha mai lasciato, e questo qualcuno non glielo ha mai perdonato. In ogni sua caduta, in ogni sua uscita fuori luogo, è sempre comparso un commentino compiaciuto sul fatto che un poveraccio argentino non sa gestire la ricchezza e la popolarità, perché non se le merita. A un livello invece più viscerale e forse ingenuo, Maradona ha rappresentato un ultimo barlume di apertura all’impossibile nella gabbia d’acciaio della prevedibilità, della costanza, della routine di asimmetrie sociale ed economiche sempre più implacabili e inaggirabili. Rivedere oggi i video di Diego, come tanti/e di noi avranno fatto, è uno schiaffo in faccia. La potenza di un uomo che da un lato non era fatto per stare lì – lì dove stanno i soldi, il potere, l’influenza, il prestigio –, e dall’altro lato non poteva che stare lì – vista la sua tecnica, il suo carattere, il suo carisma – è una scintilla irripetibile di sacro che merita rispetto e ammirazione, e che le amarezze degli ultimi anni non riusciranno mai a spegnere.



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