a 12500 chilometri di distanza, fra le rovine di Binnish, in Siria, il pittore Aziz Asmar rende omaggio a Diego sulla parete di una casa distrutta
A DIEGO - Gianni Minà
Con Maradona il mio rapporto è stato sempre molto franco.
Io rispettavo il campione, il genio del pallone, ma anche l’uomo, sul quale
sapevo di non avere alcun diritto, solo perché lui era un personaggio pubblico
e io un giornalista.
Per questo credo lui abbia sempre rispettato anche i miei diritti e la mia
esigenza, a volte, di proporgli domande scabrose.
So che la comunicazione moderna spesso crede di poter disporre di un
campione, di un artista soltanto perché la sua fama lo obbligherebbe a dire
sempre di sì alle presunte esigenze giornalistiche e commerciali dell’industria
dei media.
Maradona, che ha spesso rifiutato questa logica ambigua, è stato tante
volte criminalizzato.
Una sorte che non è toccata invece, per esempio, a Platini, che come Diego
ha detto sempre no a questa arroganza del giornalismo moderno, ma ha avuto
l’accortezza di non farlo brutalmente, muro contro muro, bensì annunciando,
magari con un sorriso sarcastico, al cronista prepotente o pettegolo “dopo
quello che hai scritto oggi, sei squalificato per sei mesi. Torna da me al
compimento di questo tempo.”
Era sicuro, l’ironico francese, che non solo il suo interlocutore assalito
dall’imbarazzo non avrebbe replicato, ma che la Juventus lo avrebbe protetto da
qualunque successiva polemica.
A Maradona questa tutela a Napoli non è stata concessa, anzi, per tentare
di non pagargli gli ultimi due anni di contratto, malgrado le tante vittorie
che aveva regalato in pochi anni agli azzurri, nel
1991 gli fu preparata una bella trappola nelle operazioni antidoping
successive a una partita con il Bari, in modo che fosse costretto ad andarsene
dall’ Italia rapidamente.
Eppure nessuno, né il presidente Ferlaino, né i suoi compagni (che per
questo ancora adesso lo adorano) né i giornalisti, né il pubblico di Napoli,
hanno mai avuto motivo di dubitare della lealtà di Diego.
Io, in questo breve ricordo, a conferma di questa affermazione, voglio
segnalare un semplice episodio riguardante il nostro rapporto di reciproco
rispetto.
Per i Mondiali del ’90, con l’aiuto del direttore di Rai Uno Carlo
Fuscagni, mi ero ritagliato uno spazio la notte, dopo l’ultimo telegiornale,
dove proponevo ritratti o testimonianze dell’evento in corso, al di fuori delle
solite banalità tecniche o tattiche. Questa piccola trasmissione intitolata
“Zona Cesarini”, aveva suscitato però il fastidio dei giovani cronisti
d’assalto (diciamo così...) che occupavano, in quella stagione, senza smalto,
tutto lo spazio possibile ad ogni ora del giorno e della notte. La circostanza
non era sfuggita a Maradona ed era stata sufficiente per avere tutta la sua
simpatia e collaborazione.
Così, nel pomeriggio prima della semifinale Argentina-Italia, allo stadio
di Fuorigrotta di Napoli, davanti a un pubblico diviso fra l’amore per la
nostra nazionale e la passione per lui, Diego, mi promise per telefono:
“Comunque vada verrò al tuo microfono a darti il mio commento. E tengo a
precisare, solo al tuo microfono.”
La partita andò come tutti sanno. Gol di Schillaci e pareggio di Caniggia
per un’uscita un po’ avventata di Zenga.
Poi supplementari e calci di rigore con l’ultimo, quello fondamentale,
messo a segno proprio da quello che i napoletani chiamavano ormai “Isso”, cioè
Lui, il Dio del pallone.
L’atmosfera rifletteva un grande disagio. Maradona, per la seconda volta in
quattro anni, aveva riportato un’Argentina peggiore di quella del Messico, alla
finale di un Mondiale che la Germania, qualche giorno dopo, gli avrebbe
sottratto per un rigore regalato dall’arbitro messicano Codesal, genero del
vicepresidente della Fifa Guillermo Cañedo, sodale di Havelange, il presidente
brasiliano del massimo ente calcistico, che non avrebbe sopportato due vittorie
di seguito dell’Argentina, durante l’ultima parte della sua gestione.
C’erano tutte le possibilità, quindi, che Maradona disertasse
l’appuntamento. E invece non avevo fatto a tempo a scendere negli spogliatoi,
che dall’enorme porta che divideva gli stanzoni delle docce dalle salette delle
tv, comparve, in tenuta da gioco, sporco di fango e erba, Diego, che chiedeva
di me, dribblando perfino i colleghi argentini. C’era, è vero, nel suo sguardo,
un’espressione un po’ ironica di sfida e di rivalsa verso un ambiente che in
quel Mondiale, non gli aveva perdonato nulla, ma c’era anche il suo culto per
la lealtà che, per esempio, lo aveva fatto espellere dal campo solo un paio di
volte in quasi vent’anni di calcio.
Cominciammo l’intervista, la più ambita al mondo in quel momento, da
qualunque network.
Era un programma registrato che doveva andare in onda mezz’ora dopo, perché
più di trent’anni di Rai non mi avevano fatto “meritare” l’onore della diretta,
concessa invece al cicaleggio più inutile.
Ma a metà del lavoro eravamo stati interrotti brutalmente non tanto da
Galeazzi (al quale per l’incombente tg Diego concesse un paio di battute) ma da
alcuni di quei cronisti d’assalto che già
giudicavano la Rai cosa propria e che pur avendo una postazione vicina ai
pullman delle squadre, volevano accaparrarsi anche quella dove io stavo
intervistando Maradona. El Pibe de Oro fu
tranciante: “Sono qui per parlare con Minà. Sono d’accordo con lui da ieri.
Se avete bisogno di me prendete contatto con l’ufficio stampa della Nazionale
argentina. Se ci sarà tempo vi accorderemo qualche minuto.” Aspettò in piedi,
vicino a me, che terminasse l’intervista con un impavido dirigente del calcio
italiano, disposto a parlare in quella serata di desolazione, poi si risedette,
battemmo un nuovo ciak e terminammo il nostro dialogo interrotto. Quella
testimonianza speciale, di circa venti minuti, fu richiesta anche dai colleghi
argentini, e andò in onda (riannodate le due parti) dopo il telegiornale della
notte.
Fu un’intervista unica e giornalisticamente irripetibile, solo per
l’abitudine di Diego Maradona a mantenere le parole date.
Lo stesso aveva fatto per i Mondiali americani del ’94 quando aveva
accettato per due volte di ritornare all’attività agonistica in nazionale prima
per assicurare la partecipazione alla querida Argentina nel match di spareggio
contro l’Australia e poi giocando tre partite all’inizio dei Mondiali stessi,
prima che lo fermassero. Eppure, val la pena ricordarlo, nel momento in cui,
con un'accusa ridicola era stato sospeso per doping dopo le prime due partite.
La Federazione del suo amato paese non aveva mandato nemmeno un avvocato a
respingere legalmente l’imputazione che non stava in piedi: “Hanno preferito
trafiggere con un coltello il cuore di un bambino” aveva commentato Fernando
Signorini, il suo allenatore e consigliere, quando la mattina dopo ci eravamo
incontrati.
L’intervista da un motel dove aveva soggiornato con i parenti l’avevo
ottenuta io. I giapponesi l’avevano mandata in diretta e i francesi in
differita, un po’ di ore dopo, non credendola possibile.
Così, insomma, questo modo di comportarsi da grande e da piccino lo ha
portato a superare ogni avversità e pericoli - anche quelli che sembravano
impossibili - della sua esistenza.
Dalla polvere di Villa Fiorito, nella provincia di Buenos Aires, dove è
cominciata la sua avventura di più grande calciatore mai nato alla militanza
politica nei partiti progressisti latinoamericani per i quali ha dato molte
volte la propria faccia.
Nessun calciatore è mai arrivato a tanto.
Diego, per una ironia del destino, se n’è andato da questo mondo lo stesso
giorno di un altro gigante, Fidel Castro.
Alla fine li rimpiangeremo, come succede a chi ha lasciato una traccia
indelebile nel gioco del calcio e della vita.
E ora silenzio.
Il suo prezzo al mondo del pallone lo ha pagato da tempo.
A Diego mio
fratello, a Diego Maradona, rivoluzionario latinoamericano e napoletano - Gennaro Carotenuto
Piango l’uomo prima del calciatore. Sei morto un 25 novembre, lo stesso
giorno di Fidel Castro, tuo amico e compagno vero, non di un giorno.
Rivoluzionario latinoamericano tu e lui, la Storia vi ha già assolto. Diego
villero, Diego fattosi uomo in una Villa Miseria, Diego che poteva essere
quello che è solo a Napoli. Diego nostro. Diego che non si è fatto napoletano,
lo era. Diego Sud, Diego tutti i Sud del mondo. Diego il Ribelle contro il
potere, fosse Blatter o Bush o tutti i Nord del mondo. Diego il grande uomo,
gran-de uo-mo, che viene dal basso che più in basso non si può, per farsi D10S,
il più grande di tutti.
Quanti insegnamenti ho ricevuto da te, Diego Maradona. L’uomo che cade e si
rialza, nella sua grandezza e nelle sue fragilità. L’uomo che sa di essere
grande e fragile. L’uomo che quando sbaglia, sbaglia contro se stesso e paga in
prima persona. L’uomo che non abbassa la testa, l’uomo con la schiena dritta,
che in quello Stadio Olimpico che ribolliva d’odio (irrisolvibile,
irredimibile, imperdonabile) fischiando l’inno argentino, elevò in mondovisione
il suo limpido, legittimo, a testa alta: “hijos de puta”. Sette anni sei stato
il più odiato dagli italiani, in quanto napoletano. Se perdi in quanto Sud, ti
malsopportano. Ma se vinci, morti d’invidia, non te lo perdonano. Ti sarebbe
bastato tradire la città, ma tu non hai tradito. Perciò ti odiavano. Perciò ti
amiamo.
Odiavano quel tuo corpo massacrato perché non potevano averlo. Odiavano
quel corpo biopolitico, come quello del Che Guevara tatuato sul tuo braccio,
massacrato di calci maligni e di infiltrazioni velenose, quel tuo corpo
castigato dalle droghe, dall’alcool e dal cibo. Da qualche parte dovevi pur
sfogare tanta grandezza. Quel corpo è quello dell’umanità come siamo, non
quella borghesuccia, perbenista e ipocrita che ti disprezzava. In troppi oggi
s’intesteranno la tua memoria, ma solo due nazioni possono rivendicarti come
figlio: la nazione argentina e quella napoletana.
Solo chi è un analfabeta della cultura popolare di tutto questo pianeta può
pensare che tu sia stato solo un calciatore. Sei stato la coscienza popolare
dell’umanità ferita di tutti i Sud del mondo, che balbetta, zoppica, desidera,
cade, ma non abbassa la testa. Sei stato l’unico nella Storia a vincere una
guerra con due gol, in Messico, con la mano di D10S e il gol del siglo,
entrambi necessari a ricacciare in gola tutta la boria e tutto il disprezzo
dell’impero britannico, il Nord contro il Sud. Come cantano i Calle 13,
Latinoamerica è “Maradona contra Inglaterra anotándote dos goles”. A Sud, con
il tuo sinistro. Solo Sud, di sinistra. Eri Sud, solo Sud, Diego, fratello mio.
A Juan Da Silva, mi
hermano, a Salvatore Pisano, mio fratello,
estén donde estén, hoy brinden con el Diego de la gente
MARADONA TRA NAPOLI E IL SUDAMERICA - Rino
Genovese
È la morte di un mito, quella che ci colpisce oggi. Una
morte, per quanto prematura, perfino prevedibile considerando la nota
tossicodipendenza dell’uomo. Ma, riflettendo un po’ a mente fredda sul
significato di questo mito, non si potrebbe non vederne – come accade del resto
per tutti i miti – l’intrinseca ambivalenza: Maradona ha incarnato
un’aspirazione al riscatto degli ultimi, anche attraverso le sue prese di
posizione, o ha contribuito in modo decisivo a quella narcosi di massa prodotta, in particolare
a partire dagli anni ottanta, dalla miscela di sport, affari, politica e grande
spettacolo?
Napoli, la più sudamericana delle città italiane, aveva
dei precedenti in questo senso risalenti ai tempi di Vinicio e Pesaola e poi di
Sivori e Altafini: una voglia di miti, tra l’Argentina e il Brasile, che
trovava alimento in quella mitopoiesi sempre in azione nei paesi dell’America
latina. Lo storico “comandante” Achille Lauro, l’armatore fascista e poi
monarchico, era stato in stretto contatto con l’Argentina del “momento Perón”,
traendone tutto il succo politico-sociale che se ne poteva trarre, e
organizzando, mediante la sua presidenza della società di calcio, l’ascesa che
lo condurrà a diventare sindaco di una città che nel referendum del 1946 aveva
dato la maggioranza dei voti alla monarchia. Maradona viene a innestarsi
dunque, pochi anni dopo il terremoto del 1980, nel fertile humus di un populismo napoletano di lunga
data. A questo proposito, tuttavia, non bisogna riferirsi a Masaniello, ai lazzaroni, alla plebe, di cui aveva parlato
finanche Hegel, quanto piuttosto all’uso che del “popolaccio”, come lo chiamava
Vincenzo Cuoco, avevano fatto i sanfedisti, i borboni, le famiglie del potere
meridionale tradizionale per sconfiggere la fragile rivoluzione del 1799.
Questo è stato Maradona a Napoli, al di là del genio
calcistico: un elemento di grande presa simbolica, di rinnovamento e coesione,
del blocco storico che da un certo momento in poi, nel post-terremoto, ha
stabilmente incluso gli affari della nuova camorra nel proprio cerchio. Non
c’era nessuno, durante il suo regno incontrastato, che potesse obiettare
qualcosa: tutto gli era consentito, naturalmente anche l’evasione fiscale, che
in Italia d’altronde non ha mai scandalizzato nessuno. Ricordo che una volta
Gianni Minà, in un salotto napoletano, ce ne parlò come di una vittima della
terribile macchina del calcio: l’associazione Calcio Napoli, già al momento del
suo acquisto dal Barcellona, sarebbe stata a conoscenza della pervicace
tossicodipendenza del divo. A mio parere, però, Maradona fu sempre ben contento
di farsi triturare da quella macchina che gli aveva dato fama, ricchezza, onori
– e a Napoli anche grossi quantitativi di cocaina a prezzo scontato.
DIEGO ARMANDO MARADONA - La Ragione di Stato
Come in
tutte le agiografie che si rispettino, c’è sempre un momento in cui qualcuno
riesce a entrare in contatto fisico diretto con la santità. E la testimonianza
è tanto più forte, se viene da un fedele aderente a un’altra confessione.
“Maradona lo sono andato a vedere a Torino mentre si allenava prima del match
contro di noi. Era basso, ma l’ho toccato sul petto, ed era come toccare la
pietra”, così disse mio cugino più grande che viveva a Torino, juventino come
me, ma ovviamente capace di vedere la santità aldilà delle diverse declinazioni
della fede nel trascendente.
Gli anni ’80
e ’90 sono l’era assiale del calcio, vale a dire l’era in cui profeti e figure
divine di diversa origine geografica a pochi anni di distanza e l’uno
indipendente dall’altro invadono il mondo con messaggi, gesta e dottrine di
portata universale. Per motivi anagrafici, estetici e morali, il mio profeta è
Roberto Baggio da Caldogno, Vicenza. Conservo le sue magliette bianconere di
inizio anni 90’, probabilmente false, con due sponsor diversi – Upim e Danone –
come se fossero appunto due reliquie. Non accetto che nessuno ne metta in
dubbio la santità, anche se sono ben disposto a riconoscere come profeti
legittimi Van Basten, Zidane, Ronaldo, Totti, e ovviamente, un gradino sopra tutti,
Maradona.
Agli
infedeli, agli scettici che per ignoranza, malvagità, confusione spirituale non
sono disposti a riconoscere immediatamente la santità di Baggio, presento sempre
un argomento inconfutabile: quale semplice essere umano è capace di portare la
sua nazionale a un passo dalla vittoria di un Mondiale pressoché per sua
singola iniziativa, come accadde a USA 94? La risposta è: nessuno. Con una
piccola aggiunta: qualcuno otto anni prima aveva portato una squadra composta
da ruvidi tagliagole e un fine scrittore come Jorge Valdano non solo in finale,
ma addirittura sul tetto del mondo. E inoltre, proprio in quegli anni, a
seguito di dinamiche che solo un miscredente può considerare casuali, lo stesso
profeta si era spostato da Barcellona a Napoli, trasformando una piazza sino ad
allora non esattamente di élite calcistica in una potenza nazionale ed europea.
Oggi il calcio ama presentarsi come una scienza esatta, con statistiche,
expected goals, occasioni, assist, passaggi riusciti, e così via. Niente di
male in tutto ciò. Ma non è in questi pur utili numeri che si trova la cifra
del divino. Le sue tracce sono altrove, in qualche raro episodio che la nostra
mente seleziona faziosamente e soggettivamente, come del resto è personale e
particolare ogni esperienza religiosa individuale e collettiva. A livello di
pura oltreumanità calcistica, vorrei menzionare un momento che apparentemente
confligge con il mio orientamento religioso.
3 Novembre
1985. Un anno prima, Maradona diventava un giocatore del Napoli. Dopo un anno
interlocutorio, la mano del pibe de oro comincia a dare i suoi frutti. Quella
stagione il Napoli la chiuderà al terzo posto, togliendosi numerose
soddisfazioni. Tra cui questa vittoria con la Juventus, campione d’Europa in
carica dopo l’orrore del massacro dell’Heysel. I bianconeri vinceranno poi lo
scudetto anche grazie ai gol di Aldo Serena, che la sera della cessione era tra
il pubblico del concerto di Bruce Springsteen. Quel 3 Novembre tuttavia la
musica è diversa. La “Domenica sportiva” lo capisce: nel momento clou del
montaggio del riassunto della partita, fa partire l’”Inno alla gioia” di
Beethoven e lo dedica con un pizzico di paternalismo al pubblico di Napoli,
“non abituato a vincere, diversamente da quello della Juventus”. Ma il gesto di
Diego non è solo per i suoi tifosi. È piuttosto, appunto come l’opera di
Beethoven, un capolavoro fruibile dall’intera umanità.
Non mi
dilungo sul rapporto tra Maradona e la sua Napoli. Sarebbe come entrare in un
rapporto d’amore che non ci vede coinvolti. Come in tutti i legami più forti e
viscerali, non mancano ambiguità e contraddizioni. Mettendo da parte le
questioni economiche con il presidente Ferlaino – sottolineate più volte dallo
stesso Maradona e ripresa dal denso post di commiato di Gianni Minà –, ci
limitiamo a un solo esempio: stagione 1989-1990. Nell’estate del 1989, Maradona
è a un passo dal diventare un giocatore dell’Olympique Marseille. La città
reagisce con sdegno. L’intellighenzia artistica e letteraria napoletana non
resta a guardare. Ecco alcuni interventi raccolti dall’ottimo articolo di Marco Gaetani per “L’ultimo
uomo”: “De Crescenzo: «Ferlaino ha sbagliato a non venderlo, a
Maradona non importa assolutamente niente del Napoli, pensa solo ai Mondiali».
Bennato: «Sono convinto che ci sia qualcuno che lo manovra. Forse il Marsiglia,
oppure chissà, gli americani». Carosone: «Maradona non è serio, un cantante che
si è fatto pagare una tournée anticipata e non rispetta le date fissate»”. Poi,
qualche mese dopo, rientrerà tutto, e Maradona trascinerà i suoi al secondo
scudetto. Ma il meglio deve ancora arrivare. Estate 1990: l’Italia organizza un
mondiale che avrebbe potuto e dovuto vincere per manifesta superiorità. Finché
non accade l’impensabile: contro ogni legge statistica e contro ogni previsione
della accurata regia dell’organizzazione, la semifinale è Italia-Argentina, e
si gioca a casa di Diego, a Napoli. Nei giorni precedenti il match, Maradona
con furbizia cerca di mettere il suo pubblico contro una nazione che non ha mai
cacato Napoli, che l’ha sempre trattata come l’ultima ruota del carro, e adesso
vuole che tifi per lei perché le fa comodo. L’Italia, come tipico di quegli
anni lì di fine lira, perderà ai rigori. Il giorno della finale
Argentina-Germania, allo Stadio Olimpico parte del pubblico fischierà
volgarmente l’inno argentino. Maradona risponderà con il labiale di sotto.
Tutto ciò,
insieme ad altri mille capolavori tecnici e sportivi di Diego, l’ho solo
vissuto indirettamente, o forse solo vagamente. Il mio primo anno di piena
coscienza calcistica è infatti il 1992. Maradona era già in decadenza. Il 17
marzo 1991, dopo l’incontro Napoli-Bari, Diego risulta positivo alla cocaina a
seguito di un controllo antidoping, e viene condannato a 15 mesi di squalifica.
È il classico inizio della fine: viene ceduto al Siviglia, torna in Argentina
per giocare 5 partite con i Newell’s Old Boys, e il 2 febbraio 1994, pochi mesi
prima del Mondiale, un gruppo di giornalisti circonda la casa di Maradona: in
tutta risposta El Pibe de Oro gli spara con un fucile e si prende 2 anni di
galera con la condizionale. Con l’inizio dei mondiali, la coltre ormai fitta di
degrado tragicomico sembra di nuovo, miracolosamente diradarsi per lasciare
spazio al sacro. L’Argentina schianta la modesta Grecia 4 a 0, e Maradona segna
un goal stellare, con annessa esultanza energetica e un pizzico inquietante. Ma
la parabola orami è inesorabilmente discendente: dopo la partita con la
Nigeria, Diego risulta positivo all’efedrina. Prima nega, giurando persino
sulle sue figlie. Poi ammette: “ho commesso una leggerezza”.
Da quel
momento in poi, per chi come me non aveva avuto la fortuna di assistere in
diretta al prime di Diego, è cominciato un lungo tira e molla. Da un lato,
notizie sempre più grottesche, drammatiche, amare. Dall’altro, un calcio che
sembrava sempre trovare il modo di rimandare a quel passato di Maradona, come
se le imprese degli anni ’80 fossero una sorta di quadro trascendentale, una
griglia a partire dalla quale poter valutare quello che accadeva nel presente.
Ogni goal può ambire al massimo a diventare il secondo più bello di sempre,
perché c’era quello di Maradona contro l’Inghilterra con cui fare i conti. Ogni
impresa romantica poteva diventare soltanto la seconda impresa romantica della
storia, dopo la sua epopea napoletana. E infine, ogni giocatore in attività che
pure avesse cifre e continuità mai viste prima, poteva ambire al massimo al
titolo di secondo miglior giocatore di sempre, perché prima c’era Diego – ci
dispiace, Leo Messi. Nel frattempo, la vita di Diego viveva di un’alternanza
tra sussulti e amarezze. I sussulti, proveniente dai riconoscimenti di
“classico vivente” provenienti non solo dal mondo dello sport, ma anche dallo
spettacolo, dalla letteratura, dalla politica e dal cinema. Le amarezze,
provenienti dalla vita reale. Visto che, come recita un proverbio delle mie
parti, non c’è matrimonio in cui non si pianga e non c’è funerale in cui non si
rida, ammetto senza problemi che alcune di queste amarezze mi hanno fatto
ridere.
La rosa è
piuttosto ampia: le sceneggiate all’ultimo mondiale russo meritano un posto di
rilievo in questo senso. Di tutto rispetto grottesco anche le comparsate
televisive di Diego Maradona Jr. al reality show calcistico cult “Campioni”,
con i colori del Cervia e sotto la guida tecnica ed esistenziale di Ciccio
Graziani. Ma al primo posto, senza alcuna esitazione, metto la comparsata di
Maradona a “Carramba che fortuna” (tardi anni 90’) insieme ai suoi ex compagni
di squadra del Napoli, e sotto il comando di un’altra divinità italo-ispanica:
Raffaella Carrà. Palleggi da foca, abbracci, torelli, carrambate, tifosi
napoletani in diretta da Piazza del Plebiscito, bambini in braccio del Pibe, il
nipote del Pibe che si chiama come il figlio di Careca: questo video racconta
più di tante parole quella simbiosi perversa tra Diego e i bassifondi
dell’intrattenimento italiano. Che il suo agio in questo disagio ci sia di
sostegno e aiuto nei momenti di maggiore imbarazzo.
Poi ci sono
state le macchiette drammatiche, quelle in cui si intravedeva un declino ormai
inarrestabile e una fragilità spaventosa, soprattutto se confrontata alle
immagini di onnipotenza che qualunque raccolta video di Youtube può offrire. Mi
riferisco in particolare a “Maradona in Messico”, docu-serie di Netflix del
2019. La trama è semplice: dopo l’esperienza negli Emirati Arabi, Maradona va
ad allenare i Dorados di Culiacàn, nazione Messico, stato Sinaloa, al top
mondiale per il traffico di cocaina. In un misto di scetticismo, sacralità,
drammi emotivi, balli propiziatori e bassa attività cognitiva, Diego riesce a
portare i Dorados ai playoff e a un passo dall’agognata promozione, mancando
l’obiettivo per un pelo. Sebbene non manchino i momenti goliardici, chiunque
affermi di non aver provato pena per il protagonista, o mente, o non sa cosa e
chi sia stato Maradona. Non è tanto la sua fragilità a creare disagio, quanto
piuttosto il misto totalmente caotica di riverenza e compassione che suscita la
sua figura. È chiaro che, al netto delle musichette mariachi, la serie mette in
scena un uomo che non ha mai smesso di farsi male, e che non sa come smettere.
Questo
continuo tira e molla di epicità e amarezza oggi è finito. Chiunque avesse
seguito gli sviluppi più recenti, ivi compreso il sopramenzionato documentario,
non può dirsi del tutto sorpreso da questo esito. Ma anche in questo, anche
nella compresenza a volte goliardica, a volte devastante di superiore e
inferiore, alto e basso, sacralità e auto-dissacrazione, Maradona sembrava
essere una condizione di possibilità incondizionata ed eterna.
Pensare di
fare una rassegna dell’impatto della sua vita e della sua figura così, a caldo,
nei giorni appena successivi alla sua scomparsa, sarebbe pura follia. Eppure,
qualcosa si può dire. Si può dire che il ruolo politico di Maradona secondo me
non va visto solo nelle sue amicizie con i socialismi sudamericani, quanto
piuttosto nella sfacciataggine con cui non ha mai smesso di essere un povero
pieno di soldi e amato da milioni di persone. La puzza di povertà non l’ha mai
lasciato, e questo qualcuno non glielo ha mai perdonato. In ogni sua caduta, in
ogni sua uscita fuori luogo, è sempre comparso un commentino compiaciuto sul
fatto che un poveraccio argentino non sa gestire la ricchezza e la popolarità,
perché non se le merita. A un livello invece più viscerale e forse ingenuo,
Maradona ha rappresentato un ultimo barlume di apertura all’impossibile nella
gabbia d’acciaio della prevedibilità, della costanza, della routine di
asimmetrie sociale ed economiche sempre più implacabili e inaggirabili.
Rivedere oggi i video di Diego, come tanti/e di noi avranno fatto, è uno
schiaffo in faccia. La potenza di un uomo che da un lato non era fatto per
stare lì – lì dove stanno i soldi, il potere, l’influenza, il prestigio –, e
dall’altro lato non poteva che stare lì – vista la sua tecnica, il suo
carattere, il suo carisma – è una scintilla irripetibile di sacro che merita
rispetto e ammirazione, e che le amarezze degli ultimi anni non riusciranno mai
a spegnere.
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