Video “virali” del tizio o della tizia che gliele canta ai «negazionisti»; titoloni sul pericolo «negazionisti»; invettive contro i «negazionisti»; satira sui «negazionisti», grasse risate! I «negazionisti» sono ovunque, ed è colpa loro se le cose vanno male. Ecco allora i nostri eroi, i prodi che li contrastano, gettando loro guanti di sfida: «Vengano in terapia intensiva, i negazionisti!»
Sono sfide a
nessuno, invettive contro fantasmi, colpi sparati nella nebbia. Chi sarebbero i
«negazionisti»? Sì, esistono frange secondo cui la pandemia sarebbe finta, ma
sono ultraminoritarie. In genere, nemmeno chi è aperto a fantasie di complotto
su Bill Gates, i vaccini e quant’altro nega che sia in corso una pandemia e che
il virus uccida. E allora di chi si sta parlando?
Il termine
«negazionista» ha ormai una storia pluridecennale. Coniato negli anni Ottanta
per definire personaggi come David Irving, Robert Faurisson o Carlo Mattogno,
secondo i quali nei lager nazisti non sarebbero esistite camere a gas né
sarebbe avvenuto alcuno sterminio sistematico di ebrei e altri prigionieri, in
seguito è stato esteso a sempre più ambiti, diventando un’arma nelle culture wars del XXI secolo.
In Italia,
negli ultimi quindici anni, se n’è appropriata la destra per accusare di
«negazionismo» chiunque smontasse
le sue narrazioni – bufale storiche incentrate su fantasie di complotto antislave –
sulle «foibe» e l’«Esodo istriano-dalmata». In quel modo, mentre una narrazione
risalente al collaborazionismo filonazista diventava “storia di Stato”
con l’istituzione
del Giorno del Ricordo, la destra poteva fingere di occupare il “centro”
del dibattito sulla memoria storica. In parole povere, poteva denunciare gli
“opposti estremismi”: c’è chi nega la Shoah e c’è chi “nega le foibe”, stessa
roba.
E dato che
– nonostante
l’opposizione di gran parte delle storiche e degli storici – anche in Italia si è
introdotta una legge «anti-negazionisti» (lo ha fatto il governo Renzi nel
giugno 2016), a essere agitato è anche lo spettro dell’azione giudiziaria. È
proprio di quest’anno una
proposta di Fratelli d’Italia per estendere l’attuale legge ai «negazionisti
dei massacri delle foibe».
L’effetto
di framing è quello della Reductio ad Hitlerum: su qualunque tema e questione si
attiva un implicito – e a volte esplicito – paragone con il negazionismo della
Shoah, e tramite una catena di false equivalenze si accelera il ciclo
della Legge di Godwin: in men che non si dica ti danno
del nazista, perché se sei “negazionista” – poco importa riguardo a cosa – sei come i nazisti.
Da tempo
l’uso del termine «negazionismo» segnala un buttarla in vacca, e
sarà sempre più così, perché il termine incoraggia l’indolenza, si presta ad
accuse pigre.
Quel che è
più grave, il termine spinge verso la patologizzazione dei
discorsi sgraditi e la psichiatrizzazione dell’avversario:
se non sei d’accordo con me che la penso “come tutti” allora “neghi la realtà”,
e chi nega la realtà è un folle o un demente, e coi folli o i dementi non si
può ragionare.
Torniamo
all’ossessione odierna per i «negazionisti del Covid»: andando a vedere, si
scopre che «negazionista» è un epiteto scagliabile contro chiunque critichi
l’irrazionalità e/o iniquità di un provvedimento o anche solo si mostri
scettico sulla sua efficacia, chiunque smonti un esempio di mala informazione
mainstream sul virus o reagisca sbuffando all’ennesimo titolo strumentale, chiunque
ricordi le responsabilità del governo o dei governatori, chiunque rifiuti la
narrazione dominante incentrata sull’«è colpa nostra, non ce la possiamo fare,
gli italiani capiscono solo il bastone». Persino chi “indossa male” la
mascherina si becca l’epiteto di «negazionista».
Il
«negazionista» è il nuovo «quello che fa jogging».
Uno pseudo-concetto che fa danni
L’uso
indiscriminato ha reso l’epiteto non solo di scarsa utilità per capire quali
posizioni si stiano di volta in volta scontrando, ma lo ha reso proprio tossico.
Qualcuno
ancora cerca di usare il termine in modo che produca senso. Nella migliore
delle ipotesi, si brandisce un’arma concettuale spuntata; nella peggiore, si
lancia un vero e proprio boomerang, perché l’effetto di framing è fortissimo e
il termine genera inevitabilmente dicotomie, antinomie, pensiero binario.
Arma
spuntata. Quando si parla di disastro climatico, dove pure un negazionismo – in
senso stretto e in senso lato – è stato a lungo operante, godendo anche di
finanziamenti da parte dell’industria dei combustibili fossili, l’accusa
funziona sempre meno e sta diventando un cliché, un tic lessicale, una
manifestazione di pigrizia, come già in altri ambiti. I negazionisti stanno da
tempo ricalibrando i loro discorsi, oggi davvero poca gente sostiene che non
sia in corso un surriscaldamento globale. Le argomentazioni
speciose riguardano
l’entità del fenomeno, le sue cause e il come farvi fronte.
Effetti
boomerang e pensiero binario. Anche noi, in coda a un post di qualche settimana
fa, abbiamo scritto che chi accusa chiunque di «negazionismo» è il più delle
volte negazionista, perché nega ogni evidenza
sull’irrazionalità dei provvedimenti e sulle responsabilità politiche nella
gestione della pandemia. Un paradosso che abbiamo scelto di non sviluppare,
perché sviluppandolo avremmo rilegittimato l’uso del termine e rafforzato un
frame pericoloso. Ha provato invece a svilupparlo Giancarlo Ghigi in un articolo uscito sul
sito di Jacobin Italia e intitolato «I due contagi».
Ghigi divide
l’opinione pubblica in due schieramenti o due «tifoserie»: i negazionisti del morbo e i negazionisti del disciplinamento. L’articolo dice molte
cose giuste, ma stabilisce dal principio una falsa omologia: almeno nella
società italiana – ma crediamo valga per tutta l’Europa e gran parte
dell’Occidente – i «negazionisti del morbo» sono un’infima minoranza,
costantemente ingigantita al microscopio dai media e tirata in ballo per
esecrare il dissenso, mentre il «negazionismo del disciplinamento» è
maggioritario, impregna il discorso ufficiale e dà forma alla narrazione dei
media filo-governativi.
Quando Ghigi
esorta a «riconoscere il morbo come oggettività», di chi parla? Chi davvero non sta «riconoscendo il morbo come
oggettività»? Quant’è utile stabilire un’omologia tra chi negherebbe
l’esistenza del virus e chi prende sottogamba la gestione autoritaria e
capitalistica dell’emergenza, se il primo atteggiamento è in gran parte effetto
di una proiezione gigantografica mentre il secondo è ideologia dominante? Alla
fine, l’esito è quello di riproporre gli “opposti estremismi”, con l’autore che
si pone “nel giusto mezzo”. Come ci ha detto un compagno con cui abbiamo
commentato il pezzo di Ghigi, «intuisco le buone intenzioni, ma si è come
ubriacato della sua stessa dicotomia.»
Detto
questo, ci è drammaticamente chiaro a chi pensasse Ghigi denunciando il
«negazionismo del disciplinamento». Quest’ultimo gonfia il non-detto di una
“sinistra”, anche e soprattutto “radicale” e “di movimento”, che in nome
dell’emergenza – vissuta dal principio in modo subalterno – ha rinunciato a esprimere
qualunque critica ai dispositivi in atto.
Lo s-piazzamento della «sinistra»
Con poche e
lodevoli eccezioni, l’area politica che per inerzia abbiamo continuato a
chiamare «il movimento» – un rado reticolo di centri sociali, collettivi
universitari, radio indipendenti, librerie, cooperative e segmenti di sindacati
di base – si è legata da sola mani e piedi. Lo ha fatto nel momento in cui ha
deciso di sposare la narrazione colpevolizzante e securitaria imposta dalla
«dittatura degli inetti», e questo è accaduto subito, prima ancora del 9 marzo.
Con
l’autunno, l’area è rimasta spiazzata –
anche in senso letterale: esclusa dalla piazza – dalle proteste e rivolte
contro i dpcm, e adesso prova a far vedere che c’è anche
lei, finendo per emettere proclami confusi, contraddittori,
inefficaci. L’idea di fondo è ancora che si debba chiedere un «reddito di
lockdown». Più è duro il «lockdown» – e lo si auspica duro, per stangare i
furbetti dell’aperitivo e i genitori permissivi – più deve essere universale il
reddito. La situazione immaginata corrisponde agli arresti domiciliari di massa
con lo stato che ci versa un sussidio sul conto corrente.
A parte che
questo è un incubo huxleyano, rivelatore di un’idea miseranda di vita umana,
qualcuno dovrebbe spiegarci perché e per come ciò potrebbe o dovrebbe
realizzarsi. Perché lo diciamo «noi»?
Chi davvero non ha reddito, da che mondo è mondo, si
organizza per protestare, lottare e ottenerlo. L’ultima cosa che fa è accettare
o addirittura chiedere d’essere recluso.
Qualche
giorno fa abbiamo visto gli operai Fiom di Genova scendere in strada e arrivare
anche all’attrito con la polizia per protestare contro i licenziamenti, che in
teoria sono bloccati, ma fatta la legge trovato l’inganno. In molti luoghi di
lavoro i lavoratori e le lavoratrici si organizzano ogni giorno per rivendicare
il diritto di fare assemblee sindacali in presenza, negli spazi adeguati,
perché i padroni – privati e pubblici – hanno iniziato a negarle o a
declinare ogni responsabilità in caso di contagio: sei buono per andare a
lavorare ma non per fare l’assemblea sindacale. I riders manifestano ormai con
una certa frequenza, con flash mob per strada, cioè precisamente sul loro luogo di lavoro. I cosiddetti intermittenti
della cultura e lavoratori dello spettacolo sono scesi in piazza in varie città
per ricordare a tutti che stanno alla canna del gas. Per non guardare
all’estero, dove abbiamo visto lotte di piazza importantissime in questi mesi
pandemici, perfino in un paese devastato come gli USA, dove il movimento Black
Lives Matter ha dato una spallata importante alla presidenza di Trump
contribuendo a non farlo rieleggere.
Le lotte le
puoi fare se ti prendi lo spazio e l’agibilità per farle, non se ti fai
recludere.
Se invece il reddito è una rivendicazione puramente ideale, astratta, allora sì,
va bene anche chiederlo dal divano.
Una “spia”
di quanto sia astratto il discorso è che, nelle varie convocazioni e
articolesse, si attacca retoricamente Confindustria mentre si fanno i salti
mortali per non criticare l’esecutivo, i tempi, modi e contenuti dei dpcm,
l’emergenza come metodo di governo.
Lo diciamo
chiaro: se attacchi Confindustria e non il governo, non stai davvero attaccando Confindustria.
La
narrazione colpevolizzante, il costante scarico delle responsabilità sui
cittadini, la demonizzazione dell’aria aperta quando il contagio è sempre stato
molto più probabile al chiuso, la chiusura di luoghi della vita pubblica e
settori del mondo del lavoro dove il contagio era improbabile mentre se ne
tengono aperti altri dove è probabilissimo… Tutto questo deriva a cascata
dalla necessità, da parte del governo, di non ledere gli
interessi di Confindustria. Bisogna far vedere che si fa qualcosa, che si
chiude qualcosa, e si adottano provvedimenti cosmetici, apotropaici, diversivi. È così dal marzo scorso, da quando il
governo si rifiutò di dichiarare zona rossa i comuni di Alzano e Nembro, in
bassa val Seriana.
E così ci
ritroviamo a subire il coprifuoco, misura che non ha alcuna giustificazione
epidemiologica credibile ma serve a fare “penitenza”, come detto
con ammirabile candore dall’immunologa Antonella
Viola dell’Università di Padova:
«Il coprifuoco non ha una ragione scientifica, ma serve
a ricordarci che dobbiamo fare delle rinunce, che il superfluo va tagliato, che
la nostra vita dovrà limitarsi all’essenziale: lavoro, scuola, relazioni
affettive strette.»
Se il focus
della narrazione si è fissato sulla necessità di “fare penitenza”, è perché la
responsabilità è stata stornata da chi
ce l’aveva e dispersa verso il basso.
Ogni presa
di posizione che rimanga reticente su questo, ogni ricorso a Confindustria come
mero sparring-partner retorico, ogni discorso unicamente incentrato sul
«reddito di quarantena» o analoghe formule, ogni tinteggiatura “rivoluzionaria”
dell’esortazione a chiuderci in casa è per noi irricevibile. E reazionaria.
«Ne parliamo dopo»… quando?
La cosa che
continua a stupirci, nelle tirate moralistiche dei “compagni per la reclusione
domestica generalizzata e per la colpevolizzazione dei furbetti”, è quanto la facciano semplice, quanto prendano alla
leggera – quasi alla leggiadra – l’idea mostruosa di azzerare la vita sociale a
tempo indeterminato, quanto siano arrivati a trovare non solo necessaria ma
augurabile e persino, implicitamente, rivoluzionaria l’immagine
di milioni di persone blindate tra quattro pareti (ma ci sono i social, c’è
Zoom, dài, che vuoi che sia!). Stupisce il fatto che non si pongano mai il
problema di quanta sofferenza, quanta malattia mentale, quante esistenze
triturate e rovinate, quanti passaggi di vita fondamentali perduti,
quanta morte ci sia in questo scenario. Perché la morte
non è solo la cessazione di un paio di funzioni-base dell’organismo.
I controlli
fatti dopo la fine di #iorestoacasa (da maggio in poi) hanno riscontrato un
aumento generalizzato di suicidi, violenze domestiche, femminicidi, vendite
di psicofarmaci, depressione, ansia e disturbi alimentari tra bambini e
adolescenti, azzardopatia, dipendenza
da Internet e da video e molti altri disturbi. Per non parlare dei
disturbi che causa e causerà l’aver perso il lavoro, l’attività, a volte la
dignità.
Davvero
siamo arrivati a credere che «salute» sia soltanto non prendersi il virus?
Davvero siamo arrivati a pensare che «vita» significhi così poco, e si
riduca al non ammalarsi di Covid?
Com’è possibile che si sia giunti a dire che ora si deve pensare solo al
virus e di tutto il resto della realtà sociale – forse – ne
parleremo «dopo»? Ma «dopo» quando? Davvero si pensa che, se stiamo zitti e
muti adesso, «dopo» potremo riprendere discorsi “radicali” come niente fosse?
Ma dove, come? Con quale faccia?
Ecco allora
che «negazionista» diventa chiunque non accetti di posporre la critica a «data da destinarsi», cioè
alle calende greche.
L’uso
dell’epiteto si accompagna a un altro espediente: chi attacca Confindustria in
modo astratto e retorico – come escamotage per non criticare il governo che di
Confindustria tutela gli interessi – accusa di «confindustrialismo» (!) chi
invece, coerentemente, critica Confindustria e governo
insieme.
Questo
capovolgimento della realtà è reso possibile da un’accusa preliminare:
quella di «pensare alla libertà individuale invece che alla tutela del
prossimo». In base a tale falsa premessa, ogni critica dell’emergenza sarebbe
«liberista». A molti si è piantata in testa l’idea che la libertà sia
«individuale» e da lì non li smuoverà più nessuno. Nelle scienze cognitive si
chiama «pregiudizio di ancoraggio».
La facile
apologia di ogni restrizione – anche la più irrazionale e disonesta – sta
mettendo in secondo piano, anzi, in terzo, decimo, centesimo piano la devastazione del legame sociale, lo smarrimento di
massa, la schizofrenia nei rapporti tra le persone, ma chi lo fa notare…
«difende l’individuo».
In realtà è
il contrario, il vero individualismo è quello di chi accetta l’escamotage
neoliberale per eccellenza, che magari prima della pandemia fingeva di
rifiutare: quello di indicare in un comportamento individuale la soluzione a un
problema che invece è sociale e sistemico, e va affrontato con l’azione
collettiva.
Nel contesto
dell’emergenza Covid, accettare questa premessa porta a imperniare il discorso
sulla “virtù” individuale, sul fare penitenza dell’individuo, sul sacrificio
personale da esibire per far vedere che si è più altruisti degli altri. In
questo gioca anche un certo cattolicesimo – il più retrivo e ipocrita, quello
descritto in alcuni racconti di G.A. Cibotto –
che infatti è eruttato fuori dalla crepa aperta dall’emergenza e adesso scorre
sui social, soprattutto tra chi dei «più deboli» – espressione con cui pure si
riempie la bocca – dimostra spesso di infischiarsene. Basti vedere la scarsa o
nulla attenzione nei confronti di bambini e adolescenti.
«Maligni amplificatori biologici»
In un post
del 25 Aprile scorso, commentando la riapertura delle librerie e la prima visita di un paio di
bambini alla libreria per ragazzi Giannino Stoppani di Bologna, scrivevamo:
«Questo momento di libertà è idealmente dedicato a chi per mesi ha dipinto
i bambini come untori perfetti, potenziali omicidi dei loro nonni; a chi già
prima della pandemia li definiva “maligni amplificatori biologici che si
infettano con virus per loro innocui, li replicano potenziandoli
logaritmicamente e infine li trasmettono con atroci conseguenze per l’organismo
di un adulto” (Roberto Burioni, 31/03/2019); a chi ha scatenato il panico
sociale contro di loro, spingendo i genitori a murarli vivi dentro casa, in
certi casi rimandando perfino importanti visite mediche o terapie per loro
essenziali. La pericolosità dei bambini è stata presa per oro colato, anche se
i dati sul comportamento del Covid19 sono ancora contraddittori. Il 21 aprile
scorso, il virologo dell’università di Padova Andrea Crisanti, che ha condotto
lo studio sul focolaio di Vo’ Euganeo, ha fatto sapere che in quella comunità
“i bambini sotto i 10 anni, seppure conviventi con infettati in grado di
infettare, non si infettano. E se sono negativi non infettano”. […] Insomma,
molti aspetti delle modalità di trasmissione di questo virus non sono ancora
chiari, e sarebbe davvero paradossale se un domani
dovesse emergere che abbiamo segregato i bambini più piccoli per niente, con un
provvedimento dettato dal panico.»
Crisanti ha
ribadito il concetto in un’intervista
a Radio Capital di qualche giorno fa.
Anche un
recente articolo apparso sulla rivista Nature conferma che i bambini entro i
dieci anni non sarebbero infettivi e che in generale le scuole primarie non
sono “punti caldi” per le infezioni da coronavirus.
Dunque
abbiamo bruciato metà anno scolastico a una generazione per niente, tanto per
chiudere qualcosa che non impattasse sull’economia. Perché dal punto di vista
del capitale i giovanissimi sono come gli anziani: improduttivi (Toti dixit).
Quindi sacrificabili.
Per i
bambini campani è ancora così: niente scuola, mentre si chiama l’esercito a
presidiare le strade, come durante un golpe, anziché a costruire ospedali da
campo.
In Puglia,
dopo la riapertura delle scuole, ordinata dal TAR il 6 novembre, l’assessore
alla Salute Lopalco ha parlato di «un errore clamoroso». Repubblica e altri
giornali locali hanno subito
dato grande risalto ai dati dell’Asl, evidenziando che nella settimana della riapertura,
dal 6 all’11 novembre, «il numero di positivi riscontrati in ambito scolastico
nell’area metropolitana di Bari è passato da 132 a 243 casi». Ma un simile
effetto immediato è tutto da dimostrare. Le scuole infatti, dove sono aperte,
stanno funzionando come presidi sanitari, dove i positivi vengono individuati,
tracciati, tamponati. Se, riaperte le scuole, aumentano i positivi, può
trattarsi di contagi avvenuti proprio nella settimana di chiusura, quando i
ragazzini non erano in aula, ma forse in luoghi meno sicuri.
Intanto
teniamo gli adolescenti in DAD, dopo avere varato protocolli nazionali sulla
gestione degli spazi scolastici e fatto investire denaro pubblico a governatori
regionali e dirigenti per adeguarsi alle nuove normative. Soldi nostri
buttati nel cesso.
Se fai
notare tutto questo, però, sei «negazionista», e ti becchi l’attacco
concentrico, i titoloni, i video virali, la memetica d’accatto, le invettive
sui social, gli (ex-)amici che ti infamano.
Nel
frattempo, è acclarato che:
■ l’Italia non aveva un piano pandemico aggiornato e il rapporto commissionato
dall’OMS che denunciava il fatto è stato
insabbiato;
■ durante l’estate il governo ha fatto poco o niente per arginare la tanto
paventata seconda ondata (ma il ministro Speranza ha trovato il tempo di scrivere
un libro intitolato Perché guariremo, la
cui uscita in libreria è stata posticipata sine die);
■ in certe regioni le terapie intensive reggono bene, mentre in altre i malati
di covid muoiono in corsia;
■ i tanto decantati metodi di “tracciamento” ipertecnologici sono andati in
crisi nel giro di due settimane, tanto che nessuno ne parla nemmeno più; ecc.
Ma questo è
l’Assurdistan, mica è lecito aspettarsi altro, no? Possiamo soltanto
autoflagellarci, e insultare chi pretenderebbe meno inettitudine anziché essere
trattato come una pezza da piedi.
Ecco cosa
nasconde la «caccia al negazionista».
Non capisco cosa intenda con "framing", ma vabbè...
RispondiEliminaComunque per quanto riguarda i negazionisti, che esistono, nel caso ambientale, il loro graduale passaggio da "il riscaldamento globale non esiste" a "si esiste ma diverso da come lo descrivere voi" va vista, secondo me, come una vittoria: sono stati abbattuti quei muri mentali che li ponevano contro un argomento che viene riconosciuto come valido e, soprattutto, esistente.
Il problema è l'estremizzazione di ogni discorso, soprattutto coi social, dove c'è un "con me o contro di me" continuo e valido per ogni argomento e argomentazione
esistono dei poveri deficienti che non credono al virus, e magari non credono all'atomo, visto che non si vede.
Eliminama basta poco, una settimana in terapia intensiva mi sembra equo, per vedere l'affetto che fa, sembra un po' il metodo Ludovico, ma se è utile...
purtroppo, fidati, neanche così lo capiscono...brutti dementi, neanche di fronte alle evidenze più evidenti
Elimina