La domanda potrebbe apparire retorica ma, credetemi, non lo è. Me lo chiedo mentre attraverso camminando la galleria del rettorato all’Università di Perugia e vedo distrattamente le splendide iscrizioni etrusche inglobate nel muro. Istituzioni come questa, in Italia e in Europa, negli ultimi settecento anni hanno costituito i pilastri della civiltà, formando le classi dirigenti e orientando le politiche di sviluppo del pianeta.
Sarà così anche in futuro? Non è scontato. Ho appena
letto dell’iniziativa lanciata da Google per fornire corsi di formazione online
della durata di 3-6 mesi al termine dei quali si ha un certificato, considerato
dai reclutatori di Google equivalente a un corso universitario di quattro anni
tradizionale (Google Career Certificates, 14 luglio 2020).
L’iniziativa di Google segue l’annuncio di Microsoft (Global skills
initiative, 30 giugno 2020) che fornirà, entro quest’anno, «nuove
abilità digitali» a venticinque milioni di americani per consentire loro di
superare la crisi da Covid-19.
A prima vista le due iniziative potrebbero sembrare
un’ottima cosa: i grandi della tecnologia si fanno avanti per aiutare chi ha
perso l’occupazione e fornire «nuove abilità digitali», che sono necessarie per
trovare un nuovo lavoro. In realtà, come osserva lucidamente David Leibowitz
sulle pagine di Medium.com, dove ha scritto un pezzo
intitolato You Don’t Need College Anymore, Says Google (“Non
hai più bisogno dell’università, dice Google”), si tratta del colpo mortale che
potrebbe affossare definitivamente un sistema universitario già in crisi.
Secondo il National Student Clearinghouse Research Center, per gli Usa si parla
di declino ininterrotto negli ultimi otto anni, con l’11% di studenti in meno.
Anche in Europa, soprattutto con il Covid-19, le cose
non vanno benissimo e il briefing dell’Economist dello scorso 8
agosto suona l’allarme per i college inglesi che devono fronteggiare la
diserzione degli studenti stranieri a motivo delle limitazioni di viaggio: fino
a cinquantamila dollari persi per studente. Se il resto del mondo piange, in
Italia certo non possiamo ridere. L’attesa sui dati delle immatricolazioni è
caratterizzata da un generale pessimismo che prevede fino a un possibile 20% di
calo. Quasi tutti gli atenei si stanno dotando di infrastrutture di
comunicazione per poter erogare anche corsi online.
Sebbene questa sia una misura ragionevole, io penso
invece che investire troppo su questo tipo di formazione rappresenti una mossa
sbagliata. Innanzitutto, per quanto ci si possa attrezzare, non si raggiungerà
il grado di professionalità dei corsi online del Mit o di quelli della già
citata Coursera. Al massimo, come università tradizionali, potremmo offrire un
prodotto che è una pallida imitazione di questi. Il secondo e più importante
motivo per cui sarebbe sbagliato, è perché in questo modo si avvalora l’idea
che l’università sia soltanto un modo per fornire contenuti informativi a
utenti paganti.
Ricordo ancora l’interessante dibattito a cui fui
invitato quindici anni fa circa, all’Università di Uppsala. Il collega
americano, oggi rettore di una prestigiosa università dove gli studenti pagano
rette superiori al reddito medio di una famiglia italiana, sosteneva con
entusiasmo il suo modello: il supermarket. Lo studente/cliente è signore e
padrone, sceglie quello che gli piace, paga e se ne va nel mondo del lavoro a
far fruttare quello che ha comperato. Io e pochi altri europei difendevamo, per
paradosso, un modello opposto: l’accademia. Lo studente non sa nulla e non
sceglie nulla. Deve solo seguire il professore mentre questi lo conduce a
imparare quello che crede giusto e opportuno per lui.
Sono due modelli decisamente incompatibili e la palese
crisi dell’uno rischia di trascinare con sé anche l’altro ben più consolidato e
prestigioso. Secondo Google, i corsi universitari tradizionali sono ritenuti
superati perché non in linea con il cambiamento dell’economia. In una
situazione che evolve, i corsi debbono durare al massimo sei mesi. Ebbene,
chiariamo una cosa: lo scopo dell’università non è la fornitura di aggiornate
competenze (digital skills) ma la creazione di nuova conoscenza. Per
fare un esempio: il compito dell’università non è tanto quello di insegnare a
usare i computer esistenti quanto quello di progettare i computer del futuro.
La creazione di nuova conoscenza avviene mediante un
processo comunitario che coinvolge i professori, gli studenti e tutto il
personale universitario. Nuova conoscenza viene creata mediante la ricerca,
l’insegnamento e il contatto con il mondo produttivo. A questo serve
l’università, non a erogare corsi con competenze abilitanti online. Se questa è
la funzione dell’università, occorre allora porre mano quanto prima al suo
sostegno e alla sua riqualificazione, mediante l’assunzione di nuovi
professori, il finanziamento del mondo della ricerca e l’incentivazione di una
didattica in presenza, sicura, adeguata e non immemore del motivo per cui
l’università esiste.
(L’autore è il direttore del NiPS Laboratory dell’Università di Perugia - L’articolo è tratto da Avvenire.it)
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