giovedì 26 novembre 2020

Cosa sopravviverà alla pandemia? - Silvia Parmeggiani

  

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o di infermità, come si può dunque pensare che le misure che sono state adottate dall’arrivo dell’epidemia di Coronavirus in Italia tendano a tutelare la nostra salute? Sono poche le voci dissenzienti in questo momento, sicuramente anche grazie alla sottile tattica con cui chiusure e restrizioni sono state messe in atto in maniera sempre graduale, sostenute da una forte campagna mediatica di terrore e insicurezza. Per questo fino ad oggi sono state poco evidenti le conseguenze sulla situazione sociale e poche le proteste. Proteste per altro sempre collegate a fattori economici, certamente non da sottovalutare. C’è stato chi ha messo in evidenza come queste manovre hanno creato una “guerra tra poveri”, spaccature del tessuto sociale e l’emergere di disagi psicologici, violenza domestica e un aumento del tasso dei suicidi. Per farvi fronte sono stati messi a disposizione servizi di consulenza psicologica telefonica, è stata incentivata la fruizione di cultura per via mediatica, è stato promosso lo “smart” working e non solo working, anche socialità smart: facebook ha creato “l’evento online” e tinder ha dato la possibilità gratuita di visualizzare persone fuori dalla propria area geografica…

Allo stesso tempo è stata impiegato un discorso mediatico patriottico, che ha creato eroi e puntato il dito sugli irresponsabili. Ma non si tratta di responsabilità: la responsabilità deriva necessariamente da informazione, consapevolezza e libertà di scelta, non da un’imposizione. Si è trattato, invece, di un ricorso alla colpevolizzazione del cittadino, al suo senso di dovere civico, alla paura e alla creazione di untori – i bambini e le bambine, adolescenti e giovani che sfuggono alla repressione, rivendicando un sano bisogno di socialità. Non va confusa la colpa con la responsabilità – la prima ci viene attribuita o ce la sentiamo addosso in base a norme giuridiche, religiose o morali, che comunque non abbiamo scelto, mentre la responsabilità nasce come conseguenza di una libera decisione. Non è mai stata presa in considerazione una vera responsabilità, quella che prevede consapevolezza e assunzione di rischi, scelte soggettive, individuali e non individualistiche, e questo è avvenuto spesso ricorrendo al mito, allo stereotipo, dell’inevitabile incapacità del cittadino e della cittadina italiana di essere responsabili. A smentirlo ci sarebbe la voce di chi ha scelto anche durante la quarantena di uscire di casa, di fare una passeggiata in campagna ed eventualmente di andarsi a prendere un caffè a casa di un amico o amica, consenziente e volenterosa di affrontare il rischio di un contagio, pur di vivere serenamente, e che in nessun modo mette in pericolo chi desidera a tutti i costi evitare il contagio. Il rischio vero che hanno corso queste persone è quello di multe salate. Chi ha fatto queste scelte e continuerà a farle non è un irresponsabile, non è un untore, è semplicemente una persona che si prende cura della propria salute fisica, mentale e sociale. Ovviamente è difficile scegliere queste forme di disobbedienza civile nel momento in cui si è creato un regime da Grande Fratello, con la premiazione della spia, di chi denuncia l’altro o l’altra, probabilmente più per un senso di invidia, che per vera volontà di proteggersi. “Se a me tocca portare la mascherina lo devi fare anche tu!”. Questa è la sensazione che pervade molti ambiti, questa solidarietà nella sofferenza, nella rinuncia, nella privazione e nell’autoflagellazione.

La riflessione che vorrei però portare non riguarda le conseguenze immediate, ma quello che rimarrà, quell’abitudine che si va creando pian piano, quella tendenza che si insinua nelle nostre vite per cui lentamente ci rinchiudiamo in casa e ci “incontriamo” solo in maniera mediata. Già adesso questo sta accadendo, nonostante non sia proibito tenere riunioni o vedersi con gli amici e le amiche. Qualcuna potrebbe obbiettare che è una modalità che già in molte sceglievano prima della pandemia, i social networks combinati agli smartphones hanno creato un mondo sociale in tasca, ma senza dubbio l’epidemia ha dato una drastica accelerata a tutto il processo. Oltre a un temporaneo, che temporaneo non sarà, ritorno verso una società patriarcale che costringe donne lavoratrici a casa (in smartworking o no) con i propri figli e figlie, per lo più non malate (asintomatiche), ma semplicemente risultate positive a un tampone. Tamponi che si effettuano, a ben vedere, in maniera totalmente casuale, perché è impossibile tracciare tutti i contatti sociali in una società complessa, nonostante tutte le tecnologie che possediamo. Certo, possiamo far fare il tampone a tutti e tutte le compagne di classe di una ragazza risultata positiva al Covid (asintomatica) solo perché il suo insegnante di danza ha sviluppato la malattia e lo ha segnalato, ma qual è la reale maggiore probabilità che loro siano stati contagiati e contagiate a scuola, dove per altro portano la mascherina e stanno a distanza, rispetto a tutti i contatti che ragazzi e ragazze hanno per strada, sui mezzi pubblici, al parco, nei negozi e nei bar? La moda del tampone e la sua accettazione passiva è un altro dei segnali del buon funzionamento di questa assuefazione all’obbedienza, che accetta la censura e la disinformazione, del cittadino automa che segue le regole senza interrogarsi mai sulla loro reale utilità o efficacia.

Alcune domande

Con l’arrivo dell’autunno (dopo lo sfogo estivo) si ricorre alla chiusura (anche se parziale) delle scuole, si limita la vita sociale notturna – danneggiando un’intera categoria (i ristoratori) che a mala pena si stava riprendendo – e si vieta lo sport, lo spettacolo, la creazione di cultura in tutte le sue forme, ma in che modo questo va a tutelare il nostro benessere sociale, fisico e mentale? Il concetto di salute globale è raramente preso in considerazione nell’approccio occidentale alla cura; in questo periodo sembra totalmente svanito, cancellato con un colpo di spugna così veloce da non aver lasciato neanche un segno. Quali saranno i danni nel lungo periodo di questa situazione sulla nostra salute globale, sulla felicità, sul benessere psico-fisico delle generazioni più giovani? Quale cultura ne deriverà: ci trasformeremo tutte in nuclei isolati che chiusi nelle loro case lavorano, studiano e fanno la spesa? Quale rapporto avremo con la natura, con il nostro corpo e con la vita, in senso lato? Le e i giovani si sentiranno fiduciosi nel fare progetti per il loro futuro o dopo avergli consegnato un pianeta malato e delegatogli la responsabilità di risolvere la crisi ecologica e il riscaldamento globale, gli insegniamo ora a vivere giorno per giorno, nell’incertezza e nella paura? Queste sono le domande che si dovrebbero porre coloro i quali, in questa dittatura dell’emergenza, esercitano il potere di decidere sulle nostre vite e sui limiti delle nostre libertà personali.

Senza cadere in facili complottismi, senza negare l’esistenza di una pandemia e di un virus, sicuramente nuovo e diverso da altri che abbiamo conosciuto, con delle peculiarità da tenere in conto, è opportuno chiedersi qual è il reale obiettivo. “La sicurezza prima di tutto!” Ma di che sicurezza parliamo? La conosciamo già quella sicurezza che è stata usata per chiudere i porti e le porte, per costruire muri e riempire le carceri, quella sicurezza che divide in base al colore della pelle, del sesso e delle scelte sessuali, quella sicurezza classista, riservata a chi “responsabilmente” resta a casa, e a chi se lo può permettere. Certo è facile garantire sicurezza a chi non corre alcun rischio, anche la morte è una sicurezza, la morte sociale, emotiva, intellettuale. Basta non pensare, non parlare, non uscire di casa. Questo è ciò che ci vogliono far credere, che dobbiamo stringere i denti, sacrificarci ancora un pochino e poi tutto tornerà come prima, o anzi meglio di prima, perché nel frattempo avremo imparato ad usare Zoom e a fare la Dad e sapremo sopravvivere tra le mura domestiche, ma sapremo ancora uscire per strada, camminare in un bosco, incontrare le persone e guardarle in faccia, parlarci di persona e toccarci?

La cultura che si sta creando con questo approccio alla pandemia favorisce tutt’altro. Si favorisce un irrigidimento di corpi, già da tempo resi meccanici contenitori, oggi questi corpi diventano pericolosi veicoli di contagio. Si rinforza l’abitudine a non toccare sé stessi, stesse e gli, le altre, a stare lontane, a diffidare e ad aver paura. La paura, tra l’altro indebolisce il sistema immunitario. Uno starnuto, un colpo di tosse sono pericolosi, creano uno stigma sociale, e nelle più piccole e piccoli, nelle persone più vulnerabili e suscettibili ai messaggi socio-culturali, creano terrore nei confronti del proprio stesso essere. Il rischio di essere prese, presi, portate in una stanza, allontanati da tutti e tutte e colpevolizzati per una semplice manifestazione spontanea del corpo che reagisce alla malattia, o a chissà cos’altro! Nella cultura che si va generando la malattia diventa sempre più un avvenimento da temere, anziché da affrontare, in prima istanza a casa, con riposo, cura, affetto. Come sarà possibile coccolare un figlio o una figlia malata se le indicazioni governative sono di isolarlo anche nel seno della famiglia? Come si può pensare di guarire in queste condizioni? Come faranno bambini e bambine a costruirsi anticorpi se continuiamo ad igienizzare ogni cosa che toccano, a sanificare ogni spazio in cui entrano? È noto che ambienti eccessivamente sterili danneggiano lo sviluppo del sistema immunitario, mentre il contatto con batteri e virus promuove la sua efficacia.

Le risposte dal basso

Nelle scuole, quelle ancora aperte, si è perso quasi completamente l’aspetto della socializzazione, sono sempre di più ragazzi e ragazze a pensare che a questo punto è meglio rimanere a casa e sono varie le famiglie che hanno già fatto questa scelta, forse a ragione… D’altra parte quante di noi adulte, liberamente sceglieremmo di stare sedute in una classe con una mascherina sul volto, per una mattinata intera? Senza potersi avvicinare ai propri compagni e compagne, senza potersi toccare, senza poter uscire dalle aule, niente intervallo, niente ora di educazione fisica. Fortunatamente molti ragazzi e ragazze si ribellano ancora, appena fuori dalle scuole riprendono quella naturale socialità, comprensiva di contatto fisico, così importante alla loro età, terrorizzando molti e creando sempre più distanza e incomprensione tra le generazioni. D’altro canto bambine e bambini più piccoli non hanno ancora sviluppato certe modalità, a loro viene insegnato a stare lontane, a giocare evitando il contatto fisico, ad aver paura della vicinanza… Che mentalità può creare questa attitudine? La paura dell’altro e dell’altra è la prima cosa che viene alla mente, come se già nelle nostre società non ci fosse una sufficiente spinta in quella direzione, rafforzando diffidenza e individualismo.

Il linguaggio usato dalle istituzioni e ripetuto dai media ci entra nelle orecchie e non sappiamo più ragionare autonomamente, scompare ogni logica. D’altra parte il tutto si regge in piedi con la stessa non-logica con cui si è dato dell’untore a chi ha scelto di non adempiere totalmente all’obbligo vaccinale pediatrico. Assumersi il rischio personale di una malattia non vuol dire voler contagiare chi sceglie di difendersi da essa, che sia con un vaccino o con una mascherina, distanziamento sociale o isolamento personale. Significa invece avere la consapevolezza che la malattia fa parte della vita, che il nostro sistema immunitario esiste proprio per questo ed anche il sistema sanitario nazionale dovrebbe esistere per curarci… forse! Invece di criticare il malfunzionamento di un sistema, anziché rinforzarlo e aprirlo ad altre possibilità, si crea un’idea di una scienza-religione unica e indiscutibile. È davvero difficile non sentirsi in un regime assoluto quando ci viene chiesto di affidarci ciecamente a un sistema sanitario unico, basato su una scienza che è diventate sacra e palesemente diretto da interessi economici e politici. Una scienza che ci chiede di avere pazienza e vivere nel terrore fino all’arrivo del miracoloso vaccino che ci salverà, oltre a fare diventare miliardario qualcuno.

Una possibile risposta dal basso passa, invece, dalla ricostruzione di comunità che si autogestiscono la salute primaria e da una riappropriazione delle scelte che la riguardano. Riappropriazione del rapporto intimo col proprio corpo e fiducia in sé e nell’altro, altra, nelle proprie armi di difesa, e nei naturali meccanismi di risposta dell’organismo. Un atteggiamento attivo, anziché l’attesa passiva del vaccino e delle ordinanze della tirannia sanitaria. È necessario in questo momento più che mai combattere la disgregazione sociale e l’alienazione dal proprio corpo. Nelle scuole e nelle case dovremmo educare bambine e bambini a conoscere il proprio corpo, ad ascoltarsi, a percepire i segnali che ci dà e questo può avvenire solo tramite il contatto fisico. Dobbiamo rifiutare la specializzazione e l’ignoranza, l’assopimento dei sensi e l’intellettualizzazione del sapere, quel rapporto meccanicistico col corpo, che lo vede separato da noi, dalla mente, dell’individuo iper-razionale che possiede un corpo, o meglio un ingombro, un qualcosa di cui non può fare a meno e con cui deve convivere. C’è un ritorno a un pudore che pensavamo dimenticato, le e i giovani sessantottini rimarrebbero basiti dall’asservimento dei corpi che vige oggi, quasi ovunque, tranne qualche scintilla di ribellione nell’abbigliamento delle e degli adolescenti, che sopravvive alla censura, all’imperativo della “civiltà” occidentale di nascondere il corpo e vergognarsi di esso.

Cosa sopravviverà a questa pandemia?

da qui

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