Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, la salute è uno stato di
completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello
stato di malattia o di infermità, come si può dunque pensare che le misure che
sono state adottate dall’arrivo dell’epidemia di Coronavirus in Italia tendano
a tutelare la nostra salute? Sono poche le voci dissenzienti in questo
momento, sicuramente anche grazie alla sottile tattica con cui chiusure e
restrizioni sono state messe in atto in maniera sempre graduale, sostenute da
una forte campagna mediatica di terrore e insicurezza. Per questo fino ad oggi
sono state poco evidenti le conseguenze sulla situazione sociale e poche le
proteste. Proteste per altro sempre collegate a fattori economici, certamente
non da sottovalutare. C’è stato chi ha messo in evidenza come queste manovre
hanno creato una “guerra tra poveri”, spaccature del tessuto sociale e
l’emergere di disagi psicologici, violenza domestica e un aumento del tasso dei
suicidi. Per farvi fronte sono stati messi a disposizione servizi di consulenza
psicologica telefonica, è stata incentivata la fruizione di cultura per via
mediatica, è stato promosso lo “smart” working e non
solo working, anche socialità smart: facebook ha creato
“l’evento online” e tinder ha dato la possibilità gratuita di visualizzare
persone fuori dalla propria area geografica…
Allo stesso tempo è stata impiegato un discorso mediatico
patriottico, che ha creato eroi e puntato il dito sugli irresponsabili. Ma
non si tratta di responsabilità: la responsabilità deriva necessariamente da
informazione, consapevolezza e libertà di scelta, non da un’imposizione. Si è trattato,
invece, di un ricorso alla colpevolizzazione del cittadino, al suo senso di
dovere civico, alla paura e alla creazione di untori – i bambini e le bambine,
adolescenti e giovani che sfuggono alla repressione, rivendicando un sano
bisogno di socialità. Non va confusa la colpa con la responsabilità – la prima
ci viene attribuita o ce la sentiamo addosso in base a norme giuridiche,
religiose o morali, che comunque non abbiamo scelto, mentre la responsabilità
nasce come conseguenza di una libera decisione. Non è mai stata presa in
considerazione una vera responsabilità, quella che prevede consapevolezza e
assunzione di rischi, scelte soggettive, individuali e non individualistiche, e
questo è avvenuto spesso ricorrendo al mito, allo stereotipo, dell’inevitabile
incapacità del cittadino e della cittadina italiana di essere responsabili. A
smentirlo ci sarebbe la voce di chi ha scelto anche durante la quarantena di
uscire di casa, di fare una passeggiata in campagna ed eventualmente di andarsi
a prendere un caffè a casa di un amico o amica, consenziente e volenterosa di
affrontare il rischio di un contagio, pur di vivere serenamente, e che in
nessun modo mette in pericolo chi desidera a tutti i costi evitare il contagio.
Il rischio vero che hanno corso queste persone è quello di multe salate. Chi ha
fatto queste scelte e continuerà a farle non è un irresponsabile, non è un
untore, è semplicemente una persona che si prende cura della propria salute
fisica, mentale e sociale. Ovviamente è difficile scegliere queste forme di
disobbedienza civile nel momento in cui si è creato un regime da Grande
Fratello, con la premiazione della spia, di chi denuncia l’altro o l’altra,
probabilmente più per un senso di invidia, che per vera volontà di proteggersi.
“Se a me tocca portare la mascherina lo devi fare anche tu!”. Questa è la
sensazione che pervade molti ambiti, questa solidarietà nella sofferenza, nella
rinuncia, nella privazione e nell’autoflagellazione.
La riflessione che vorrei però portare non riguarda le conseguenze
immediate, ma quello che rimarrà, quell’abitudine che si va creando
pian piano, quella tendenza che si insinua nelle nostre vite per cui lentamente
ci rinchiudiamo in casa e ci “incontriamo” solo in maniera mediata. Già adesso
questo sta accadendo, nonostante non sia proibito tenere riunioni o vedersi con
gli amici e le amiche. Qualcuna potrebbe obbiettare che è una modalità che già
in molte sceglievano prima della pandemia, i social networks combinati
agli smartphones hanno creato un mondo sociale in tasca, ma senza dubbio
l’epidemia ha dato una drastica accelerata a tutto il processo. Oltre a un
temporaneo, che temporaneo non sarà, ritorno verso una società
patriarcale che costringe donne lavoratrici a casa (in smartworking o
no) con i propri figli e figlie, per lo più non malate (asintomatiche), ma
semplicemente risultate positive a un tampone. Tamponi che si effettuano, a ben
vedere, in maniera totalmente casuale, perché è impossibile tracciare tutti i
contatti sociali in una società complessa, nonostante tutte le tecnologie che
possediamo. Certo, possiamo far fare il tampone a tutti e tutte le compagne di
classe di una ragazza risultata positiva al Covid (asintomatica) solo perché il
suo insegnante di danza ha sviluppato la malattia e lo ha segnalato, ma qual è
la reale maggiore probabilità che loro siano stati contagiati e contagiate a
scuola, dove per altro portano la mascherina e stanno a distanza, rispetto a
tutti i contatti che ragazzi e ragazze hanno per strada, sui mezzi pubblici, al
parco, nei negozi e nei bar? La moda del tampone e la sua accettazione passiva
è un altro dei segnali del buon funzionamento di questa assuefazione
all’obbedienza, che accetta la censura e la disinformazione, del cittadino
automa che segue le regole senza interrogarsi mai sulla loro reale utilità o
efficacia.
Alcune domande
Con l’arrivo dell’autunno (dopo lo sfogo estivo) si ricorre alla chiusura
(anche se parziale) delle scuole, si limita la vita sociale notturna –
danneggiando un’intera categoria (i ristoratori) che a mala pena si stava
riprendendo – e si vieta lo sport, lo spettacolo, la creazione di cultura in
tutte le sue forme, ma in che modo questo va a tutelare il nostro benessere
sociale, fisico e mentale? Il concetto di salute globale è raramente
preso in considerazione nell’approccio occidentale alla cura; in questo
periodo sembra totalmente svanito, cancellato con un colpo di spugna così
veloce da non aver lasciato neanche un segno. Quali saranno i danni nel
lungo periodo di questa situazione sulla nostra salute globale, sulla felicità,
sul benessere psico-fisico delle generazioni più giovani? Quale
cultura ne deriverà: ci trasformeremo tutte in nuclei isolati che chiusi nelle
loro case lavorano, studiano e fanno la spesa? Quale rapporto avremo con la
natura, con il nostro corpo e con la vita, in senso lato? Le e i
giovani si sentiranno fiduciosi nel fare progetti per il loro futuro o dopo
avergli consegnato un pianeta malato e delegatogli la responsabilità di
risolvere la crisi ecologica e il riscaldamento globale, gli insegniamo ora a
vivere giorno per giorno, nell’incertezza e nella paura? Queste sono
le domande che si dovrebbero porre coloro i quali, in questa dittatura
dell’emergenza, esercitano il potere di decidere sulle nostre vite e sui limiti
delle nostre libertà personali.
Senza cadere in facili complottismi, senza negare l’esistenza di una
pandemia e di un virus, sicuramente nuovo e diverso da altri che abbiamo
conosciuto, con delle peculiarità da tenere in conto, è opportuno chiedersi
qual è il reale obiettivo. “La sicurezza prima di tutto!” Ma di che sicurezza
parliamo? La conosciamo già quella sicurezza che è stata usata per chiudere i
porti e le porte, per costruire muri e riempire le carceri, quella sicurezza
che divide in base al colore della pelle, del sesso e delle scelte sessuali,
quella sicurezza classista, riservata a chi “responsabilmente” resta a casa, e
a chi se lo può permettere. Certo è facile garantire sicurezza a chi non corre
alcun rischio, anche la morte è una sicurezza, la morte sociale, emotiva,
intellettuale. Basta non pensare, non parlare, non uscire di casa. Questo è ciò
che ci vogliono far credere, che dobbiamo stringere i denti, sacrificarci
ancora un pochino e poi tutto tornerà come prima, o anzi meglio di prima,
perché nel frattempo avremo imparato ad usare Zoom e a fare la Dad e sapremo
sopravvivere tra le mura domestiche, ma sapremo ancora uscire per strada,
camminare in un bosco, incontrare le persone e guardarle in faccia, parlarci di
persona e toccarci?
La cultura che si sta creando con questo approccio alla pandemia favorisce
tutt’altro. Si favorisce un irrigidimento di corpi, già da tempo
resi meccanici contenitori, oggi questi corpi diventano pericolosi veicoli di
contagio. Si rinforza l’abitudine a non toccare sé stessi, stesse e gli, le
altre, a stare lontane, a diffidare e ad aver paura. La paura, tra
l’altro indebolisce il sistema immunitario. Uno starnuto, un colpo di tosse
sono pericolosi, creano uno stigma sociale, e nelle più piccole e piccoli,
nelle persone più vulnerabili e suscettibili ai messaggi socio-culturali,
creano terrore nei confronti del proprio stesso essere. Il rischio di essere
prese, presi, portate in una stanza, allontanati da tutti e tutte e
colpevolizzati per una semplice manifestazione spontanea del corpo che reagisce
alla malattia, o a chissà cos’altro! Nella cultura che si va generando
la malattia diventa sempre più un avvenimento da temere, anziché da affrontare,
in prima istanza a casa, con riposo, cura, affetto. Come sarà possibile
coccolare un figlio o una figlia malata se le indicazioni governative sono di
isolarlo anche nel seno della famiglia? Come si può pensare di guarire in
queste condizioni? Come faranno bambini e bambine a costruirsi anticorpi se
continuiamo ad igienizzare ogni cosa che toccano, a sanificare ogni spazio in
cui entrano? È noto che ambienti eccessivamente sterili danneggiano lo sviluppo
del sistema immunitario, mentre il contatto con batteri e virus promuove la sua
efficacia.
Le risposte dal basso
Nelle scuole, quelle ancora aperte, si è perso quasi completamente
l’aspetto della socializzazione, sono sempre di più ragazzi e ragazze a
pensare che a questo punto è meglio rimanere a casa e sono varie le famiglie
che hanno già fatto questa scelta, forse a ragione… D’altra parte quante di noi
adulte, liberamente sceglieremmo di stare sedute in una classe con una
mascherina sul volto, per una mattinata intera? Senza potersi
avvicinare ai propri compagni e compagne, senza potersi toccare, senza poter
uscire dalle aule, niente intervallo, niente ora di educazione fisica.
Fortunatamente molti ragazzi e ragazze si ribellano ancora, appena fuori dalle
scuole riprendono quella naturale socialità, comprensiva di contatto fisico,
così importante alla loro età, terrorizzando molti e creando sempre più
distanza e incomprensione tra le generazioni. D’altro canto bambine e bambini
più piccoli non hanno ancora sviluppato certe modalità, a loro viene insegnato
a stare lontane, a giocare evitando il contatto fisico, ad aver paura della
vicinanza… Che mentalità può creare questa attitudine? La paura dell’altro e
dell’altra è la prima cosa che viene alla mente, come se già nelle nostre
società non ci fosse una sufficiente spinta in quella direzione, rafforzando
diffidenza e individualismo.
Il linguaggio usato dalle istituzioni e ripetuto dai media ci entra nelle
orecchie e non sappiamo più ragionare autonomamente, scompare ogni logica. D’altra parte il
tutto si regge in piedi con la stessa non-logica con cui si è dato dell’untore
a chi ha scelto di non adempiere totalmente all’obbligo vaccinale pediatrico.
Assumersi il rischio personale di una malattia non vuol dire voler contagiare
chi sceglie di difendersi da essa, che sia con un vaccino o con una mascherina,
distanziamento sociale o isolamento personale. Significa invece avere la
consapevolezza che la malattia fa parte della vita, che il nostro sistema
immunitario esiste proprio per questo ed anche il sistema sanitario nazionale
dovrebbe esistere per curarci… forse! Invece di criticare il malfunzionamento
di un sistema, anziché rinforzarlo e aprirlo ad altre possibilità, si
crea un’idea di una scienza-religione unica e indiscutibile. È davvero
difficile non sentirsi in un regime assoluto quando ci viene chiesto di
affidarci ciecamente a un sistema sanitario unico, basato su una scienza che è
diventate sacra e palesemente diretto da interessi economici e politici. Una
scienza che ci chiede di avere pazienza e vivere nel terrore fino all’arrivo
del miracoloso vaccino che ci salverà, oltre a fare diventare miliardario
qualcuno.
Una possibile risposta dal basso passa, invece, dalla ricostruzione di
comunità che si autogestiscono la salute primaria e da una
riappropriazione delle scelte che la riguardano. Riappropriazione del
rapporto intimo col proprio corpo e fiducia in sé e nell’altro, altra, nelle
proprie armi di difesa, e nei naturali meccanismi di risposta
dell’organismo. Un atteggiamento attivo, anziché l’attesa passiva del
vaccino e delle ordinanze della tirannia sanitaria. È necessario in
questo momento più che mai combattere la disgregazione sociale e l’alienazione
dal proprio corpo. Nelle scuole e nelle case dovremmo educare bambine e
bambini a conoscere il proprio corpo, ad ascoltarsi, a percepire i segnali che
ci dà e questo può avvenire solo tramite il contatto fisico. Dobbiamo rifiutare
la specializzazione e l’ignoranza, l’assopimento dei sensi e
l’intellettualizzazione del sapere, quel rapporto meccanicistico col corpo, che
lo vede separato da noi, dalla mente, dell’individuo iper-razionale che
possiede un corpo, o meglio un ingombro, un qualcosa di cui non può fare a meno
e con cui deve convivere. C’è un ritorno a un pudore che pensavamo dimenticato,
le e i giovani sessantottini rimarrebbero basiti dall’asservimento dei corpi
che vige oggi, quasi ovunque, tranne qualche scintilla di ribellione
nell’abbigliamento delle e degli adolescenti, che sopravvive alla censura,
all’imperativo della “civiltà” occidentale di nascondere il corpo e vergognarsi
di esso.
Cosa sopravviverà a questa pandemia?
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