In Inghilterra e negli Stati Uniti si parla continuamente, tra le altre espressioni dello stesso tipo, della necessità di “rilanciare l’economia”, di “far ripartire la nostra economia in modo che possa funzionare a pieno regime”. Queste frasi danno l’impressione che l’economia sia una sorta di enorme turbina che è stata temporaneamente spenta e che ha bisogno di essere rimessa in funzione il più presto possibile. Spesso siamo incoraggiati a pensare all’economia in questi termini, anche se non molto tempo fa ci è stato detto che la macchina funzionava da sola. Purtroppo non aveva un pulsante di pausa o di accensione/spegnimento, e se ne avesse avuto uno, sarebbe stato meglio non premere il pulsante di spegnimento, perché le conseguenze sarebbero state immediate e disastrose. Ma qui scopriamo, stupiti, che questo pulsante esiste. Tuttavia, potremmo essere tentati di pensare un po’ più oltre: cosa intendiamo esattamente quando parliamo di “economia”? In sostanza, se l’economia è il sistema con cui le persone vengono sostenute, nutrite e vestite, ospitate e persino intrattenute, allora, per la maggior parte di noi, l’economia ha fatto miracoli durante il confinamento. Ma se l’economia non è proprio l’offerta di beni di prima necessità, allora cos’è?
Qualsiasi persona sensata non sarebbe dispiaciuta se le tante attività che
costituivano la nostra vita sociale riprendessero da dove si erano interrotte:
dai pub alle piste da bowling, alle università. Ma il punto è questo: queste
sono attività che, per la maggior parte di noi, appartengono alla “vita”, non
all'”economia”. E va detto che le nostre politiche non hanno messo la vita
all’ordine del giorno. Ma poiché dicono alle persone di rischiare la vita, la
loro vita, per il bene dell’economia, è fondamentale capire cosa intendono con
questa parola.
Sebbene sia ormai considerato un fatto naturale, l’idea stessa di un
sistema chiamato “economia” è un concetto relativamente recente. Sarebbe stato
incomprensibile per Lutero, Shakespeare o Voltaire. Gradualmente, la società ha
accettato la sua esistenza, ma la realtà che copre è rimasta mutevole. Così,
quando il termine “economia politica” entrò nell’uso comune all’inizio del XIX
secolo, l’idea a cui si riferiva era molto vicina all'”ecologia” (suo cugino
etimologico): entrambi i termini si applicavano a sistemi che erano considerati
autoregolatori e che, fintantoché mantenevano il loro equilibrio naturale,
producevano una ricchezza aggiuntiva – profitti, crescita, natura abbondante –
di cui l’uomo poteva godere senza limiti.
Un eccesso di gloria
Ma sembra che siamo arrivati a una fase in cui l’economia non è un
meccanismo per provvedere ai bisogni umani o addirittura ai desideri, ma
soprattutto a quel piccolo surplus, la ciliegina sulla torta: quello che viene
dall’aumento del PIL. Tuttavia, il contenimento ci ha mostrato abbastanza: non
è altro che fumo ingannatore. In altre parole, siamo arrivati al punto in cui
l’economia è solo un vasto nome in codice per un’economia di merda:
produce eccesso, ma non un eccesso glorificato per il proprio superfluo, come
avrebbe potuto fare l’aristocrazia in passato – un eccesso coltivato con
violenza e presentato come il regno della necessità, dell'”utilità”, della
“produttività”, insomma, di un freddo e frenetico realismo.
Quando ci viene chiesto di “far ripartire l’economia”, si fa riferimento
proprio a questa stupida economia, dove i manager supervisionano altri manager:
il mondo dei consulenti HR e del telemarketing, i brand manager, i senior dean
e altri VP di sviluppo creativo (supportati dalla loro coorte di assistenti),
il mondo degli amministratori scolastici e ospedalieri, coloro che sono pagati
profumatamente per “disegnare” le immagini per le riviste dedicate alla
“cultura” patinata di queste aziende, i cui operai, a corto di personale e
surriscaldati, sono costretti ad occuparsi di pile di scartoffie superflue.
Tutte queste persone il cui compito, insomma, è quello di convincervi che il
loro lavoro non è una pura e semplice aberrazione. Nel mondo aziendale, molti
dipendenti non hanno aspettato l’inizio del contenimento per convincersi di non
contribuire alla società. Oggi, lavorando quasi tutti a casa, sono costretti ad
affrontare la realtà: la parte necessaria del loro lavoro quotidiano viene
fatta in un quarto d’ora; meglio ancora, i compiti che devono essere svolti sul
posto – visto che esistono – vengono svolti in modo molto più efficiente in
loro assenza. Un angolo del velo è stato strappato, e gli appelli a “rimettere
in moto l’economia” dominano il coro dei nostri politici, terrorizzati dal
fatto che il velo possa essere strappato per sempre se ci vuole troppo tempo
per ripendere.
Questo tema è di importanza cruciale per la classe politica in particolare,
perché è fondamentalmente una questione di potere. Tutti questi battaglioni di
lacchè, spacciatori di carta e pistoleri professionisti, penso che dovrebbero
essere visti come la versione contemporanea del servo feudale. La loro
esistenza è la logica conseguenza della finanziarizzazione, quel sistema in cui
i profitti aziendali non derivano dalla produzione o addirittura dalla
commercializzazione di qualsiasi bene, ma da un’alleanza sempre più stretta tra
burocrazie imprenditoriali e governative, creata per produrre debito privato
(…). Ecco un esempio concreto di questo sistema: recentemente un mio amico
artista ha iniziato a realizzare mascherine protettive in quantità industriali
da offrire a chi lavora in prima linea. Ora riceve un comunicato stampa in cui
si afferma che non le è permesso distribuire mascherine, anche gratuitamente,
senza aver prima ottenuto una licenza molto costosa. Si tratta di una richiesta
che nessuno potrebbe soddisfare senza un prestito; pertanto, all’individuo non
viene solo chiesto di commercializzare la sua attività, ma anche di fornire
all’apparato finanziario la sua quota di tutti i ricavi futuri. Qualsiasi
sistema che operi secondo il principio della semplice estrazione di fondi
dovrebbe quindi ridistribuire almeno una parte della torta per conquistare la
fedeltà di una certa quota della popolazione – in questo caso, le classi
dirigenti. Da qui le stronzate del lavoro.
Come ha rivelato la crisi del 2008, i mercati finanziari globali sono solo
strumenti per speculare sulle prossime strategie per ottenere una rendita – un
sistema basato sulla potenza militare statunitense. Nel 2003, Immanuel
Wallerstein ha persino suggerito che l’intero consenso di Washington degli anni
Novanta si basava su questa realtà: in preda al panico per il declino del
dominio industriale statunitense e gli inesorabili progressi dell’Europa,
dell’Asia orientale e dei Brics [paesi emergenti]: Brasile, Russia, India,
India, Cina, Sudafrica, ndr], l’impero americano cercava disperatamente di
ostacolare il progresso dei suoi concorrenti insistendo sulla “riforma del
mercato”, una riforma il cui principale effetto sarebbe stato quello di
costringerli ad adottare lo stesso modello di business, questa burocrazia
inetta e dispendiosa che era prevalente negli Stati Uniti. Sono le persone che
un Donald Trump o un Boris Johnson vuole rimettere al lavoro a tutti i costi:
quelli che fanno non le mascherine, ma le licenze per operare.
La “famosa” produttività
È ovvio che staremmo meglio se molti dei posti di lavoro messi in attesa
venissero presto ripristinati; ma ci sono forse ancora più posti di lavoro che
sarebbe nel nostro interesse non vederne il ritorno – soprattutto se vogliamo
evitare una catastrofe climatica assoluta. (Basti pensare alla massa di CO2
vomitata nell’atmosfera e al numero di specie animali sradicate per sempre, al
solo scopo di alimentare la vanità di quei burocrati che, piuttosto che
lasciare che i loro lacche’ lavorino da casa, preferiscono tenerli a portata di
mano in cima alle loro scintillanti torri).
Se tutto questo non ci sembra un grido di verità, se non ci interroghiamo
più di tanto sui meriti del rilancio dell’economia, è perché siamo abituati a
pensare all’economia secondo il metro di quella vecchia categoria novecentesca,
la famosa “produttività”. Sappiamo che molte fabbriche hanno chiuso, forse
tutte. Sappiamo anche che le scorte di frigoriferi, giacche di pelle, cartucce
per stampanti e altri prodotti per la pulizia non si ricaricano da soli. Ma se
la crisi attuale ci ha permesso di trarre una conclusione, è che solo una
piccolissima parte dell’occupazione, anche la più indispensabile, è veramente
“produttiva” in senso classico, cioè produce un oggetto fisico che prima non
esisteva. E la maggior parte dei lavori “essenziali” sono infatti un’estensione
della catena di cura: occuparsi di qualcuno, curare un malato, insegnare agli
studenti, spostare, riparare, pulire e proteggere gli oggetti, provvedere ai
bisogni di altri esseri o assicurare le condizioni in cui possono prosperare.
Di conseguenza, la gente comincia a capire che il nostro sistema di
compensazione è altamente perverso, perché più si lavora per prendersi cura
degli altri o per arricchirli in qualche modo, meno probabilità ci sono di
essere pagati.
Ciò che è meno percepito è la misura in cui il culto della produttività, la
cui principale ragion d’essere è quella di giustificare questo sistema, ha
raggiunto un punto in cui si sta ingolfando. Tutto deve essere produttivo: negli
Stati Uniti, il Federal Reserve Bureau of Statistics arriva a misurare la
“produttività” del settore immobiliare! Dove è chiaro che il termine è un
eufemismo per “profitti”. Ma i dati della Fed mostrano anche che la
produttività nei settori dell’istruzione e della sanità è a mezz’asta. Basta
una piccola ricerca per capire che i settori della sanità sono proprio quelli
più travolti dai quantità oceaniche di scartoffie con l’obiettivo finale di
tradurre i risultati qualitativi in dati quantitativi, che possono poi essere
integrati in fogli di calcolo Excel per dimostrare che questo lavoro ha un
qualche valore produttivo – ovviamente ostacolando l’insegnamento, il coaching o
la cura reali. Poiché i “contatori” e gli esperti di efficienza sono stati i
primi a lasciare gli ospedali e le cliniche all’inizio della pandemia, molti
lavoratori in prima linea e altrettanti pazienti hanno potuto constatare di
persona che la macchina funziona molto meglio senza questi dirigenti.
È quindi comprensibile che gli appelli a stimolare l’economia siano solo
incentivi a rischiare la vita per riportare i contabili nei loro cubicoli.
Questa è pura follia. Se l’economia può avere un significato reale e tangibile,
deve essere questo: il mezzo con cui gli esseri umani possono prendersi cura
l’uno dell’altro, e rimanere in vita, in ogni senso della parola. Cosa
richiederebbe questa nuova definizione di economia? Di quali indicatori avrebbe
bisogno? O tutti gli indicatori dovrebbero essere abbandonati per sempre? Se
ciò risultasse impossibile, se il concetto è già troppo saturo di false
supposizioni, faremmo bene a ricordare che fino all’altro ieri l’economia non
esisteva. Forse quest’idea ha fatto il suo tempo.
Articolo pubblicato su Libération,
il 27 maggio 2020
(trad. dal francese di A. Fumagalli)
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