“Un’altra
strage di rifugiati. Due naufragi davanti alla Libia”: questo titolo del
quotidiano Avvenire è un’eccezione. Non si è (quasi) mai visto nel giornalismo
italiano un linguaggio del genere: così vicino alla realtà, così utile alla
comprensione di fatti drammatici.
Per anni tutti i giornali hanno scritto – e molti continuano a
scrivere: clandestini. Clandestini per dire: gente che si nasconde,
che ha qualcosa da nascondere, gente che non rispetta la legge, da
cui prendere le distanze e trattare di conseguenza. Alcuni, da quale tempo e
dopo avere opposto una lunga resistenza al cambiamento, hanno abbandonato
questo epiteto (almeno nei titoli), ma raramente nelle redazioni dei quotidiani
– lo stesso vale per i tele e radiogiornali – si trova il coraggio (in realtà è
solo onestà intellettuale e professionale) di definire le persone in viaggio a
rischio della vita nel Mediterraneo per quello che sono: rifugiati, appunto.
Qualcuno eccepirà, in punta di diritto, che il termine è impreciso, perché
nessuno dei passeggeri dei barconi – tanto meno gli affogati – ha in realtà
ricevuto, per ovvie ragioni, risposta positiva alla propria domanda di
asilo; giusto, la definizione precisa sarebbe richiedenti asilo
politico o protezione umanitaria; anzi, ancora più precisamente, potenziali
richiedenti asilo o protezione: e tuttavia, poiché i titoli impongono una
sintesi, rifugiati è il termine giusto. Quello che fa capire la realtà delle
cose, la vera condizione delle persone.
Si fugge dalla Libia e dai suoi campi di prigionia e tortura – tappa
intermedia di viaggi più lunghi – per rifugiarsi in Europa e lì trovare riparo
e un’occasione di vita. Né più né meno. Tecnicamente, una volta sbarcati, i
fuggiaschi (spesso naufraghi) presentano domanda d’asilo e diventano, appunto,
richiedenti asilo. Molti vedranno respinta la loro domanda ed entreranno in un
tragico limbo – né rifugiati, né altro, magari formalmente espulsi, in qualche
caso materialmente rimpatriati a forza – e solo alcuni otterranno l’ambita
qualifica di rifugiato.
Quindi, sì, le persone che affrontano i viaggi della morte nel Mediterraneo
sono, dal nostro punto di vista, dei rifugiati: tutti o quasi tutti, per quanto
ne sappiamo, chiederanno asilo e una parte di loro lo otterrà. Sono tutti
potenzialmente dei rifugiati ed è bene definirli così, in modo che sia ben
chiaro quanto è ingiusta la sorte che viene loro inflitta – la morte invece
dell’asilo – e quanta ipocrisia c’è nelle nostre parole.
A chiamarli rifugiati – figura nobile, alla quale sono appartenuti molti
grandi della storia, presente nella nostra Costituzione all’articolo 12 – ci si
capisce meglio. Si capisce che la nostra indifferenza è una forma di collaborazione
al genocidio in corso nel Mediterraneo. Stanno affogando persone umiliate e
violate nel corpo e nello spirito, persone che cercano da noi l’aria per
respirare. Noi li ignoriamo, li respingiamo, fingiamo di non vederli e
da anni li chiamiamo clandestini – o migranti, termine che ormai ha il crisma
dell’eufemismo e non aiuta alla comprensione di quel che avviene – in modo da
lenire il senso di colpa. Il lessico del cattivismo è la cifra dell’ipocrisia,
il lubrificante dell’indifferenza. È il linguaggio della colpa.
C’è un vocabolario della politica e del giornalismo che nasconde la
realtà e ne manipola la comprensione. Le cronache dal Mediterraneo, quasi
immancabilmente (non succede però nell’articolo citato, a firma Nello Scavo),
parlano con tranquillità di “guardia costiera libica”, in realtà
varie polizie armate (da noi) e l’una contro l’altra, con un ruolo più che
ambiguo nel traffico di esseri umani; di “sindaci libici”, ossia
capiclan e signori della guerra coi quali si scende a patti per fermare i
rifugiati; di “campi libici”, espressione che pudicamente dissimula
l’esistenza di campi di detenzione arbitraria e tortura ampiamente descritti da
reportage giornalistici e rapporti ufficiali; di “governo libico”,
un modo per giocare a nascondino e lasciar intendere ciò che non è: la Libia è
uno stato fallito e non ha un vero governo.
Fu il ministro dell’interno Marco Minniti, al tempo dei primi accordi con i
potentati libici e della prima guerra aperta alle navi delle Ong, a fare
proprio questo lessico falso e fazioso: l’accordo era con il “governo libico”
per rafforzare la “guardia costiera” e riportare nei “campi” i “migranti”,
persone che non avevano il “diritto” di entrare in Italia. Tutto pulito, tutto legale: un lindore
linguistico che celava e cela l’orrore e precise responsabilità
politiche, che la storia sta già giudicando e ancor meglio giudicherà in
futuro.
La linea Minniti-Gentiloni è stata prima rafforzata dal duo Salvini-Conte e
poi confermata dall’attuale gestione Lamorgese-Conte; il
lessico, sui media, è rimasto nel frattempo più o meno lo stesso e questo la
dice lunga sulla natura e l’indipendenza del giornalismo italiano.
Con le dovute eccezioni, naturalmente: da una di queste siamo partiti, ma
difficilmente farà scuola.
Aspettiamo con ansia di essere smentiti.
Manifesto del Comitato per il diritto al
soccorso.
Uomo in mare. Quel grido ha attraversato
gli oceani e i secoli e ha sempre trovato qualcuno pronto ad ascoltarlo. E a
soccorrere chi fosse in stato di pericolo. Oggi quello stesso grido di aiuto
rischia di non essere raccolto: e restano senza risposta le voci di tanti che,
ogni giorno che passa, sono lasciati morire nelle acque del mare Mediterraneo.
Migranti e profughi che fuggono dalle coste settentrionali dell’Africa per
cercare in Europa un’opportunità di vita e una speranza di futuro. Il mare
Mediterraneo è stato in questi anni una delle principali vie di fuga dagli
orrori delle guerre e delle catastrofi naturali, dei conflitti tribali e delle
persecuzioni religiose, etniche e politiche, delle carestie e delle pandemie.
Una via di fuga dove trafficanti di esseri umani, mercanti di schiavi e truppe
mercenarie, hanno imperversato vendendo e comprando uomini, donne e bambini,
sequestrando ed estorcendo, seviziando e torturando, dal deserto del Sahel ai
campi di detenzione in Libia fino alle acque, dove le milizie affondano le
barche dei profughi e sparano sui naufraghi. È uno scenario quotidiano che si
rinnova da decenni, conseguenza perversa della globalizzazione e dello scambio
ineguale, della nuova divisione internazionale del lavoro e della subordinazione
economica e commerciale dei paesi poveri alle grandi potenze. L’esito ultimo di
questi processi sono i flussi migratori che percorrono tutte le rotte dal sud
verso nord e che interessano l’Africa, il Medio Oriente e i Balcani. Qui, nel
Mare Nostrum, quei flussi si addensano, precipitano, si inabissano, in una
strage continua di cui ignoriamo i numeri reali. E sempre qui si gioca una
partita capitale intorno alla tutela della vita umana. Da sempre, da quando
quel grido “uomo in mare” echeggiò la prima volta, l’accorrere in aiuto, il
prestare soccorso, l’offrire salvezza, è stato considerato sentimento naturale
e legge universale, principio assoluto e diritto-dovere fondamentale. Il mutuo
soccorso è stato il primo legame sociale e la base della reciprocità nelle
relazioni tra gli esseri umani. Il mutuo soccorso costituisce il passaggio da
individuo a soggetto sociale, a membro di una comunità. Da qui nasce il diritto
al soccorso come istanza primaria di tutela della vita nelle costituzioni e
nelle convenzioni internazionali e quale fondamento di tutti gli altri diritti.
Oggi, tutto ciò
rischia di essere mortificato e compresso, se non direttamente negato, in nome
della sicurezza dei confini esterni e della difesa “dall’invasione” delle
moltitudini povere. La protezione delle frontiere meridionali dell’Europa
diventa il valore supremo, in nome del quale si arriva a sospendere quello che
si pensava fosse un diritto irrinunciabile. Il soccorso in mare viene
assimilato a un’attività criminale da interdire, contrastare, penalizzare. E
così quelle stesse istituzioni italiane – che avevano svolto un ruolo
significativo nel promuovere l’operazione detta Mare Nostrum – hanno adottato
una politica decisamente opposta. Con ciò hanno contraddetto consolidate norme
internazionali che affidano proprio agli Stati costieri il compito di
assicurare un efficace coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio.
È questo vuoto di iniziativa da parte degli Stati e delle loro strutture che ha
reso indispensabile l’intervento delle Ong del soccorso in mare. Oggi esse sono
il bersaglio di questa cupa involuzione del diritto e di questa abiura dei
principi fondamentali della civiltà giuridica. Ormai, dal 2016, si trovano al
centro di un’aggressiva campagna di delegittimazione. Ostacolate, intimidite,
sottoposte a pressioni, sono state oggetto di numerose iniziative giudiziarie,
conclusesi tutte senza che nei loro confronti fosse richiesto un solo rinvio a
giudizio. Di fronte alle più pesanti accuse, fino a quella di avere operato in
diretta complicità con i trafficanti e a quella di incentivare con la loro
presenza le partenze dalla Libia, hanno risposto argomentando le ragioni
unicamente umanitarie della loro attività. L’ostilità verso le Ong si è
manifestata attraverso una serie di provvedimenti da parte delle autorità
italiane, spesso in collaborazione con altri stati membri UE e con le
istituzioni europee. Da qui, le pressioni da parte dei governi italiani nei
confronti di stati terzi per richiedere il ritiro della bandiera alle navi di
soccorso; l’introduzione del divieto di accesso alle acque territoriali e ai
porti italiani per le navi delle Ong, con relative sanzioni economiche; il
ricorso sproporzionato ad attività di controllo ispettivo e il frequente
sequestro amministrativo delle navi dopo ogni sbarco. L’offensiva contro le Ong
non ha solo provocato danni alla loro reputazione, ma ha finito per
compromettere irrimediabilmente la percezione positiva che, negli anni
precedenti, una parte significativa dell’opinione pubblica aveva mostrato nei
loro confronti. Di conseguenza, le Ong si sono trovate costrette a difendere le
stesse ragioni della propria esistenza e impossibilitate a negoziare con le
autorità italiane un proprio spazio d’azione. Questo ha indotto le Ong che
operano in mare – Open Arms, Sea Watch, Mediterranea, SOS Méditerranée,
Medici Senza Frontiere, Emergency, ResQ – a promuovere un Comitato per
il diritto al soccorso, che svolga una funzione di “tutela morale”
dell’attività di salvataggio e un’opera di difesa giuridica informata e
autorevole. E che contribuisca al formarsi, nell’opinione pubblica italiana ed
europea, di un costante orientamento di sostegno all’attività di salvataggio in
mare, che solleciti e accompagni il ripristino di un efficace sistema istituzionale
di ricerca e soccorso. Un sistema che veda coinvolti quanti operano nel
Mediterraneo, navi mercantili e pescherecci compresi, insieme alle imbarcazioni
delle ONG e a quelle della guardia costiera, nella prospettiva che siano gli
Stati e le loro strutture – come vuole il diritto internazionale – ad assumere
interamente quel compito. E ciò al fine di affermare, ancora una volta, il
senso di una condivisa responsabilità universale che fonda il diritto al
soccorso e l’intero sistema dei diritti umani.
Comitato per il diritto al soccorso
Hanno aderito giuristi ed esperti:
Vittorio Alessandro, Francesca De Vittor, Luigi Ferrajoli, Paola Gaeta, Luigi
Manconi (responsabile del Comitato), Federica Resta, Armando Spataro, Sandro
Veronesi, Vladimiro Zagrebelsky.
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