lunedì 16 novembre 2020

Clandestini, migranti o rifugiati? - Lorenzo Guadagnucci


Un’altra strage di rifugiati. Due naufragi davanti alla Libia”: questo titolo del quotidiano Avvenire è un’eccezione. Non si è (quasi) mai visto nel giornalismo italiano un linguaggio del genere: così vicino alla realtà, così utile alla comprensione di fatti drammatici.

Per anni tutti i giornali hanno scritto – e molti continuano a scrivere: clandestini. Clandestini per dire: gente che si nasconde, che ha qualcosa da nascondere, gente che non rispetta la legge, da cui prendere le distanze e trattare di conseguenza. Alcuni, da quale tempo e dopo avere opposto una lunga resistenza al cambiamento, hanno abbandonato questo epiteto (almeno nei titoli), ma raramente nelle redazioni dei quotidiani – lo stesso vale per i tele e radiogiornali – si trova il coraggio (in realtà è solo onestà intellettuale e professionale) di definire le persone in viaggio a rischio della vita nel Mediterraneo per quello che sono: rifugiati, appunto.

Qualcuno eccepirà, in punta di diritto, che il termine è impreciso, perché nessuno dei passeggeri dei barconi – tanto meno gli affogati – ha in realtà ricevuto, per ovvie ragioni, risposta positiva alla propria domanda di asilo; giusto, la definizione precisa sarebbe richiedenti asilo politico o protezione umanitaria; anzi, ancora più precisamente, potenziali richiedenti asilo o protezione: e tuttavia, poiché i titoli impongono una sintesi, rifugiati è il termine giusto. Quello che fa capire la realtà delle cose, la vera condizione delle persone.


Si fugge dalla Libia e dai suoi campi di prigionia e tortura – tappa intermedia di viaggi più lunghi – per rifugiarsi in Europa e lì trovare riparo e un’occasione di vita. Né più né meno. Tecnicamente, una volta sbarcati, i fuggiaschi (spesso naufraghi) presentano domanda d’asilo e diventano, appunto, richiedenti asilo. Molti vedranno respinta la loro domanda ed entreranno in un tragico limbo – né rifugiati, né altro, magari formalmente espulsi, in qualche caso materialmente rimpatriati a forza – e solo alcuni otterranno l’ambita qualifica di rifugiato.

Quindi, sì, le persone che affrontano i viaggi della morte nel Mediterraneo sono, dal nostro punto di vista, dei rifugiati: tutti o quasi tutti, per quanto ne sappiamo, chiederanno asilo e una parte di loro lo otterrà. Sono tutti potenzialmente dei rifugiati ed è bene definirli così, in modo che sia ben chiaro quanto è ingiusta la sorte che viene loro inflitta – la morte invece dell’asilo – e quanta ipocrisia c’è nelle nostre parole.

A chiamarli rifugiati – figura nobile, alla quale sono appartenuti molti grandi della storia, presente nella nostra Costituzione all’articolo 12 – ci si capisce meglio. Si capisce che la nostra indifferenza è una forma di collaborazione al genocidio in corso nel Mediterraneo. Stanno affogando persone umiliate e violate nel corpo e nello spirito, persone che cercano da noi l’aria per respirare. Noi li ignoriamo, li respingiamo, fingiamo di non vederli e da anni li chiamiamo clandestini – o migranti, termine che ormai ha il crisma dell’eufemismo e non aiuta alla comprensione di quel che avviene – in modo da lenire il senso di colpa. Il lessico del cattivismo è la cifra dell’ipocrisia, il lubrificante dell’indifferenza. È il linguaggio della colpa.

C’è un vocabolario della politica e del giornalismo che nasconde la realtà e ne manipola la comprensione. Le cronache dal Mediterraneo, quasi immancabilmente (non succede però nell’articolo citato, a firma Nello Scavo), parlano con tranquillità di “guardia costiera libica”, in realtà varie polizie armate (da noi) e l’una contro l’altra, con un ruolo più che ambiguo nel traffico di esseri umani; di “sindaci libici”, ossia capiclan e signori della guerra coi quali si scende a patti per fermare i rifugiati; di “campi libici”, espressione che pudicamente dissimula l’esistenza di campi di detenzione arbitraria e tortura ampiamente descritti da reportage giornalistici e rapporti ufficiali; di “governo libico”, un modo per giocare a nascondino e lasciar intendere ciò che non è: la Libia è uno stato fallito e non ha un vero governo.

Fu il ministro dell’interno Marco Minniti, al tempo dei primi accordi con i potentati libici e della prima guerra aperta alle navi delle Ong, a fare proprio questo lessico falso e fazioso: l’accordo era con il “governo libico” per rafforzare la “guardia costiera” e riportare nei “campi” i “migranti”, persone che non avevano il “diritto” di entrare in Italia. Tutto pulito, tutto legale: un lindore linguistico che celava e cela l’orrore e precise responsabilità politiche, che la storia sta già giudicando e ancor meglio giudicherà in futuro.

La linea Minniti-Gentiloni è stata prima rafforzata dal duo Salvini-Conte e poi confermata dall’attuale gestione Lamorgese-Conte; il lessico, sui media, è rimasto nel frattempo più o meno lo stesso e questo la dice lunga sulla natura e l’indipendenza del giornalismo italiano. Con le dovute eccezioni, naturalmente: da una di queste siamo partiti, ma difficilmente farà scuola.

Aspettiamo con ansia di essere smentiti.

da qui

 

Manifesto del Comitato per il diritto al soccorso. 

Uomo in mare. Quel grido ha attraversato gli oceani e i secoli e ha sempre trovato qualcuno pronto ad ascoltarlo. E a soccorrere chi fosse in stato di pericolo. Oggi quello stesso grido di aiuto rischia di non essere raccolto: e restano senza risposta le voci di tanti che, ogni giorno che passa, sono lasciati morire nelle acque del mare Mediterraneo. Migranti e profughi che fuggono dalle coste settentrionali dell’Africa per cercare in Europa un’opportunità di vita e una speranza di futuro. Il mare Mediterraneo è stato in questi anni una delle principali vie di fuga dagli orrori delle guerre e delle catastrofi naturali, dei conflitti tribali e delle persecuzioni religiose, etniche e politiche, delle carestie e delle pandemie. Una via di fuga dove trafficanti di esseri umani, mercanti di schiavi e truppe mercenarie, hanno imperversato vendendo e comprando uomini, donne e bambini, sequestrando ed estorcendo, seviziando e torturando, dal deserto del Sahel ai campi di detenzione in Libia fino alle acque, dove le milizie affondano le barche dei profughi e sparano sui naufraghi. È uno scenario quotidiano che si rinnova da decenni, conseguenza perversa della globalizzazione e dello scambio ineguale, della nuova divisione internazionale del lavoro e della subordinazione economica e commerciale dei paesi poveri alle grandi potenze. L’esito ultimo di questi processi sono i flussi migratori che percorrono tutte le rotte dal sud verso nord e che interessano l’Africa, il Medio Oriente e i Balcani. Qui, nel Mare Nostrum, quei flussi si addensano, precipitano, si inabissano, in una strage continua di cui ignoriamo i numeri reali. E sempre qui si gioca una partita capitale intorno alla tutela della vita umana. Da sempre, da quando quel grido “uomo in mare” echeggiò la prima volta, l’accorrere in aiuto, il prestare soccorso, l’offrire salvezza, è stato considerato sentimento naturale e legge universale, principio assoluto e diritto-dovere fondamentale. Il mutuo soccorso è stato il primo legame sociale e la base della reciprocità nelle relazioni tra gli esseri umani. Il mutuo soccorso costituisce il passaggio da individuo a soggetto sociale, a membro di una comunità. Da qui nasce il diritto al soccorso come istanza primaria di tutela della vita nelle costituzioni e nelle convenzioni internazionali e quale fondamento di tutti gli altri diritti.

Oggi, tutto ciò rischia di essere mortificato e compresso, se non direttamente negato, in nome della sicurezza dei confini esterni e della difesa “dall’invasione” delle moltitudini povere. La protezione delle frontiere meridionali dell’Europa diventa il valore supremo, in nome del quale si arriva a sospendere quello che si pensava fosse un diritto irrinunciabile. Il soccorso in mare viene assimilato a un’attività criminale da interdire, contrastare, penalizzare. E così quelle stesse istituzioni italiane – che avevano svolto un ruolo significativo nel promuovere l’operazione detta Mare Nostrum – hanno adottato una politica decisamente opposta. Con ciò hanno contraddetto consolidate norme internazionali che affidano proprio agli Stati costieri il compito di assicurare un efficace coordinamento delle operazioni di ricerca e salvataggio. È questo vuoto di iniziativa da parte degli Stati e delle loro strutture che ha reso indispensabile l’intervento delle Ong del soccorso in mare. Oggi esse sono il bersaglio di questa cupa involuzione del diritto e di questa abiura dei principi fondamentali della civiltà giuridica. Ormai, dal 2016, si trovano al centro di un’aggressiva campagna di delegittimazione. Ostacolate, intimidite, sottoposte a pressioni, sono state oggetto di numerose iniziative giudiziarie, conclusesi tutte senza che nei loro confronti fosse richiesto un solo rinvio a giudizio. Di fronte alle più pesanti accuse, fino a quella di avere operato in diretta complicità con i trafficanti e a quella di incentivare con la loro presenza le partenze dalla Libia, hanno risposto argomentando le ragioni unicamente umanitarie della loro attività. L’ostilità verso le Ong si è manifestata attraverso una serie di provvedimenti da parte delle autorità italiane, spesso in collaborazione con altri stati membri UE e con le istituzioni europee. Da qui, le pressioni da parte dei governi italiani nei confronti di stati terzi per richiedere il ritiro della bandiera alle navi di soccorso; l’introduzione del divieto di accesso alle acque territoriali e ai porti italiani per le navi delle Ong, con relative sanzioni economiche; il ricorso sproporzionato ad attività di controllo ispettivo e il frequente sequestro amministrativo delle navi dopo ogni sbarco. L’offensiva contro le Ong non ha solo provocato danni alla loro reputazione, ma ha finito per compromettere irrimediabilmente la percezione positiva che, negli anni precedenti, una parte significativa dell’opinione pubblica aveva mostrato nei loro confronti. Di conseguenza, le Ong si sono trovate costrette a difendere le stesse ragioni della propria esistenza e impossibilitate a negoziare con le autorità italiane un proprio spazio d’azione. Questo ha indotto le Ong che operano in mare – Open Arms, Sea Watch, Mediterranea, SOS Méditerranée, Medici Senza Frontiere, Emergency, ResQ – a promuovere un Comitato per il diritto al soccorso, che svolga una funzione di “tutela morale” dell’attività di salvataggio e un’opera di difesa giuridica informata e autorevole. E che contribuisca al formarsi, nell’opinione pubblica italiana ed europea, di un costante orientamento di sostegno all’attività di salvataggio in mare, che solleciti e accompagni il ripristino di un efficace sistema istituzionale di ricerca e soccorso. Un sistema che veda coinvolti quanti operano nel Mediterraneo, navi mercantili e pescherecci compresi, insieme alle imbarcazioni delle ONG e a quelle della guardia costiera, nella prospettiva che siano gli Stati e le loro strutture – come vuole il diritto internazionale – ad assumere interamente quel compito. E ciò al fine di affermare, ancora una volta, il senso di una condivisa responsabilità universale che fonda il diritto al soccorso e l’intero sistema dei diritti umani.

Comitato per il diritto al soccorso

Hanno aderito giuristi ed esperti: Vittorio Alessandro, Francesca De Vittor, Luigi Ferrajoli, Paola Gaeta, Luigi Manconi (responsabile del Comitato), Federica Resta, Armando Spataro, Sandro Veronesi, Vladimiro Zagrebelsky.

da qui

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