giovedì 12 novembre 2020

Di quale scuola parliamo? - Paolo Mottana

 

Devo dire che trovo piuttosto imbarazzante il dibattito attuale su scuole aperte/scuole chiuse. Mi sembra che si dicano cose piuttosto confuse e che si sottoscrivano battaglie valoriali in assenza di una riflessione seria su cosa sia la scuola nella sua dimensione strutturale e soprattutto su quali siano i suoi effetti sociali, culturali, psicologici. Naturalmente laddove l’alternativa è la famiglia, nella condizione attuale di pandemia, andrebbe fatta un’analisi altrettanto seria su cosa è diventata oggi.

Da una parte sembra che chiudere le scuole sia una ferita insanabile prodotta sui processi di apprendimento di una generazione (irrecuperabili secondo alcuni), dall’altro privare i bambini della scuola attenterebbe alla loro salute psichica e fisica, secondo altri. Come potranno mai socializzare i nostri ragazzi al di fuori della scuola? Come potranno mai imparare i nostri bambini e ragazzi al di fuori della scuola?

Tranquilli, mi verrebbe da dire, socializzeranno e impareranno meglio e subiranno forse meno danni che all’interno di quel dispositivo concentrazionario, disciplinare e fallimentare, proprio sul piano dell’apprendimento, che è, nella grande maggioranza dei casi, la scuola.

Naturalmente questo in generale. E non per niente mi batto da anni per la “chiusura” delle scuole, insieme a ben pochi altri.

Certo, in tempi di chiusura totale della vita sociale, della reclusione casalinga, a qualcuno può apparire meglio persino la scuola. Il che pone alcuni interrogativi altrettanto severi su cosa sia la famiglia e cosa siano le nostre case oggi. Se case e famiglie sono così inospitali da non poter essere un luogo decente dove ritirarsi mentre fuori impazza il flagello, quale che sia – oggi si chiama virus ma domani potrebbe chiamarsi guerra o altro -, la vera domanda da porsi è: ma che ne è delle famiglie? Non voglio infierire e lascio aperto l’interrogativo.

 

Quale scuola?

Quello che mi interessa è porre, specie a molti miei colleghi, la domanda su quali siano le qualità di questo nostro sistema scolastico che lo rendano la miglior soluzione possibile (a detta loro), per la salute fisica e psichica dei nostri bambini e ragazzi.

Ovviamente so che ci sono bravi insegnanti, ottimi educatori e anche eccellenti pedagoghi che hanno colto l’occasione per provare a sperimentare soluzioni di scuole aperte, o scuole all’aperto, di scuole in dialogo con il territorio o la natura che, senza arrivare a praticare una vera e propria educazione diffusa, si avviano verso quella direzione. E sono esempi da seguire, di volta in volta cercando di distinguere il grano dal loglioE tuttavia è l’affermazione generica: la scuola fa bene, pronunciata anche da esimi colleghi, che mi mette in allarme. Da pediatri addirittura, da psicologi, da pedagoghi non certo di regime (o forse no?).

Io non so che scuola abbiano in mente costoro oppure se semplicemente bonificano tutto il peggio della scuola inscrivendolo nella buona vecchia filosofia, buona per tutte le stagioni, per cui qualsiasi esperienza è meglio di nessuna esperienza, posto poi che lo stare a casa sia davvero comparabile a un “nessuna esperienza”.

Capirei se la scuola fosse un posto dove ci si muove, si sta all’aperto, non si è costantemente minacciati da giudizi e voti, non si viene obbligati a occuparsi di cose di scarso interesse, se fosse un luogo dove il corpo, le emozioni e gli affetti trovano spazio di esercizio vitale, entusiasmante e partecipativo, dove non c’è inutile competizione, dove si è liberi di esprimersi e di toccare con mano “il midollo stesso della vita”, come diceva un grande poeta, dove si è liberi anche di scegliere e di rifiutare.

Ma a quanto mi risulta non è così. Certo, nel deserto anche una pozza marcia è meglio di niente, si potrebbe dire. Però allora riconosciamo che si tratta di una pozza marcia che va ampiamente bonificata prima di farla diventare un’oasi e di contrapporla alla clausura casalinga come la panacea di tutti i mali.

 

Il dominio della produzione e del lavoro

Sappiamo bene d’altra parte che il nostro apparato produttivo ha bisogno che almeno i bambini non autonomi vadano a scuola per liberare i genitori affinché continuino a spremere le loro vita per aumentare i profitti di chi li sfrutta, sempre non siano sfruttatori essi stessi, nel qual caso si può essere certi che sono anche dei cattivi genitori. Chi colloca quest’età, dell’autonomia, alla seconda media (e mi si scusi se uso questo linguaggio d’antan), chi alla terza, chi alla scuola superiore. L’unica preoccupazione dei governi è sempre quella di non creare attrito nei meccanismi della produzione, almeno finché può, almeno finché i danni ai suoi elettori non superino quelli fatti ai suoi stakeholder industriali e commerciali. Del resto una civiltà che ha fatto del prolungamento della vita, e del consumo, il suo principale totem, non potrebbe lasciare morire migliaia di persone solo per tenere in piedi i mercati e i suoi finanziatori (che tanto trovano quasi sempre modo di rifarsi). E quindi, quando gli ospedali si intasano, quando i morti e i malati cominciano ad accumularsi per le strade, qualcosa deve pur fare. Cerca sempre di tirare fino all’ultimo, per non disturbare i vari manovratori, ma poi alla fine, alla faccia del malthusianesimo tornato evidentemente di moda (Toti per tanti), per non perdere la faccia rispetto all’etica di costituzioni che quasi sempre mettono il lavoro prima della vita ma in qualche modo restano vincolate a una morale kantiana, finiscono per intervenire. Non certo come quei regimi brutali dell’oriente, regimi militari, forse sarebbe meglio dire regimi confuciani ma passons, eppure anche da noi a un certo punto bisogna costringere il popolo abituato a fare sempre ciò che gli pare, che è ora di fare un po’ di penitenza.

Tra parentesi l’intolleranza per i vari lockdown puzza proprio di liberismo sfrenato applicato alle proprie vite. E del resto se si va a leggere i testi degli esimi negazionisti del virus, dottori di scarsa fama, nutrizionisti aziendali e altri personaggi paranoici, si vedrà che, a un’analisi approfondita, è la libertà liberista quella che viene proclamata, la libertà d’impresa, l’idea che ci sia un padre cattivo che impedisce ai bambini di giocare come vogliono, anche a rischio di mettere a repentaglio la vita degli altri. Tra l’altro è difficile capire perché in quasi tutti questi ragionamenti ci sia sempre un governo e un mondo scientifico alleati nel fare in modo che interi paesi cadano nelle mani di padroni che li stritolerebbero e li asservirebbero, in modo apparentemente suicidario. Così come francamente continuare a contrapporre morti di cancro e di infarto ai morti per virus sembra perlomeno bizzarro visto che né cancro né infarti, almeno a quello che mi consta, sono contagiosi.

Io non so se il virus sia stato fabbricato da qualche Spectre di turno per limare la popolazione mondiale e se dietro la pandemia ci sia un terribile complotto ai danni dell’occidente, magari orchestrato dagli svedesi (gli unici ad aver perseguito l’immunità di gregge con risultati piuttosto deludenti tenuto conto di un paese ricchissimo con pochi abitanti) o dai cinesi per comprare in blocco tutto il mondo con l’assenso patente di governi e di scienziati in vendita.

 

Come si sta negli ospedali

Intendiamoci, io non mi fido affatto della scienza in blocco (anche se devo riconoscere che mi ha regalato la vita, perché conciato com’ero, senza la scienza medica, io a 33 anni avrei dato l’addio a questo mondo, e chissà che non fosse meglio ma passons) però neppure di questi improbabili venditori di fumo che dicono di fare controinformazione. E se devo scegliere, scelgo chi mi sembra, a buon senso, dire cose meno improbabili, magari verificando, per esempio attraverso amici medici, come si sta davvero negli ospedali. E gli amici medici mi restituiscono panorami spaventosi.

D’altra parte ho anche la sensazione che molti che rifiutano di piegarsi alle chiusure non abbiano una esperienza profonda di cosa significa l’ospedale, di cosa significa trovarsi al suo interno sul punto di morire, e per di più senza poter avere un caro vicino al proprio letto. Beh, non lo auguro a nessuno ma provare per credere. Forse una settimana di ospedale in un reparto covid farebbe bene a tutti quelli che continuano a fare i pirla in circolazione. Assicuro che dopo smetterebbero. E con questo non sottovaluto tutte le carenze dei nostri sistemi sanitari e compagnia bella, però inviterei anche a confrontarsi con chi sistemi sanitari come il nostro se li sogna, anche per nostra responsabilità.

Eh sì, persino io posso arrivare a fare il moralista, però sono davvero basito dalle cazzate che continuo a leggere, sia da parte di chi recita peana in onore di un a scuola che è uno scandalo a dir poco (e lo capirebbe se riuscisse a scrostare dalle pareti del suo apparato mentale la scuola interiore che ha incamerato da piccolo come l’unica soluzione per diventare un soggetto a pieno titolo), sia da chi si fa affascinare dai guru di verità che a una minima analisi logica risultano di una totale inconsistenza, sia da una cultura che considera bambini e ragazzi ancora come dei minus habens, incapaci di sopravvivere a un po’ di frustrazione, incapaci di industriarsi per dare un senso al loro tempo (e se non sono più capaci di farlo colpa è della scuola ma anche di famiglie che non gli hanno passato il gusto del gioco, della creatività e del non far nulla anche in assenza di super stimoli o di quegli aggeggi che comunque non arriverò mai a demonizzare che sono i loro telefonini o i loro schermi interattivi).

Capisco le ansie di tanti ma credo derivino da un’inconscia paura del buio e della morte che questa pandemia ci ricorda ad ogni piè sospinto, più o meno enfatizzata dai media ma anche eufemizzata nella misura in cui distribuiscono speranze e disillusioni un po’ a cazzo, per dirlo forbito. E derivino anche da un sottile senso di colpa nei confronti dei propri figli, quello davvero autentico e da riconoscere, che per troppo tempo si è accettato di vedere mortificati nelle scuole e in una vita dove c’è sempre meno tempo per loro e per la loro ineludibile richiesta di essere visti e accolti nella loro “ciascunità” speciale e irripetibile.

da qui

 

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