Dimmi quale è il tuo lessico e ti dirò chi sei, o almeno gli obiettivi che
vuoi raggiungere. Il virus Sars-Cov2 affligge da mesi l’intero pianeta e i vari
governi nazionali sono stati chiamati ad affrontare una sfida imprevista: la
prima pandemia del XXI secolo. C’è chi, con poca fantasia, ha definito questo
impegno una guerra: da lì ha preso piede un lessico
attinto dal gergo militare e ormai accettato dai mezzi di informazione. Il
virus è definito il “nostro nemico”, si parla di battaglie e di coprifuoco
evocando esperienze compiute durante l’ultima guerra mondiale, le corsie
d’ospedale sono la prima linea, medici e infermieri dei combattenti eroi, chi
muore è un caduto e gli investimenti previsti per il post lockdown sono
immancabilmente un nuovo Piano Marshall, come il progetto di sostegno ai paesi
dell’Europa occidentale deciso dagli Stati Uniti dopo la sconfitta del nazismo,
del fascismo e del nazionalismo giapponese.
Dunque saremmo in guerra, con tutto ciò che ne consegue: la popolazione
mobilitata nel comune sforzo bellico, il “nemico” come aggressore imprevisto e
ingiustificato, il “capo” della Nazione come condottiero. In guerra le
differenze sfumano, il popolo si unisce dietro il suo leader, il dissenso
diventa una forma di tradimento, il paese è chiamato a un combattimento a testa
bassa contro il mondo esterno, in uno sforzo straordinario e di grande
coinvolgimento emotivo.
Il linguaggio – specie il linguaggio del potere – ha la
caratteristica di definire il campo informativo, cognitivo, percettivo della
comunicazione. Il lessico militaresco, in particolare, crea una cornice di
interpretazione rigida e gestita dall’alto. Gli annunci di nuove misure
decise nella “guerra” al “nemico comune”, fatti di solito in tv e con una certa
solennità, magari con la mascherina indossata, trasmettono ansia ma soprattutto
rafforzano quel clima di unione, mobilitazione, subordinazione tipico di un
paese belligerante.
La “guerra al virus” è una metafora potente e in apparenza fondata:
l’espressione rimarca la gravità dell’emergenza sanitaria ed enfatizza il ruolo
di chi detiene responsabilità di governo: non a caso negli Stati Uniti il
presidente eletto è anche, se non soprattutto, il “commander in chief”.
La “guerra al virus” è anche una “chiamata alle armi” dei cittadini: tutti
devono sentirsi coinvolti nel “combattimento” in corso e mettere in pratica le
direttive giunte dal “capo”.
Ma è davvero pertinente un linguaggio del genere? Che tipo di comunicazione
implica? Che risultati ottiene? È utile o no ad affrontare il virus e la
necessaria convivenza con esso?
Un’alternativa esiste
Per rispondere, è necessario mettere in campo un’ipotesi
alternativa. Possiamo pensare a un linguaggio che punti sulla trasparenza, la
collaborazione, la persuasione. Invece che di guerra, di nemici, di
prima linea, di eroi e di caduti, potremmo parlare di una sfida politica,
sociale e culturale oltre che sanitaria, di un’emergenza da affrontare con
razionalità, di scelte difficili da compiere e condividere, di un clima di
collaborazione e protezione reciproca da consolidare, di cittadini che hanno
diritto di sapere e d’essere protetti e curati in modo adeguato. C’è già,
fra i parlanti – a tutti i livelli, specie fra gli esperti di epidemiologia e
politiche sanitarie, ma anche fra la gente comune – chi parla così e non cede
alla metafora bellica. Un’alternativa dunque esiste.
Il confronto fra i due modelli fa capire la fallacia della “guerra al
virus”. Il linguaggio bellico semplifica e militarizza la comunicazione:
è nella sua natura. Il capo impartisce ordini, non ha bisogno di giustificare
le sue scelte e quindi riduce al minimo le spiegazioni. Dai cittadini ci si
aspetta obbedienza, una rassegnata obbedienza. Il linguaggio della
cooperazione va in direzione opposta: illustra i dati disponibili, le
conoscenze acquisite, non nasconde i limiti della ricerca e poi chiama i
cittadini a condividere le scelte compiute all’interno di una visione allargata
e aperta dell’emergenza, che è in primo luogo sanitaria ma con risvolti sociali
e politici altrettanto importanti.
Non si tratta di un confronto fra decisionismo e buone maniere ma di
visioni del mondo e dei propri compiti. La comunicazione militarizzata
centellina le informazioni, condivide e forse raccoglie poco di dati, espone le
cifre più coerenti con i propri obiettivi e trascura gli altri. Una
comunicazione più aperta è ricca di cifre, analisi, confronti, si proietta in
avanti nel tempo e allarga lo sguardo oltre i confini del paese, cerca termini
di confronto, spiega punto per punto le opzioni in campo e le scelte compiute.
Sono due modelli opposti: il tipo di comunicazione prescelto è il riflesso,
ma anche il supporto e il necessario terreno di contatto con la popolazione, di
una precisa impostazione politica. In Italia governo e media, nel tempo, hanno
oscillato fra uno e l’altro modello, creando una miscela che ha spesso generato
confusione. La pandemia tuttavia non è una guerra e
la scelta di militarizzare il campo, in tutto o in parte, non giova alla causa
comune. Quando gruppi di scienziati firmano petizioni per chiedere di
condividere i “big data” sul contagio – non le consuete tabelline, spesso poco
pregnanti, pubblicate dai quotidiani – segnalano una carenza strutturale tipica
della “guerra al virus”. La comunicazione verticale, che arriva dall’alto e
chiede d’essere accettata così com’è, eseguendo le disposizioni che
contiene, impoverisce la qualità dell’informazione e non favorisce la
presa di coscienza dei cittadini, in qualche modo infantilizzati.
Le cause del Covid e la guerra al virus
La “guerra al Covid” perde poi di vista il quadro d’insieme e occulta un
aspetto decisivo: le origini del virus. David Quammen, nel suo libro Spillover,
citatissimo all’inizio della pandemia ma presto dimenticato e del tutto assente
nella retorica militarizzata, spiega bene come si formano e si diffondono i
coronavirus. Derivano da un’invasione di campo delle attività umane negli
ecosistemi: il salto del virus dai selvatici agli umani è frutto di
deforestazione, distruzione degli habitat, diffusione degli allevamenti
industriali di animali. Non sorprende che non si parli più dello
“spillover”: tenere nel giusto conto tale fattore, implica l’abbandono del
progettato “ritorno alla normalità”, cioè al “business as usual”, un
intento probabilmente velleitario, ma l’unico possibile per chi oggi detiene il
potere e non vuole cambiare l’ordine delle cose.
La “guerra al virus” tende anche a essere autoreferenziale, come se
l’Italia fosse un’isola che può e deve far da sé; la guerra ha sempre
una connotazione nazionale e nazionalista. E invece la sfida è globale e
andrebbe affrontata globalmente: nello scambio di informazioni e materiali
sanitari, nella ricerca dei vaccini, nel rafforzamento delle istituzioni
sovranazionali, a cominciare dall’Organizzazione mondiale della sanità, prima
svuotata dall’interno e poi indicata come inutile.
Non stiamo combattendo una guerra, ma abbiamo di fronte una sfida cruciale:
comprendere il virus in tutti i suoi risvolti, a cominciare dall’inizio – come
e perché prende a circolare all’interno della specie umana – e senza trascurare
alcun aspetto. Il virus andrebbe affrontato in piena consapevolezza: a
livello collettivo attraverso il dibattito, la discussione, lo studio, la
ricerca, la condivisione delle informazioni, la collaborazione internazionale;
a livello individuale con spirito di cooperazione (la salute di ognuno
dipende da quella di tutti gli altri), ma anche pretendendo dalle
autorità scelte trasparenti e prese avendo sullo sfondo una vera visione
d’insieme, uno sguardo al futuro che non sia la promessa – impossibile – di
un ritorno al passato.
Ecco dunque qual è lo scopo di chi vorrebbe imporre il paradigma della
“guerra al virus”: militarizzare la società, ingessarla, ricominciare come
prima a forza di Piani Marshall, in attesa – a Sars-Cov2 eventualmente sconfitto
– di una nuova pandemia. No, non è questa la cornice nella quale cominciare a
costruire un futuro all’altezza dei difficili tempi che viviamo.
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