lunedì 9 novembre 2020

SOTTO LO SFACCIATO “HO CREATO ME STESSO” DEL MITO AMERICANO GIACE UN BISBIGLIO SINISTRO: “SONO UNA BUGIA” - Louise Glück

Siamo, si sa, una nazione di detenuti, di gente in fuga, di figli cadetti, di minoranze perseguitate, di opportunisti. Questa fama è locale e razziale: il mito dell’America bianca. Non descrive, è ovvio, i nativi americani né gli afroamericani: benché siano teoricamente liberi di partecipare alle mitiche nozioni americane di vigore e creazione del sé, farlo comporta atti di tradimento e slealtà verso origini che non hanno alcun desiderio di fuggire. L’oppressione, per questi gruppi umani, non ha definito il passato; ha sostituito il passato, che si è mutato in un magnete, in una smania.

Il mito si elabora per immagini e narrazioni che si autocreano: la spinta, l’audacia, il guadagno sono apprezzati più della resistenza o della forza d’animo. Se l’Inglese si immagina come erede di una grande tradizione, l’Americano si pensa un padre fondatore. Questa differenza risuona nella retorica politica: la forza aggressiva americana (chiamata, di solito, difesa) e l’avidità (detta, a volte, sviluppocontrapposte al linguaggio che salda Churchill a Enrico V, che suggerisce come l’inglese abbia, di fatto, bisogno semplicemente di manifestare le virtù che appartengono alla propria tradizione. Questi appelli sono stati potenti in tempo di guerra, occasioni in cui le classi inferiori sono state invitate a partecipare a tradizioni fondate sulla loro esclusione.

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Come tutti i miti, anche questo ha le sue basi nei fatti. Popolazioni di immigrati, fuggiti dal carcere, dalla reclusione, dal pericolo, dall’esclusione, difficilmente coltiveranno la resistenza stoica rispetto all’iniziativa privata. Le virtù cardinali di questo nuovo mondo derivano dal ripudio, dalla decapitazione dei legami, dall’invenzione e dall’affermazione. Non possiamo attenderci che gli imperativi della fondazione del sé leghino una società con la stessa efficacia dell’invocazione a una tradizione condivisa. Il meglio che possa accadere è che questi imperativi costituiscano un’ambizione comune, una pratica; in effetti, sono l’opposto della coerenza. La distinzione individuale si esprime come distinzione dal passato, dai limiti del possibile precedentemente definiti. Tuttavia, i trionfi della creazione del sé chiedono conferme, conforti. Postulano, almeno in modo fantasioso, una società o un pubblico abbastanza coerenti da saper riconoscere e premiare il nuovo. Il nuovo è stato una specie di adesivo incollato – provvisoriamente – a diversi sistemi: una fantasia, la proiezione dei valori comuni. Come ciò avvenga e con quali restrizioni spiega gli attributi peculiari di ciò che gli americani definiscono originalità, un termine di grande lode, un premio.

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Nella nostra letteratura, un lavoro originale deve rompere i sentieri, fondare dinastie. Deve, cioè, essere in grado di replicarsi. Chiamiamo originale ciò che serve da modello, da prototipo, legando il futuro alla coerenza e, simultaneamente, affermando la coerenza di un passato ormai superato. Non rifiuta la tradizione: la proietta nel futuro, con il sé come progenitore. L’originalità, l’impronta del sé inventato, dipende dalla creazione di effetti replicabili. Nel frattempo, molto di ciò che è profondamente originale ma improbabile, per diverse ragioni, da sponsorizzare vaste imitazioni, viene trascurato, definito minore, unico, prezioso, un vicolo cieco, insomma. L’originale è ricercato con famelica intensità; tutte le più brillanti bandiere di lode sono dispiegate ad accoglierlo. Ma lo accoglieranno entro certi limiti.

Ciò non significa che non attirino ammirazione altri doni. La maestria tecnica continua a essere onorata, anche se in chi viene da altrove. Un Seamus Heaney americano non sarebbe riconosciuto così appassionatamente. Allo stesso modo Wislawa Szymborska che, in traduzione, appare un brillante esempio di intelligenza inimitabile.

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Il lato oscuro dell’auto-creazione è un senso di frode costante. Una specie di terrore sotterraneo può spiegare la disponibilità del pubblico americano a mettersi in discussione, a chiamare grande arte ciò che non comprende. Mentre i poeti americani si pongono sempre più contro la logica e l’osservazione, il pubblico americano (spesso un pubblico di altri scrittori) acconsente con quieta audacia. Sotto lo sfacciato “Ho creato me stesso” del mito americano giace un bisbiglio sinistro, “Sono una bugia”. E il bugiardo vuole eludere il giudizio, non vuole essere catturato. L’arte letteraria del nostro tempo rispecchia l’ansia dell’uomo inventato. Sei un bugiardo, sembra dire. Non sai leggere. E per gli scrittori questa incomprensione sembra superficialmente incoraggiante, come se “capire” significasse “esaurire”.

La libertà scatenata ha, tra i suoi costi, una specie di paranoia: il sé non edificato in profondità, cresciuto come un albero, ma postulato e improvvisato, che si muove avanti e indietro allo stesso tempo, questo sé è instabile, insicuro. Quando l’immaginazione è immensa – nel caso del genio o della mania – questo fastidioso senso di falsità probabilmente si dissolve. Quando non lo è, i punti deboli sono difesi con ferocia.

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Al centro del mito americano c’è l’immagine di un mondo migliore, una traduzione della visione teologica in quella pragmatica, terrena. Questa idea non è un’esclusiva della democrazia americana, e il suo fallimento – o la sua ingenuità – ha obbligato a riesaminare tale premessa. L’idea dell’indipendenza individuale – la possibilità che chiunque possa raggiungere la preminenza, la ricchezza, la gloria –, questo sogno di distinzione individuale, è diventato un attributo determinante della democrazia. Sembra che più la democrazia appare imperfetta, tanto la promessa di un sé senza precedenti diventa audace, necessaria.

Ma l’uomo che si è fatto da sé, come ogni figura del potere, dipende da un ampio accordo: i suoi pari devono acconsentire a questa realizzazione… La nostra cultura sostiene l’archetipo americano: l’artista deve apparire come un rinnegato ma allo stesso deve produrre, per caso o per progetto, un bene estetico, un insieme di gesti percepiti immediatamente come nuovi e per questo replicabili. Il problema, oggi, è che è sempre più difficile distinguere l’originale dalla copia.

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A poco a poco, l’audace artista americano scopre di avere dei limiti. Ma niente di tutto questo impatta sul vigore del mito. Penso sia vero il contrario. Come tutti i miti del possibile, la fantasia compensativa può fare in modo che il nuovo sopravviva nonostante i suoi fallimenti. Per gli artisti, facendo appello all’immaginazione, questo produce energia e utilità. Nutre una speranza: il fatto di aver fallito in passato offre spazio a se stessi, all’investigazione del proprio genio personale.

da qui

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