Siamo, si sa, una nazione di detenuti, di gente in fuga, di figli cadetti, di minoranze perseguitate, di opportunisti. Questa fama è locale e razziale: il mito dell’America bianca. Non descrive, è ovvio, i nativi americani né gli afroamericani: benché siano teoricamente liberi di partecipare alle mitiche nozioni americane di vigore e creazione del sé, farlo comporta atti di tradimento e slealtà verso origini che non hanno alcun desiderio di fuggire. L’oppressione, per questi gruppi umani, non ha definito il passato; ha sostituito il passato, che si è mutato in un magnete, in una smania.
Il mito si
elabora per immagini e narrazioni che si autocreano: la spinta, l’audacia, il
guadagno sono apprezzati più della resistenza o della forza d’animo. Se
l’Inglese si immagina come erede di una grande tradizione, l’Americano si pensa
un padre fondatore. Questa differenza risuona nella retorica politica: la forza
aggressiva americana (chiamata, di solito, difesa) e l’avidità
(detta, a volte, sviluppo) contrapposte al linguaggio che
salda Churchill a Enrico V, che suggerisce come l’inglese abbia, di fatto,
bisogno semplicemente di manifestare le virtù che appartengono alla propria
tradizione. Questi appelli sono stati potenti in tempo di guerra, occasioni in
cui le classi inferiori sono state invitate a partecipare a tradizioni fondate
sulla loro esclusione.
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Come tutti i
miti, anche questo ha le sue basi nei fatti. Popolazioni di immigrati, fuggiti
dal carcere, dalla reclusione, dal pericolo, dall’esclusione, difficilmente
coltiveranno la resistenza stoica rispetto all’iniziativa privata. Le
virtù cardinali di questo nuovo mondo derivano dal ripudio, dalla decapitazione
dei legami, dall’invenzione e dall’affermazione. Non possiamo attenderci che
gli imperativi della fondazione del sé leghino una società con la stessa
efficacia dell’invocazione a una tradizione condivisa. Il meglio che
possa accadere è che questi imperativi costituiscano un’ambizione comune, una
pratica; in effetti, sono l’opposto della coerenza. La distinzione individuale
si esprime come distinzione dal passato, dai limiti del possibile
precedentemente definiti. Tuttavia, i trionfi della creazione del sé chiedono
conferme, conforti. Postulano, almeno in modo fantasioso, una società o un
pubblico abbastanza coerenti da saper riconoscere e premiare il nuovo. Il nuovo è
stato una specie di adesivo incollato – provvisoriamente – a diversi sistemi:
una fantasia, la proiezione dei valori comuni. Come ciò avvenga e con quali
restrizioni spiega gli attributi peculiari di ciò che gli americani definiscono
originalità, un termine di grande lode, un premio.
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Nella nostra
letteratura, un lavoro originale deve rompere i sentieri, fondare dinastie.
Deve, cioè, essere in grado di replicarsi. Chiamiamo originale ciò che serve da
modello, da prototipo, legando il futuro alla coerenza e, simultaneamente,
affermando la coerenza di un passato ormai superato. Non rifiuta la tradizione: la
proietta nel futuro, con il sé come progenitore. L’originalità, l’impronta del
sé inventato, dipende dalla creazione di effetti replicabili. Nel frattempo,
molto di ciò che è profondamente originale ma improbabile, per diverse ragioni,
da sponsorizzare vaste imitazioni, viene trascurato, definito minore, unico,
prezioso, un vicolo cieco, insomma. L’originale è ricercato con famelica
intensità; tutte le più brillanti bandiere di lode sono dispiegate ad
accoglierlo. Ma lo accoglieranno entro certi limiti.
Ciò non
significa che non attirino ammirazione altri doni. La maestria tecnica continua
a essere onorata, anche se in chi viene da altrove. Un Seamus Heaney americano
non sarebbe riconosciuto così appassionatamente. Allo stesso modo Wislawa
Szymborska che, in traduzione, appare un brillante esempio di intelligenza
inimitabile.
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Il lato
oscuro dell’auto-creazione è un senso di frode costante. Una specie di terrore
sotterraneo può spiegare la disponibilità del pubblico americano a mettersi in
discussione, a chiamare grande arte ciò che non comprende. Mentre i poeti
americani si pongono sempre più contro la logica e l’osservazione, il pubblico
americano (spesso un pubblico di altri scrittori) acconsente con quieta
audacia. Sotto lo sfacciato “Ho creato me stesso” del mito americano
giace un bisbiglio sinistro, “Sono una bugia”. E il bugiardo vuole eludere il
giudizio, non vuole essere catturato. L’arte letteraria del nostro tempo
rispecchia l’ansia dell’uomo inventato. Sei un bugiardo, sembra dire. Non
sai leggere. E per gli scrittori questa incomprensione sembra superficialmente
incoraggiante, come se “capire” significasse “esaurire”.
La libertà
scatenata ha, tra i suoi costi, una specie di paranoia: il sé non edificato in
profondità, cresciuto come un albero, ma postulato e improvvisato, che si muove
avanti e indietro allo stesso tempo, questo sé è instabile, insicuro. Quando
l’immaginazione è immensa – nel caso del genio o della mania – questo
fastidioso senso di falsità probabilmente si dissolve. Quando non lo è, i punti
deboli sono difesi con ferocia.
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Al centro
del mito americano c’è l’immagine di un mondo migliore, una traduzione della
visione teologica in quella pragmatica, terrena. Questa idea non è un’esclusiva
della democrazia americana, e il suo fallimento – o la sua ingenuità – ha
obbligato a riesaminare tale premessa. L’idea dell’indipendenza individuale – la
possibilità che chiunque possa raggiungere la preminenza, la ricchezza, la
gloria –, questo sogno di distinzione individuale, è diventato un attributo
determinante della democrazia. Sembra che più la democrazia appare imperfetta,
tanto la promessa di un sé senza precedenti diventa audace, necessaria.
Ma l’uomo
che si è fatto da sé, come ogni figura del potere, dipende da un ampio accordo:
i suoi pari devono acconsentire a questa realizzazione… La nostra
cultura sostiene l’archetipo americano: l’artista deve apparire come un
rinnegato ma allo stesso deve produrre, per caso o per progetto, un bene
estetico, un insieme di gesti percepiti immediatamente come nuovi e per questo
replicabili. Il problema, oggi, è che è sempre più difficile
distinguere l’originale dalla copia.
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A poco a
poco, l’audace artista americano scopre di avere dei limiti. Ma niente di tutto
questo impatta sul vigore del mito. Penso sia vero il contrario. Come tutti i
miti del possibile, la fantasia compensativa può fare in modo che il nuovo
sopravviva nonostante i suoi fallimenti. Per gli artisti, facendo appello
all’immaginazione, questo produce energia e utilità. Nutre una speranza: il
fatto di aver fallito in passato offre spazio a se stessi, all’investigazione
del proprio genio personale.
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