Il processo di Locri contro Mimmo Lucano
continua, sia pure a rilento, sostanzialmente ignorato dalla stampa. Dal mio
ultimo articolo di inizio luglio (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/07/08/domenico-lucano-come-procede-un-processo-politico/), ci sono state 4
udienze, due a luglio e due a settembre.
1.
Nell’udienza del 6 luglio,
il colonnello Sportelli ha ripreso il tema del Riace in festival, la
manifestazione culturale estiva organizzata dalla Rete dei Comuni Solidali, con
riferimento, in particolare, alle edizioni del 2017 (in pieno periodo di
intercettazioni da parte della Guardia di Finanza) e del 2015 (per dei
riferimenti presenti in alcune intercettazioni raccolte due anni più tardi, che
in realtà non si riferiscono al Festival, ma ad altri eventi culturali
organizzati dal Comune in occasione della festa dei santi patroni). I reati
ipotizzati sono quelli di distrazione di fondi, di falso ideologico e di
favoreggiamento personale. Del Festival Sportelli aveva già parlato, affermando
che sarebbe stato finanziato con quelle “economie” realizzate sui fondi
dell’accoglienza che la Procura tratta tutte indistintamente come distrazione
di fondi. Questa volta vi ritorna su per parlare delle case in cui venivano
alloggiati quelli che Sportelli definisce come “gli ospiti del Festival”,
oppure “gli invitati di Lucano”, o addirittura “gli amici di Lucano”. Uno
slittamento di linguaggio indicativo del carattere approssimativo delle accuse,
ma anche del tentativo di insinuare continuamente che possa esserci un
interesse privato di Lucano, sebbene l’accusa non l’abbia dimostrato. Le case,
dunque: emergerebbe dalle intercettazioni che nel 2017 Lucano avrebbe sistemato
le persone arrivate a Riace per il Festival non solo nelle case del turismo
solidale, ma anche in alcune case destinate ai progetti Sprar e Cas. Il
Festival dura solo qualche giorno e le case in questione erano comunque vuote,
ma l’ospitalità di persone estranee ai progetti non sarebbe comunque prevista
dalle Linee Guida dello Sprar e avrebbe pesato sui fondi Sprar in termini di
consumo di acqua e elettricità. E però, mentre parla delle case, Sportelli fa
balenare di nuovo l’idea che il Festival stesso, gli artisti, il palco ecc.,
tutto fosse pagato da Lucano e/o dalle associazioni dell’accoglienza a Riace,
quindi con fondi pubblici. E questo sebbene sia semplice verificare che il
Festival si è sempre finanziato in modo autonomo, su fondi di ReCoSol e della
Tavola valdese.
Anche nell’udienza del 22 luglio è
tornato un altro grande tema: il teste Leone Vadalà, maresciallo della Polizia
giudiziaria di Locri, ha deposto sul presunto carattere fraudolento della
raccolta dei rifiuti svolta a Riace da due cooperative sociali. Ha a lungo
argomentato su quelle cooperative (che non erano iscritte ai registri e non
avevano i requisiti), sull’affidamento diretto del servizio, sulla mancanza della
gara e della pubblicità, sostenendo che Lucano avrebbe avuto motivi personali
per affidare loro il servizio. L’ipotesi di reato è di turbata libertà di
scelta del contraente, di turbata libertà degli incanti e di abuso d’ufficio.
Sembra di sognare, siamo ben oltre il déjà vu. Se ricordate, quando
nell’ottobre 2018 il Gip di Locri aveva imposto a Lucano le misure cautelari
(arresto domiciliare, poi tramutato in esilio), aveva giudicato inconsistenti
la gran parte delle accuse, accogliendone solo due: i matrimoni irregolari e
l’assegnazione del servizio di raccolta rifiuti, per l’appunto. Nel febbraio
2019, però, era intervenuta la Corte di Cassazione che aveva demolito le
argomentazioni della Procura sul servizio di raccolta rifiuti, sostenendo che
non c’erano «indizi di comportamenti fraudolenti». Anzi, tutto era stato
regolare, le decisioni erano state prese in modo collegiale e supportate dai
pareri di regolarità sotto il profilo tecnico e contabile, il carattere di
pubblica notorietà dei provvedimenti era garantito dall’affissione all’albo
comunale e le somme previste per il servizio erano al di sotto della soglia
stabilita dall’UE. Aveva anche respinto la pretesa della Procura di fondare il
reato sulla mancata iscrizione delle due cooperative al registro regionale, per
il semplice fatto che tale registro regionale non era in realtà esistito fino
al 2016, cosicché nel periodo in esame (2011-2015) non si poteva pretendere
l’iscrizione delle cooperative a quell’albo. La Cassazione aveva fatto anche di
più, affermando che i comportamenti ritenuti penalmente rilevanti dalla Procura
nella vicenda dell’affidamento del servizio di raccolta rifiuti erano «solo
assertivamente ipotizzati».
La ripresa del processo dopo la pausa
estiva si è aperta con l’udienza del 14 settembre, dedicata al
contro-esame da parte degli avvocati della difesa: contro-esame di Sportelli
sul reato di peculato e di Vadalà sulla raccolta di rifiuti. Gli avvocati
chiedono ai testi dell’accusa chiarimenti su punti di dettaglio in relazione
alle posizioni dei loro assistiti, fanno emergere contraddizioni e carenze
nell’esposizione della Procura e annunciano che tutti questi punti saranno
successivamente ripresi nelle presentazioni difensive.
L’udienza del 15 settembre,
invece, è stata un’udienza importante, perché Sportelli ha affrontato due capi
d’accusa pesanti, due macigni che la Procura scaglia contro l’esperienza stessa
di Riace. Il primo è il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina
attraverso il tentato matrimonio, mai realizzato, fra una ex-rifugiata ormai
cittadina italiana e un uomo etiope. Il secondo è il reato di associazione a
delinquere che, nella visione dell’accusa, costituirebbe il quadro d’insieme in
cui s’inseriscono i reati illustrati nel corso delle precedenti udienze. I
soggetti che avrebbero partecipato al reato associativo vengono ridotti ai soli
Lucano, Capone, Ierinò e Tornese, con Lucano nella posizione apicale di capo
dell’associazione. Questi si sarebbero associati allo scopo di commettere un
numero indeterminato di delitti. Per usare le parole di Sportelli, «per fini
diversi, di lucro o elettorali, si è voluto portare avanti un progetto, che era
il modello Riace, nato in maniera egregia, che però pian piano è andato alla
deriva». Una deriva che non sarebbe, però, imputabile ad errori, anomalie, o
incapacità di gestione di numeri cresciuti a dismisura, ma a volontà collettiva
di realizzare truffe, falsi, abusi e via dicendo. È in questo quadro che
l’accusa legge l’esperienza di Riace come un piano preordinato per distrarre
fondi e truffare lo Stato; certo, riconosce Sportelli, i rifugiati erano
trattati bene, ma all’interno di un disegno criminale. Con l’illustrazione del
capo di accusa di associazione a delinquere si esaurisce la lunga deposizione
del colonnello Sportelli, durata un intero anno.
Parallelamente, anche in questi mesi
estivi è successo altro. Fuori dal processo, certo, eppure è difficile
immaginare che non risuoni in qualche modo anche in quell’aula, perché getta un
po’ di luce sulle tante ombre che vi emergono.
2.
Il 7 luglio il Tribunale del Riesame di
Reggio Calabria ha respinto il ricorso della Procura di Locri contro
l’annullamento delle misure cautelari riguardanti Lucano, che ancora oggi
vorrebbe ai domiciliari; nella sentenza, il Tribunale ha sostenuto che non c’è
prova del reato associativo, né del perseguimento da parte di Lucano di un
vantaggio patrimoniale. A fine agosto, poi, è arrivata un’altra notizia
eclatante: Salvatore del Giglio, funzionario della Prefettura di Reggio Calabria,
autore di una relazione che costò a Riace l’avvio dell’indagine e la chiusura
dei progetti d’accoglienza (che aveva testimoniato in Tribunale nel luglio
2019), è indagato per falso ideologico in atti pubblici. Avrebbe falsificato
una relazione sul Centro di accoglienza “Villa Cristina” del Comune di
Varapodio, gestito dal sindaco Fazzolari di Fratelli d’Italia, omettendo di
indicare le criticità riscontrate, proprio quelle criticità che aveva invece
sottolineato nell’operato di Lucano a Riace: chiamata diretta degli enti
gestori, affidamento dei servizi senza gara, assunzione fiduciaria degli
operatori ecc. Che credibilità può avere – se il fatto sarà accertato – un
funzionario infedele che falsifica le relazioni delle ispezioni?
3.
Fin qui le “notizie” di questi mesi. Il
processo è ora in un momento di transizione. L’illustrazione delle tesi
d’accusa si è conclusa (salvo qualche piccola appendice) e sta finalmente per
iniziare la fase dedicata alle difese. Ne approfitto per sintetizzare le
impressioni che ho tratto in questi mesi di monitoraggio delle udienze:
a.
sin dall’inizio il processo è apparso viziato da una sorta di mancanza
di distinzione fra il piano amministrativo e quello penale, con un continuo
scivolamento fra l’uno e l’altro. Accuse di inadempienze, rendicontazione
difettosa, database non accurato, comportamenti anomali rispetto alle Linee
Guida dei programmi di accoglienza e integrazione rinviano tutte al piano
amministrativo. Altra questione è, all’evidenza, un processo penale per reati
anche molto gravi. Questa confusione è particolarmente critica
in quanto l’accoglienza è materia amministrata di concerto con gli enti locali,
cui lo Stato affida rifugiati e richiedenti asilo; il che presuppone, come
ricorda la sentenza del Consiglio di Stato del 28 maggio (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/07/08/domenico-lucano-come-procede-un-processo-politico/), un rapporto di
lealtà e reciproca fiducia ed esclude comportamenti ostili o demolitori da
parte dello Stato. Quella sentenza non ha solo dichiarato illegittima la
chiusura dello Sprar di Riace e il trasferimento dei rifugiati, ma ha affermato
qualcosa di ancor più rilevante: che le inosservanze delle Linee Guida dello
Sprar vanno trattate all’interno della logica amministrativa. Così non è
avvenuto, spezzando il principio della leale collaborazione: lo Sprar non
andava chiuso e nel chiuderlo i funzionari del servizio hanno disatteso le
Linee Guida. Insomma, se è probabile che, nell’intento di costruire quel
modello di sviluppo che nella sua visione poteva garantire ai migranti
l’integrazione e ai locali il riscatto da un destino di abbandono e
sottosviluppo, Lucano abbia contravvenuto ad alcune regole dello Sprar è invece
certo ‒ perché lo stabilisce il Consiglio di Stato ‒ che quelle regole non sono
state rispettate dai funzionari dello Sprar, e per il fine assai meno “nobile”
di chiudere un servizio, di distruggere un’esperienza, di mortificare una
comunità che aveva provato a rialzare la testa;
b.
fatta giustizia di questa confusione, cosa rimane nel
processo? Il dolo, l’appropriazione, il vantaggio economico
personale: tutto ciò che la Procura non ha potuto provare nell’azione di
Lucano. In mancanza, l’accusa ha proposto una sorta di omogeneizzazione dei
reati contestati, tutti praticamente ricondotti a una “distrazione di fondi”.
Ma quali fondi venivano distratti? Quelli che Lucano dichiarava apertamente di
riuscire ad economizzare sui fondi pubblici che riceveva, grazie ai costi
contenuti della vita in un contesto come quello di Riace, ma anche grazie
all’attenzione a che neanche un centesimo venisse usato per scopi diversi da
accoglienza e integrazione. Per l’accusa proprio queste “economie” sono il
cuore dei vari reati. Tutte le pratiche che da sempre hanno caratterizzato
l’esperienza di Riace – le borse lavoro, i bonus locali, i lungopermanenti, le
occasioni di lavoro create per rifugiati e autoctoni alla ricerca di
quell’equilibrio fra ospitalità dei rifugiati ed economia locale che è
considerato il tratto distintivo di quel modello ‒ sarebbero inficiate dal peccato
originale di esser state realizzate grazie a quelle “economie”. Di fronte alle
richieste del Presidente (che a più riprese ha domandato se quelle pratiche non
fossero pur sempre finalizzate all’integrazione) e ai rilievi delle difese (che
nel contro-esame hanno letto le Linee Guida dello Sprar nelle quali è ammessa
una gamma variegata di azioni a fini integrativi) la Procura ha dovuto
riconoscere che esse potevano rientrare nelle Linee Guida, ma ha affermato che,
oltre una certa cifra, avrebbe dovuto esserci una richiesta specifica che è
invece mancata. Ora, la mancanza di tale richiesta non ricadrebbe di nuovo fra
le inadempienze amministrative?
c.
il cuore dei reati contestati a Lucano sta dunque, secondo l’accusa, nelle
“economie” utilizzate per portare avanti la sua idea di integrazione. Come dice
Sportelli, si tratta di «guadagno pulito», di soldi non spesi per i migranti,
ma per “altro”. C’è però, in tutto questo, un punto debole. Non si tratta,
infatti, di una clamorosa scoperta dell’indagine. A Riace le
“economie” sono state fatte e usate alla luce del sole, sono state rivendicate
come innovazioni importanti nel lavoro di integrazione, sono state oggetto di
libri e articoli, film e documentari. Erano tutti fatti ben noti anche agli
uffici dello Sprar o del Cas, che li hanno tollerati per anni
e che hanno continuato ad approvare i progetti e a inviare rifugiati. Che cosa
ha fatto sì che quelle pratiche abbiano cambiato di segno? L’impressione è
che i reati attribuiti a Lucano siano reati ex-post:
pratiche portate avanti alla luce del sole, ammesse per anni, diventano
improvvisamente reati per effetto di quel cambiamento di prospettiva politica
su immigrazione e asilo, che dal 2017 in poi ci ha precipitati nel baratro del
razzismo, dei respingimenti, dei porti chiusi, del rifiuto del soccorso in
mare. Insomma, una forzatura in nome di idee che pretendono di riscriverne il
senso, con un’operazione tipica di ogni processo politico;
d.
fin dall’inizio, alle richieste del Presidente di chiarire il
movente di rilevanza penale delle azioni esaminate, la Procura ha
dovuto riconoscere la mancanza di qualsivoglia prova che Lucano sia stato mosso
dalla ricerca di un vantaggio economico ed ammettere che, anzi, agiva per
motivi ideali di umanità e accoglienza. A un certo punto, poi, ha avanzato
un’ipotesi diversa: non c’era vantaggio economico, ma il perseguimento di un
vantaggio “politico-elettorale”. Peccato che, dall’inizio dell’indagine, Lucano
non si sia candidato in nessuna elezione politica tanto che il tema stesso del
movente è stato quasi del tutto espunto dal processo.
Una prima conclusione è, a questo punto,
possibile. La strategia dell’accusa, in questo processo, è quella
di attaccare il cuore stesso del modello Riace. Se le economie sono
di per sé un reato, indipendentemente da come sono state utilizzate, allora
l’esperienza di Riace non ha più nulla di esemplare e diventa equiparabile a un
qualsiasi business dell’accoglienza, dove parte dei fondi pubblici sono usati
per tutt’altro. Ma se si guarda la modo in cui quelle economie sono state
investite a Riace, si vede che non sono state spese per “altro”; al contrario,
esse hanno reso possibili le borse lavoro, i lavori di restauro e di bonifica,
i servizi, i laboratori, la fattoria didattica, il frantoio di comunità, il
turismo solidale, le iniziative culturali e di spettacolo. Sono state insomma
il motore di quel connubio riuscito di integrazione dei migranti e di sviluppo
della comunità locale che è il cuore dell’anomalia di Riace. Spogliare
quell’azione pubblica delle sue realizzazioni in termini di integrazione,
significa privare del loro contenuto tutte quelle attività, togliere loro
l’anima, ridurle a quel «gruzzolo» – per dirla con Sportelli – che Lucano «non
ha speso e rimane a sua disposizione, cioè della sua associazione». Come dire:
non c’era niente di particolare a Riace, c’erano solo gruzzoli a disposizione
come in tanti altri posti. Così, insieme, si delegittima Lucano e a
diventare reato è Riace stessa, l’idea di comunità, di sviluppo, di
integrazione fra i popoli che rappresenta. Per questo il processo in corso a
Locri contro Lucano è un processo politico che ci riguarda tutti.
(Una versione più ampia dell’articolo può
leggersi in www.pressenza.com)
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