… Questa
storia Paolo Cognetti l’ha sempre avuta dentro di sé, qualcosa di ancestrale
che è cresciuto con lui e che lo ha accompagnato anche nel corso delle sue
precedenti pubblicazioni. Basterebbe ricordare per tutti Il ragazzo
selvatico - Quaderno di montagna in cui i temi della solitudine sui
monti, della vita lontano dalla città e soprattutto della libertà come scelta
consapevole e a volte dolorosa diventano un meraviglioso inno alla natura e
alle sue incredibili bellezze. La Val d’Aosta allora, la Val d’Aosta adesso,
quasi a voler significare che certi luoghi piantano radici così salde dentro di
noi da diventare parte integrante della scenografia d’intorno. Cognetti sapeva
di voler scrivere una storia su un padre e un figlio e su un’amicizia tra
uomini oltre che una storia profumata di larici e abeti, costeggiata da
torrenti, colorata dalle nevi perenni e sincera come la vita. Un racconto che
parte dal concetto di famiglia, con tutte le contraddizioni e i conflitti che
animano un nucleo normale e ordinario come ce ne sono tanti. Un poetico
universo di aspettative disilluse nei vecchi e nei giovani, in chi resta e in
chi va per ritornare…
Un libro davvero bello, si legge tutto di un fiato. I luoghi
sono descritti con dovizia di particolari e le tematiche affrontate sono
svariate: la solitudine, l'amicizia, il rapporto con i genitori, e la montagna
a fare da sfondo con la sua forza struggente. Ci si immerge nella lettura senza
accorgersene, fino al un finale davvero commovente.
… La trama semplice, strutturalmente e
contenutisticamente parlando, permette a Cognetti di dedicare largo spazio
all’evoluzione psicologica ed esistenziale dei suoi personaggi, uno dei più
incisivi elementi di forza del romanzo. Pietro e Bruno sono persone introverse,
il loro è un rapporto che vive di parole non dette e contatti sporadici, eppure
entrambi i personaggi sono entità tangibili, uomini reali nati su carta. La
loro capacità di comprendersi senza dover essere espliciti si riflette in un
linguaggio letterario attento e asciutto, che consente anche al lettore di
coglierne i sottointesi emotivi e le sfumature caratteriali.
Lo stile di Cognetti è quasi una magia: senza
dover rivelare apertamente tutti i tratti psicologici dei suoi protagonisti, il
lettore riesce a intuirli con naturalezza, pur nella loro complessità. Si
seguono quindi con grande trasporto due differenti percorsi di crescita, l’uno
irrequieto e vagabondo, l’altro sicuro e tenace, fino al loro finale naturale,
coerente e perfetto.
Insieme a Pietro e Bruno c’è sempre la
montagna, forse la vera protagonista del romanzo, certamente qualcosa più di un
semplice sfondo paesaggistico o una metafora poetica. Silenziosa, possente,
fredda e affascinante: è l’habitus naturale di Giovanni, il padre di Pietro,
che sembra diventare se stesso solo durante le sue scalate tra i sentieri
montuosi; è l’unica casa di Bruno, montanaro nell’anima, che non riuscirà mai a
lasciarla; ed è la meta naturale di Pietro, che vive vagabondando per il mondo,
ma con lo sguardo rivolto sempre verso l’alto, alla ricerca delle cime
montuose…
Le otto montagne all’estero. Sei stato tradotto in tantissime
lingue, e stai accompagnando il libro in altrettanti Paesi. Quali sono state le
reazioni dei lettori che più ti hanno colpito? Com’è cambiata la percezione da
Paese a Paese della storia di Pietro e Bruno? Mi racconti un aneddoto buffo?
Un aneddoto buffo riguarda la traduzione. Il romanzo sta
uscendo in 38 lingue di cui la maggior parte mi sono sconosciute, ma almeno due
le posso leggere e così ho visto com’è stato diverso tradurre questa storia in
inglese e in francese. Con la Francia condividiamo le Alpi, il paesaggio di
montagna, la sua cultura, i suoi mestieri, la sua lingua, e il lavoro non è
stato difficile, anzi è stato appassionante vedere somiglianze e differenze,
trovare le parentele. In Inghilterra invece le montagne non ci sono ed è
proprio vero, come diceva Wittgenstein, che i limiti di una lingua sono i
limiti del suo mondo: per esempio non c’è una parola per dire montanaro (mountaineer vuol
dire alpinista e allora abbiamo risolto con eufemismi come mountain
man o man of the mountains né una per dire
alpeggio (è diventato alpine farm o mountain farm).
Si perde molto, nel passaggio: sono le parole di una civiltà, e benché un
lettore inglese possa comprendere la storia non potrà mai capire la cultura da
cui proviene, così come non ha in testa la faccia di un montanaro, l’aspetto di
un alpeggio. Chissà cosa succederà nelle altre 36 lingue… I lettori hanno le
reazioni più diverse: in Olanda il libro sta andando benissimo, ma per loro c’è
un senso di esotismo nel leggere una storia ambientata sulle Alpi; dalla
Francia e dalla Svizzera mi scrivono i figli e i nipoti degli emigrati
valdostani, a volte persone molto anziane a cui il libro ha ricordato certe
lontane estati d’infanzia; in Germania ci sono i più grandi innamorati delle
nostre montagne e i lettori le conoscono per averne percorso i sentieri. Io
vivo tutto questo con stupore e gratitudine. A volte mi sento il veicolo di una
storia più grande di me. Penso sia una gran fortuna quella di fare lo
scrittore.
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