Torino, via Roma, nel giorno in cui la curva di crescita esponenziale del coronavirus e le misure restrittive dell’ultimo (?) Dpcm s’incrociano e precipitano in grumi di rabbia. Le vetrine di Gucci in frantumi, ragazzini giovanissimi con le mani ferite dai frammenti di vetro che arraffano capi firmati e fuggono, a terra manichini denudati e abbandonati come corpi disarticolati. A fianco Vuitton, Hermes, Apple – altre 43 boutiques – assaltate, danneggiate, quando è stato possibile saccheggiate. Sullo sfondo i colpi sordi dei lacrimogeni e quelli secchi dei petardi, un falò di assi di legno e monopattini illumina l’accesso a Piazza Castello.
Sono immagini inimmaginabili, in questa città, in queste strade e piazze
che pure di rivolte e scontri ne hanno visti tanti, nel secolo lungo che ci sta
alle spalle, ma così mai, più simili a un riot metropolitano
americano o a una jacquerie da Grande Sud rurale. Quando alle
10 di quella sera mi hanno telefonato per dirmi di guardare cosa stava
succedendo in centro, e sullo schermo del computer hanno incominciato a
scorrere i video sui social postati da testimoni, ho
incominciato a sfogliare la mia personale memoria dei conflitti radicali
torinesi, da quello, “seminale” dell’agosto ’17 – appreso dai libri – con le
barriere proletarie in rivolta per pane e pace a marciare sul centro borghese
blindato dalla Brigata Sassari; ai “fatti di Piazza Statuto” del ’62, contro il
contratto separato firmato dalla Uil – appresi dalla voce dei protagonisti -, a
Corso Traiano, in occasione dello sciopero generale “per la casa” nel ’69 –
vissuto in prima persona – … senza tuttavia trovare paralleli: quelle erano
tutte rivolte – come dire? – “geometriche”, con polarità nette, con
protagonisti precisi – operai, da una parte, “signori” dall’altra -, con
rivendicazioni chiarissime. E anche quando, negli ultimi anni, alle grandi
rivolte erano succedute le scaramucce, si era nonostante tutto mantenuto quel
certo ordine geometrico della protesta.
Qui, invece, da qualunque parte la si prenda quella giornata tormentata (in
fondo piccola cosa rispetto alla grande storia precedente, ma comunque
indicativa di un clima), ci si imbatte in un frattale, intrico di
contraddizioni, nonsense, eterogeneità ed eterogenesi (dei fini e
dei mezzi), ragioni e sragioni, a cominciare dal paradosso fondamentale: una
protesta nata dalla iniziativa di esercenti e commercianti che finisce con una
strage di vetrine e l’assalto alle merci (totem e tabù della categoria). E
dall’eterogeneità dei protagonisti, ceti di diversa fortuna pur accomunati
dall’appartenenza alla medesima filiera commerciale, ristoratori, pizzaioli,
baristi, un po’ affluenti un po’ proletaroidi, mescolati a adolescenti
incazzati e al pulviscolo sociale che la decomposizione del precedente ordine
produttivo della ex città-fabbrica ha disseminato un po’ovunque. Per non parlare
del nonsense generale: in un orizzonte dominato dal dilagare
di un virus che minaccia di riempire le terapie intensive fino alla
saturazione, una mobilitazione (certo sacrosanta in sé, ma terribilmente
“particolaristica”) per non svuotare i bar e i ristoranti, favorendo nuovi
assembramenti in un contesto in cui l’assembramento è sinonimo di focolaio.
Se un riferimento cinematografico mi è tornato in testa, non è a I
Compagni di Monicelli, pur ambientato a Torino, nemmeno alla scena
drammatica in cui la cavalleria carica e muore Omero, l’apprendista ragazzino,
ma a un film “topograficamente” lontanissimo (l’area desertica al confine
messicano), al Mucchio selvaggio di Sam Peckinpah, e a quella
lunga sequenza iniziale con l’agonia dello scorpione finito su un formicaio che si
pianta l’aculeo nel proprio stesso corpo sotto gli occhi avidi dei bambini… La
sensazione, disperante, che non mi lascia è che anche ora, nella guerra di
tutti contro tutti in cui siamo caduti, ognuno pensando di lottare per la
propria sopravvivenza finisca in realtà per farsi del male accelerando la
propria rovina: per esasperazione del proprio sé, per incapacità di guardare al
gioco d’insieme delle cose, per la rottura dei nessi umani (e logici) che
legano le parti al tutto. Mentre la pandemia colpisce duro, e per alcuni in
modo mortale, ogni categoria, e dentro a ogni categoria ogni individuo, lavora
per salvarsi rimuovendo il rischio generale e cercando soluzioni particolari al
proprio immediato destino. E’ a ben guardare la rappresentazione visibile della
logica “di sistema” che ha dominato lo scenario economico e sociale degli
ultimi decenni, messa in situazione ora sul piano del bios, con
esiti letali. La notte torinese ne è un esempio in vitro.
Lo so benissimo che si è tentati di liquidare tutto questo con le categorie
immediate del nemico politico e dell’indagine giudiziaria: tagliando corto e
concludendo che in azione erano i nostri storici nemici, frange fasciste
infiltrate nel tifo calcistico, gruppetti di ultras e di microcriminali di
quartiere, un po’ come, simmetricamente, sul fronte dell’estrema destra si
indicano come colpevoli centri sociali e stranieri (guardatevi l’osceno sito di Vox). Ma sarebbe una scorciatoia (una dimostrazione di
quella “amnesia interpretativa” di cui parla Donatella Di Cesari nel suo
recente libro su Il tempo della rivolta). Sotto il tappeto di vetri
infranti di Gucci e di Geox preme e cova un serbatoio di benzina sociale, di
frustrazione e risentimento, caduta di prospettiva e assenza di speranze, che
sono cresciute sotto traccia non nei mesi della pandemia ma nei decenni del
declino urbano, della morte sociale delle barriere e delle periferie, nella
decomposizione dei gruppi sociali e famigliari. Gli adolescenti con i cappucci
dei felponi sulla testa a oscurare l’identità erano gli stessi che nei sabati
normali calano per lo struscio in centro, a guardare nelle vetrine gli oggetti
del desiderio che non si potranno mai permettere, prigionieri della retorica
del consumo opulento (“sei quel che indossi”) che è diventata l’unico
metalinguaggio interclassisticamente distribuito che la comunicazione “di
sistema” offre oggi al caleidoscopio sociale. Non che mancassero tra loro
gli hooligans da stadio (alcuni dei fermati sono ultras di
Juve e Toro) o qualche piccolo pregiudicato (il minorenne egiziano preso con in
mano il sacco con alcuni oggetti razziati, su cui la destra fascista suona la
grancassa per sostenere che i saccheggiatori erano “tutti immigrati”). Ma la
“cifra” dei fatti del 26 ottobre non è né politica (o politicista) né
giudiziaria, quanto piuttosto antropologica e sociale.
Così come antropologica e sociale è la chiave di lettura dell’”altra
piazza”, quella che non ha partecipato ai saccheggi (trovandosi
psicologicamente più dalla parte dei saccheggiati: commercianti, esercenti) ma
che di quella coda violenta ha costituito l’antefatto e in qualche misura il
contesto e l’occasione: anch’essa opaca, seppur a viso scoperto, miscuglio
eterogeneo di figure sociali anche molto diverse tra loro, fisicamente contigue
ben oltre i limiti spaziali del distanziamento, accalcate fianco a fianco ma
lontane miglia e miglia per reddito, status e posizione, distribuite sul piano
inclinato della collocazione sociale ad altezze diverse tra i gran signori
titolari dei ristoranti esclusivi del centro che hanno appena investito decine
di migliaia di euro nei dehors espansi e i proletaroidi dei
barucci di periferia già massacrati dallo smartworking dei
clienti abituali.
Li accomunava una sorta di “apocalittica del mercato”: il senso di “fine
possibile” e imminente di una condizione scopertasi, anche nelle figure più
privilegiate, precaria, fragile, perché fragile, fragilissimo, è il contesto di
“sistema” in cui si è inseriti, il modello economico a flusso teso e a tempo
corto o cortissimo, privo di accumulazione reale, tanto flessibile e liquido da
poter rapidamente diventare gassoso, per cui una chiusura estesa diqualche
settimane significa la cassazione definitiva dell’attività. E, corollario di
ciò, una radicalità condivisa del linguaggio e del sentire, l’estremismo dei
moderati e dei disperati (veri o presunti) con la ricerca del nemico immediato
(il governo, il decisore pubblico) e della soluzione certa: salvare se stessi,
costi quel che costi per tutto ciò che sta intorno. Tenere aperti i locali
anche a costo di chiudere per saturazione terapie intensive e pronto-soccorsi.
Tutti uniti intorno all’unico totem politico reperibile in piazza,
quell’immancabile Mino Giachino che fu già tutore delle madamine e
che ora si offre ai ristoratori. Ma in realtà tutti diversi, perché se i primi,
i piani nobili di quella Piazza Vittorio in cui si erano dati appuntamento,
avevano tratti somatici e conti in banca analoghi a quelli delle madamine,
gli altri, i piani bassi sembravano in qualche misura più vicini, per
abbigliamento, sguardo, stato d’animo, provenienza topografica (quelle stesse
periferie dove il virus nella prima ondata aveva picchiato duro, molto più duro
che nella ZTL e in Borgo Po) a quelli che in Piazza Castello si preparavano
al riot… Magie di una città che dall’ortogonalità geometrica del
passato si è fatta, appunto, frattale (e fratta).
Ora, è indubbio che dietro questo soprassalto di radicalità ci sono errori,
in molti casi imperdonabili, dei decisori pubblici, del Governo in primo luogo,
e delle Regioni: ritardi incomprensibili (nella gestione dei trasporti, nel
mancato raccordo con la Pubblica istruzione, nella trascuratezza della medicina
di territorio). E la sensazione conseguente che i sacrifici chiesti siano oltre
che costosi inutili. Che i nonsense nella gestione dall’alto
si riflettano e si moltiplichino nei nonsense in basso. Tutto
vero. Così come è vero che a questo miscuglio sociale ed esistenziale che si
materializza tra le pieghe della pandemia ma che è il prodotto di alcuni
decenni di socio-patia acuta, riesce meglio a “parlare” la neo-destra che in
quegli stessi decenni si è radicata ed è cresciuta, con la sua capacità di
titillare l’individualismo acquisitivo e predatorio della neo-imprenditorialità
pulviscolare, gli egoismi e gli egotismi diffusi, il rifiuto del pensiero
complesso e il ricorso all’eterno espediente della ricerca del capro
espiatorio, l’assolutizzazione dei particolari e dei particolarismi ricondotti
poi a unità dalla funzione terminale del Capo. Mentre, soprattutto nel momento
della lotta per la sopravvivenza e del si salvi chi può, le nostre
argomentazioni incentrate su solidarietà, cooperazione dolce, mutuo aiuto,
giustizia sociale, trovano barriere potenti all’ascolto. Quando “non c’è più
tempo” (o si crede che non ce ne sia più) sono le voci dei peggiori a penetrare
negli orecchi. Ma non è una buona ragione per rinunciare anche noi al pensiero
complesso e allo sguardo lungo. Soprattutto per non cogliere nei fatti la
“lezione” che possono offrirci, a saperli leggere, anziché liquidarli con
giudizi affrettati.
E la lezione, per quando mi riguarda, è la centralità della connessione. La
necessità di imparare a ragionare sulla relazione tra le cose, i fatti, le
situazioni, le persone, superando quell’”arte della separazione” che appartiene
all’ideologia dominante e che tanti guasti ha prodotto.
https://volerelaluna.it/commenti/2020/10/30/la-rivolta-dottobre-dietro-le-vetrine-di-gucci/
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