Sappiamo bene di mezzi di comunicazione e prodotti occidentali vietati o censurati in Cina. Siamo molto meno abituati, invece, al fatto che a subire l’effetto della propaganda e della censura cinese siano i media presenti nelle nostre case. Eppure accade. Nell’ultimo anno le ritorsioni di Pechino hanno colpito la NBA, costretta a prendere le distanze dalle dichiarazioni del Direttore generale degli Houston Rockets a supporto delle proteste di Hong Kong e ad allontanare alcuni tifosi dai campi da gioco americani per lo stesso motivo. In seguito sono state colpite le principali testate internazionali e il portale enciclopedico più letto al mondo, Wikipedia, il quale dopo essere stato “bannato” per aver infranto il “principio dell’Unica Cina” ora si ritrova con numerosi contenuti sulla questione taiwanese modificati in chiave filo-cinese, con narrazioni che tentano di entrare a pieno titolo anche nei nostri quotidiani e in tutti i canali adatti ad influenzare l’opinione pubblica, dai media tradizionali alle app e i social più recenti.
L’influenza cinese sui media internazionali ed europei
Secondo uno studio del 2018 realizzato dalla Merics di Berlino, gli accordi tra China Daily,
quotidiano del partito in lingua inglese, e i principali media internazionali
ed europei – come The New York Times, The Los
Angeles Times, The Washington Post, Sydney Morning,
il francese Le Figaro, il tedesco Handelsblatt, lo
spagnolo El Pais, i belga De Standaard e Le
Soir – stanno erodendo la libertà di stampa e la deontologia
professionale con contenuti “pubbliredazionali”, ovvero pubblicità commerciali
o propagandistiche mascherate da articoli giornalistici. Ad oggi sono oltre
30 le testate internazionali che hanno stretto accordi
con il quotidiano cinese per la diffusione all’interno dei propri giornali
dell’inserto finanziato dal governo “China Watch”.
Recenti report evidenziano come dal 2016, China Daily abbia speso
circa €16,3 milioni per aumentare la propria influenza negli Usa, ma già dal 2009 l’ex
Presidente Hu Jintao ha dichiarato di voler investire 5,6 miliardi di euro per
rafforzare la presenza mediatica globale del paese. Esemplare è il caso
del Telegraph, che nel 2011 fu il primo media europeo a
sottoscrivere un accordo da 800mila euro l’anno volto a diffondere mensilmente
China Watch, per poi ritrovarsi nella spiacevole situazione di promuovere
titoli propagandistici e grotteschi come “Xi elogia i membri del Partito
comunista” o “Quarant’anni di brillanti successi nel Tibet”. Ora il Telegraph
sta eliminando questi contenuti, ma per rinunciare all’accordo diffonderà
maggiori pubblicità del governo cinese sui propri canali.
Non solo China Daily: l’apparato di propaganda internazionale cinese
coinvolge numerosi mass media del paese. Uno di questi è l’agenzia di stampa
Xinhua, la quale oltre a stringere collaborazioni con testate straniere,
finanzia editoriali ed inserti all’interno di altri media, come nel caso delle
Paralimpiadi con il quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung. A parte
accordi e sponsorizzazioni, sono stati numerosi anche i tentativi di Pechino e
delle sue corporazioni di acquistare direttamente importanti riviste americane
come Newsweek (2010) e Forbes (2017).
In Europa, ci hanno provato nel 2009 con il canale
inglese Propeller TV, ma al momento il più grande investimento riguarda l’acquisizione
della Central
European Media Enterprises (CEME) da parte del gruppo
energetico cinese CEFC. La CEME opera prevalentemente in Bulgaria, Romania,
Slovacchia e Repubblica Ceca.
Ad oggi sono oltre trenta le testate internazionali che hanno stretto
accordi per la diffusione all’interno dei propri giornali dell’inserto
finanziato dal governo “China Watch”.
Nel resto del mondo la situazione non è molto differente. Nel Sud Est
Pacifico, in Thailandia, dozzine di
testate in crisi economica sono sempre più dipendenti dai
finanziamenti cinesi, e dal 2019 sono entrate a far parte del programma
“ASEAN-China Year of Media Exchanges”. Tuttavia, secondo il resoconto
pubblicato nel 2018 da Reporter Sans Frontiers (RSF) dal titolo “La ricerca
cinese di un Nuovo Ordine Mediatico Mondiale”, sarebbe l’Africa il continente
in cui i cinesi sono stati più attivi nell’ultimo decennio.
La Xinhua è senza dubbio il media cinese più influente nel continente,
soprattutto in Ghana, Sud Africa e Kenya. In Kenya essa pubblica i propri
contenuti in lingua inglese sul The Daily Nation, il quotidiano
più letto del paese, mentre nelle radiotelevisioni è comune incorrere in nei
contenuti promossi dal China Media Group (CMG, Compagnia media statale nata il
21 marzo 2018 dall’unione di China Central Television, China National Radio, e
China Radio International), in particolare tramite l’emittente che hanno
fondato nel 2012, la CGTN Africa.
L’influenza cinese sui media italiani
Una simile situazione “geomediatica” espone ovviamente anche l’Italia, in cui
le intese per la Nuova Via della Seta con la sigla del Memorandum of
Understanding (MoU) avvenuta il 20 Marzo 2019, hanno già portato a rinnovare le
collaborazioni con Agi e Class Editori (Milano Finanza, ItaliaOggi, Cnbc)
e instaurare
nuovi accordi tra media nostrani e media di stato cinesi. Rai, Mediaset
& Class Editori si sono accordati con il CMG, mentre l’Ansa e il Sole
24 Ore hanno legato con le proprie controparti cinesi, rispettivamente
con l’agenzia Xinhua e con il China Economic Daily.
Il 21 marzo 2019, per il primo compleanno della CMG e in occasione della
visita del Presidente Xi, Rai, Mediaset e Class Editori hanno realizzato
la “Settimana della Tv cinese”, nella quale sono stati trasmessi decine di
lungometraggi e serie tv accuratamente
selezionate dai media di stato mandarini, tra cui Citazioni
Letterarie del presidente Xi Jinping. Un anno dopo, come indagato
da Formiche.net, durante la pandemia del marzo 2020 i 7 canali RAI hanno dedicato 63
segmenti agli aiuti di stato cinesi, russi e americani. I cinesi hanno avuto
tre volte più spazio nella cronaca, con 1904 secondi di visibilità, contro i
741 russi e i 589 americani. Nello stesso mese la CMG, nota anche come “La Voce
della Cina”, ha distribuito gratuitamente a tutto il Parlamento italiano delle
copie della propria rivista Cinitalia.
Da qualche tempo, rispetto agli altri paesi europei, l’Italia è sembrata
più predisposta all’apertura cinese.
In Italia non abbiamo il China Watch, ma in compenso in seguito alla
collaborazione con l’Economic Daily, anche il Sole 24 Ore ha
iniziato a pubblicare su cartaceo e digitale l’inserto “Focus China”, in cui
basta un rapido sguardo per cogliere la linea editoriale, totalmente volta a
promuovere un’immagine positiva della Cina e dei rapporti sino-italiani, con
titoli come: “L’economia
cinese cerca il progresso nella stabilità: prospettiva luminosa per la
cooperazione italo-cinese”. Una formulazione che anche il più sprovveduto
dei sinologi noterebbe essere tradotta letteralmente dal mandarino. A
differenza del Telegraph, non sappiamo a quanto ammonti la contropartita per il
quotidiano di Confindustria, in quanto la gran parte dei dettagli relativi agli
accordi presi sono secretati.
Lo stesso vale per l’Ansa, la quale ha concordato con la Xinhua di
diffondere esclusivamente i suoi contenuti tradotti in lingua italiana. Come anche
riportato da Nicola Casarini dell’Istituto Affari Internazionali, nonostante
l’Ansa abbia definito la Xinhua solo come “la principale agenzia di stampa
cinese”, la subordinazione di quest’ultima al governo di Pechino è risaputa:
rappresenta uno dei principali organi di informazione e propaganda domestica e
internazionale.
Oltre ai contenuti “pubbliredazionali”, nell’ultimo anno non sono
mancate anche le fake news, come il video bufala postato dalla portavoce
del Ministro degli Esteri cinese Hua Chunying in cui si fa credere che gli
italiani abbiano intonato l’inno cinese e urlato “Grazie Cina” in seguito agli
aiuti ricevuti da Pechino durante la pandemia. Da qualche tempo, rispetto agli
altri paesi europei, l’Italia è sembrata più predisposta all’apertura cinese.
Risulta abbastanza evidente come, in seguito al MoU, la percezione degli
italiani nei confronti dei cinesi sia radicalmente mutata in pochi mesi. Lo si
legge nel sondaggio
di aprile 2020 realizzato da SWG, in cui nel gradimento popolare
la Cina supera gli Stati Uniti in quanto “paese amico” e “futuro alleato” del
Bel Paese. Lo stesso è stato registrato
tra americani, tedeschi e francesi, i quali hanno raddoppiato
la propria attrazione per Pechino nei mesi del lockdown.
La recente crescita della propaganda cinese in patria e nel mondo
La Cina vanta l’impianto censorio più sviluppato della storia, con oltre 2
milioni di poliziotti del web che affiancano gli
elaborati algoritmi alla base della Grande Muraglia Digitale. I cinesi non sono
dunque nuovi alla repressione mediatica, ma possiamo affermare che dal 2012,
sotto la guida del presidente Xi, l’approccio al sistema informativo sia
divenuto più autoritario, imponendo una linea maggiormente espansiva sul piano
internazionale e, secondo
Freedom House, ogni anno più restrittiva nei confronti degli utenti internet. Lo stesso
viene segnalato da RSF, per il quale la Cina risulta in 177° posizione su
180 nazioni nella classifica
sulla libertà di stampa 2019.
Sotto la guida del presidente Xi, l’approccio al sistema informativo è
diventato più autoritario, imponendo una linea maggiormente espansiva sul piano
internazionale.
Poco dopo aver estromesso Wikipedia, nella primavera dello scorso anno è
toccato all’Independent, poi allo Spiegel, al Guardian,
al Washington Post, all’HuffPost e
a molti altri
media di caratura internazionale. È stata avviata una campagna
nazionale per mettere
in guardia dai valori occidentali sulla stampa, nelle
università e nelle scuole, ed era solo questione di tempo prima che gli
ingegneri della censura virtuale arrivassero a realizzare attacchi
informatici per influenzare processi elettorali o, più
subdolamente, condizionare le app e i social di fattura cinese per mantenere il
controllo della propaganda in patria e all’estero.
Le prime interferenze governative riscontrate su Wechat — il “Whatsapp con
caratteristiche cinesi” — risalgono al 2013, con la
censura dei post e delle chat contenenti le parole “Falun Gong” (法轮功) e “Southern Weekend” (南方周末). Il caso di
WeChat è stato un po’ l’apripista e il banco di prova per l’avvento della
propaganda cinese sul piano internazionale, essendo l’app della Tencent
utilizzata da più di un miliardo di utenti in tutto il mondo.
Oggi, nuovi
report mostrano come essa sia in grado di bloccare in continuazione contenuti
sensibili a Pechino in tutto il mondo, tra cui le proteste
di Hong Kong o la stessa diffusione della pandemia, a partire dalle parole “Li
Wenliang”, nome del medico che fu censurato nel dare l’allarme COVID-19 e che
morì poco dopo aver contratto il virus. Durante il lockdown, secondo Masashi
Crete-Nishihata del Citizen
Lab dell’Università di Toronto, “la portata della censura sui
contenuti è andata oltre ogni aspettativa, includendo persino informazioni
sanitarie generiche come il fatto che il virus si diffonda tramite contatto
umano”. I ricercatori hanno comprovato la censura di 132 combinazioni di parole
a gennaio e ben 516 a febbraio.
Di recente, azioni simili hanno iniziato a
intravedersi anche su Zoom — con la censura di un meeting online
sulla commemorazione di Tiananmen — e su TikTok. Qui sono
scomparsi diversi contenuti sensibili, da Hong Kong al Tibet, fino
alle critiche al presidente russo Vladimir
Putin e agli hashtag in diverse lingue legati al movimento LGBTQ+.
L’informazione è uno dei tre pilastri fondamentali designati dal presidente
per contrastare le narrazioni occidentali, ringiovanire il paese e riacquistare
l’egemonia culturale.
Secondo l’accademico Yan Xuetong, la strategia di Xi Jinping è basata
sull’abbandono del basso profilo per iniziare a imporre sull’arena
internazionale i valori della società cinese contemporanea. L’informazione è
uno dei tre pilastri fondamentali designati dal presidente per contrastare le
stringenti narrazioni occidentali, ringiovanire il paese, riacquistare la
propria egemonia culturale e dar vita al Nuovo Sogno Cinese. La nascita della
CMG dalla fusione dei tre più grandi emittenti cinesi internazionali ne
rappresenta un tassello fondamentale.
È però la Nuova Via della Seta il principale mezzo con il quale si
ambisce a tale obiettivo, andando a connettere i continenti e influire sulla
regione Euroasiatica come mai prima. Il problema è che la propaganda e la
censura sono insite in ogni accordo diplomatico cinese. Per esempio, un
requisito fondamentale per trattare con la Repubblica Popolare è accordarsi
sul “principio
dell’Unica Cina”, riconosciuto da oltre 170 paesi su 195, per il quale il contraente si
impegna a non riconoscere l’indipendenza dell’isola di Taiwan come se essa
fosse effettivamente sotto il controllo di Pechino.
Taiwan, Tiananmen, il dissidente Premio Nobel Liu Xiaobo, il Tibet, le
minoranze, gli abusi nei campi di lavoro e rieducazione dello Xinjiang, e più
in generale, l’intero tema dei diritti umani, sono tutti argomenti tabù per
qualsiasi realtà pubblica o privata che intenda instaurare un rapporto proficuo
con il governo cinese. In caso contrario le ritorsioni possono andare dal
recesso del contratto, fino alla censura e al boicotaggio.
Le reazioni della comunità internazionale e dei governi nazionali
Negli ultimi anni, all’interno della comunità internazionale, la Cina è divenuta
membro del Consiglio Onu sui diritti umani, ha rettificato numerosi trattati
sulla questione e ha posto diversi diplomatici mandarini in posizioni di
rilievo. Secondo il
recentissimo studio di Sophie Richardson, China Director dello Human
Right Watch, la Repubblica Popolare tenta da anni e sempre con maggiore
influenza “di riscrivere le norme e manipolare le procedure internazionali, non
solo per minimizzare i controlli sulla condotta del governo cinese, ma per
garantire lo stesso trattamento a tutti gli altri governi”. Secondo la
ricercatrice, iniziative come la Nuova Via della Seta e l’Asian Infrastructure
Investment Bank, sono progetti che hanno il chiaro scopo di “sfruttare
l’apertura dei paesi democratici per imporre una nuova visione globale e
silenziare le critiche”.
Taiwan, Tiananmen, il Tibet, le minoranze e in generale i diritti umani,
sono tutti argomenti tabù per qualsiasi realtà pubblica o privata che intenda
instaurare un rapporto proficuo con il governo cinese.
Un’accusa che trova sponda nel fatto che — nonostante le palesi violazioni
e restrizioni della libertà di pensiero e stampa dei cinesi, e nonostante
questi stessi valori siano alla base della Dichiarazione Universale dei Diritti
Umani e delle stesse Nazioni Unite — nel triennio 2017-19 l’Assemblea Generale
dell’Onu abbia sancito zero risoluzioni di condanna nei confronti dell’operato
di Pechino. I governi si stanno dunque muovendo indipendentemente.
Gli Stati Uniti di Trump sono in aperta guerra commerciale con la Cina,
promuovono una campagna
mondiale contro Huawei e ora si apprestano
a bannare TikTok e i prodotti Tencent, primo fra tutti WeChat, con
l’accusa di essere asservite a Pechino, di censurare contenuti e di influenzare
le elezioni. In Europa invece, nel 2018, 27 dei 28
ambasciatori Ue a Pechino hanno siglato un report in cui
criticavano e mettevano in guardia l’Unione rispetto alle iniziative della
Nuova Via della Seta. Secondo il report, l’iniziativa andrebbe a minacciare il
commercio europeo e sposterebbe la bilancia del potere in favore della Cina e
delle sue corporazioni mediatiche statali e multinazionali. Secondo invece i
report interni di Pechino diffusi da Reuter e il Carnegie Center, oggi il
sentimento globale anti-cinese è ai livelli della
repressione delle proteste di piazza Tiananmen del 1989. A tal proposito, la
Gran Bretagna ha proposto la creazione del D10, una nuova orbita democratica
composta dai paesi G7 più Australia, India e Corea del Sud.
Questo non significa che la situazione deontologica, mediatica e
informatica sia migliore in Occidente, tra digital divide, sovraccarichi
cognitivi dovuti ad alti tassi di contenuti assimilati quotidianamente,
difficoltà dei media moderni a reagire alla rivoluzione digitale, influenza dei
social occidentali sulle elezioni, o fenomeni come Cambridge Analytica. Una
questione che esalta il dilemma dei Big data, tra chi si chiede se la nostra
enorme mole di dati sensibili debba appartenere ai privati o al pubblico, e
come debba essere regolata la sua gestione in maniera maggiormente etica,
democratica e trasparente. Se, tuttavia, oggi è già fondamentale che il mondo
prenda provvedimenti contro chi altera la realtà accedendo a dati sensibili e
manipolando le informazioni, a maggior ragione è importante impedire che si
possa persino tornare indietro a quando non era necessario manipolare i dati
per alternare la realtà, perché bastava semplicemente strozzare le voci di
coloro che tentavano di diffonderli.
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