Vale la pena di leggere o rileggere, in questi nostri incerti e angoscianti mesi, quello che è forse il più bel libro tra i tanti che hanno trattato di epidemie e pandemie, il Diario dell'anno della peste di Daniel Defoe.
Secondo Elio Vittorini che ne promosse
la traduzione presso Bompiani nei primi anni Quaranta dello scorso secolo, in
tempo di guerra, si tratta del miglior libro di uno dei creatori della
letteratura moderna insieme a Cervantes. Le due e contrapponibili creazioni
del Don Chisciotte (1605 e 1615) e,
un secolo dopo, del Robinson Crusoe (1719) sono alla
base di una tradizione che non accenna a spegnersi, la prima quella del rifiuto
dell'accettazione della realtà, del mondo così come si presenta all'esperienza
concreta di ogni vissuto in nome di un mondo ideale e sognato, e la seconda
quella che Marx ha chiamato, pensando proprio a Robinson, dell'homo
oeconomicus, le cui azioni sono pressate dalla necessità, e obbligano alla
elaborazione personale e di gruppo – e diversa per collocazione geografica o
storica e per appartenenza a questo o a quel ceto sociale – di un' “arte della
sopravvivenza”.
Un vivido resoconto della peste di Londra del 1665, redatto dallo scrittore
che aveva assistito alla grande tragedia ancora bambino.
Peraltro, questa distinzione vale anche per i grandi personaggi femminili
della storia della letteratura, per esempio per Madame Bovary di Gustave
Flaubert come versione moderna del Don Chisciotte, e Moll Flanders,
formidabile protagonista dell'omonimo romanzo, anche questo di Defoe, che mise
ancora una donna a protagonista di un suo romanzo, Lady Roxana, con
una partecipazione e una lucidità non inferiori a quelle da lui riservate ai
personaggi maschili.
Il Diario dell'anno della peste non è un romanzo, anche se
ne ha l'ampiezza e profondità, e si presenta come una cronaca diretta degli
avvenimenti che sconvolsero Londra nel 1665 (la violentissima pestilenza che vi
esplose trentacinque anni dopo quella di Milano, evocata e descritta a distanza
di più di due secoli da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi). Ma nel 1665 il nostro
Defoe aveva solo cinque anni, e fingere di essere quotidiano spettatore di
quella tragedia è di fatto un procedimento che diverrà abituale nella storia
del romanzo, anche se un grande pregio del Diario è anche
quello di essere una sorta di inchiesta retrospettiva, basata su documenti e su
interviste come accadrà poi in tanti libri a venire, e a partire da ricordi
altrui ben più che dai propri. Anche per questo il Diario è un
grande libro su un grande evento, tanto appassionante quanto attendibile, e
questo spiega il suo successo negli anni e nei secoli e anche la sua odierna
attualità.
Sì, il presunto Diario di Defoe ha avuto molto da
insegnare a chi ha cercato di raccontare la peste e simili cataclismi, Manzoni
compreso, Camus compreso. Ma
ha avuto anche molto da insegnare a tanta letteratura avvenirista e a tanta
letteratura, diciamo così, catastrofista di ieri come di tempi recenti.
Soprattutto ha avuto da insegnare la parte del “diario” che riguarda la fuga da
Londra di tre compari, e non è un caso che siano stati gli scrittori inglesi
dalla fine dell'Ottocento in avanti ad aver saputo approfittare meglio della
sua lezione. Soprattutto, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale,
gli autori inglesi della science fiction o fantascienza, un
genere letterario che si è imposto, soppiantando la detection (investigazione
su un delitto: il whodunit?, il “chi è stato?” e il “come è
accaduto?” genialmente teorizzati ed evocati in cinema da Alfred Hitchcock). La
risposa ai “whodunit?” è, in tante opere, sempre la stessa: l'Uomo, e la sua
ossessione di un incondizionato Sviluppo.
Orano è colpita da un'epidemia inesorabile e tremenda. Isolata, affamata,
incapace di fermare la pestilenza, la città diventa il palcoscenico e il
vetrino da laboratorio per le passioni di un'umanità al limite tra
disgregazione e solidarietà.
Rispetto alla fantascienza americana, più libera nell'invenzione e più
fantasiosa, quella inglese è partita davvero dal “possibile” e dalle sue
“meraviglie” buone o nefaste, e soprattutto dalle nefaste che la storia
potrebbe riservarci in un futuro più o meno prossimo, ma non si è mai
allontanata troppo dalla realtà (dal “possibile”) neanche quando ha scritto di
avvenimenti molto in avanti nel tempo e si è addentrata in un futuro davvero
lontano. È questo odore di realtà a fare il pregio, a partire da quelli
di H. G. Wells, dei grandi libri di
fantascienza scritti dal grandissimo James G. Ballard su sciagure
naturali, su rivolte della natura (Vento dal nulla, Deserto
d'acqua...) o su esplosioni demografiche e metropolizzazione del pianeta (Il condominio) e scatenamento delle
macchine (anche nel senso di automobili, leggi Crash) e, su suggestioni decisamente “alla Defoe” nel
racconto di una traversata degli Usa da parte di un minuscolo gruppo di
sopravvissuti, in Ultime notizie dall'America, del 1981, titolo
originale Hello, America. A Ballard anche la
critica più spocchiosa ha dovuto concedere l'attenzione e il rispetto che
meritava quando uscì il suo bellissimo romanzo L'impero del sole. Era catastrofico
anche quello ma molto realistico, e raccontava la sua esperienza diretta di una
catastrofe collettiva, storica e non naturale, quale egli visse da bambino,
figlio di diplomatici inglesi che si perde nella Shanghai invasa dai giapponesi
durante la seconda mondiale.
Da quel romanzo fortemente autobiografico trasse un film molto bello Steven
Spielberg, il suo migliore insieme alle favole di E. T. e
di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Ma splendidi romanzi
di fantascienza catastrofico-realistica scrissero anche altri, in Inghilterra.
Per esempio John Christopher con Morte dell'erba, narrando ancora una fuga da Londra
quando vi arriva un'epidemia del mondo vegetale, di ogni tipo di vegetale,
partita dalla Cina. Vi si narra di un piccolo gruppo di persone che cerca,
attraversando la grande isola, di raggiungere l'immune e vivibile Scozia. E per
esempio John Wyndham, più coerente e dotato: uno dei suoi più noti romanzi è
stato Il giorno dei Trifidi, che servì probabilmete di ispirazione
al premio Nobel portoghese José Saramago per Cecità. Vi si narrava la fuga
da Londra di un gruppo di persone colpite, come tutti gli inglesi, da
improvvisa cecità al momento dello sbarco sull'isola di invasori da un altro
pianeta. Il più recente ritorno al “modello Defoe” (ma certamente ce ne sono
stati altri) lo si ritrova in un romanzo statunitense di grande successo, La strada di Cormac
McCarthy, che ha anche per modello (non dichiarato) il romanzo di Ballard sugli
Usa.
Pubblicato per la prima volta nel 1956, La morte dell’erba è diventato da
allora un classico imperdibile della narrativa, superando di gran lunga i
ristretti confini del genere e della fantascienza.
Con le citazioni e i rimandi si potrebbe giostrare ancora per molto, per
esempio ricordando la persistente fascinazione di tanti scrittori per epidemie,
catastrofi, terremoti, incendi, alluvioni, esplosioni vulcaniche, invasioni di
animali con la variante degli animali mutanti e dei mostri post-atomici. Ma non
si possono dimenticare i tanti libri sui disastri calcolati e programmati come
quello di Auschwitz e dei gulag perfettamente politici e di altre Hiroshima. Su
Hiroshima in particolare si legga il grande reportage di John Hersey sui
sopravvissuti, intitolato appunto Hiroshima. E per capire le molte
Chernobyl recenti si parta da quella fondamentale, come raccontata
nel grande reportage di Svetlana Aleksievic, intitolato Preghiera per Chernobyl.
Mancano ancora, mi pare, un grande libro o un grande film che pongano di
fronte noi ipocriti lettori e spettatori alla ribellione della natura contro il
genere umano che l'ha aggredita e violentata in nome di un insensato ed
egoistico sviluppo, mancano opere forti e degne che svelino e condannino le
follie provocate dalle ideologie di quelle “magnifiche sorti e progressive”,
che già denunciò il nostro maggior poeta e filosofo moderno, Giacomo Leopardi,
in La
ginestra.
Ci sono grandi saggisti ad aiutarci, a
costringerci a ripensare alle colpe dell'uomo e alla nostra insensata voluttà
dell'aver tutto che potrebbe assai presto portarci al niente, mentre sono pochi
i romanzi, i film. E c'è però da temere che, dopo la pandemia del virus, tanti
sconsiderati e superficiali scrittori possano dilettarsi e aspirare a
dilettarci in modi superficiali raccontandoci cosa ci può ancora accadere se ci
si ostina nella facile illusione che, nonostante tutti i guai che ha combinato,
l'Uomo possa pur sempre farcela. Sono stati e sono tanti gli avvertimenti che
la Natura ci ha mandato e ci manda, ricordandoci un Dies Irae che è forse molto
più vicino di quanto i potenti (i primi responsabili di ogni disastro) non
vogliano farci credere.
Goffredo
Fofi (1937) è scrittore,
attivista, giornalista e critico cinematografico, letterario e teatrale. Dopo
aver contribuito alla nascita di storiche riviste quali i Quaderni piacentini,
Ombre rosse e Lo straniero, attualmente si occupa degli Asini.
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