Cosa resta della crisi del teatro Dubrovka - Graziano Graziani
Mosca è, tra le altre cose, una città dei teatri.
Alcuni dei quali con una mitologia ampia e precisa, incastonati indelebilmente
nell’immaginario mondiale, come il Bol’šoj o come il Teatro d’arte di Mosca,
fondato nel 1898 da Stanislavskij e subito divenuto epicentro di una delle più
importanti pagine artistiche dell’arte scenica. In tempi più recenti, tuttavia,
lo spazio teatrale che maggiormente ha segnato l’immaginario internazionale ha
purtroppo poco a che vedere con l’arte in senso stretto, perché si tratta del
luogo di uno dei peggiori attentati avvenuti nella capitale russa: il teatro
Dubrovka.
La crisi del teatro Dubrovka cominciò la sera del 23
ottobre del 2002, quando un gruppo di separatisti ceceni prese in ostaggio gli
850 spettatori in sala quella sera, facendo irruzione tra il primo e il secondo
atto dello spettacolo. L’azione, che nell’intento del commando doveva servire a
ottenere il ritiro immediato e senza condizioni delle truppe russe dalla Cecenia, martoriata dalle devastazioni del
secondo conflitto che vedeva la superpotenza e la piccola repubblica caucasica
fronteggiarsi nuovamente, si caratterizzò da subito come un’azione disperata e
venne seguita con apprensione dalle televisioni di tutto il mondo. Il sequestro
si concluse tre giorni più tardi, il 26 ottobre, in seguito all’intervento
delle forze speciali russe e registrando un bilancio pesantissimo:
centosettanta morti, per la precisione centotrentuno ostaggi e trentanove
miliziani, ai quali vanno aggiunti le settecento persone rimaste ferite in modo
più o meno grave, principalmente a causa del gas utilizzato dalle forze
speciali.
La crisi del teatro Dubrovka segna, sul fronte
orientale, l’abbraccio tra terrorismo e spettacolarità che aveva aperto il
nuovo secolo – l’attentato alle Torri Gemelle, a New York, è di soli tredici
mesi prima. È singolare, da questo punto di vista, che sia avvenuto proprio in
una sala teatrale, e cioè in una dimensione nella quale è possibile immaginare
sé stessi con estrema facilità e in modo più puntuale di quanto sia possibile
nei non-luoghi affollati (metropolitane, treni, aeroporti, centri commerciali)
ma di passaggio fugace, in cui si colloca, solitamente, la possibilità più o
meno remota del rischio di finire vittima di un attentato. Nella sala teatrale
si è compiutamente spettatori del gesto terroristico che si definisce come
gesto spettacolare, ed è per questo motivo che il sequestro avvenuto al
Drubrovka si è da subito fissato nell’immaginario collettivo in modo potente. E
questo nonostante si sia trattato di un evento assai meno visibile – perché
avvenuto al chiuso – dell’11 settembre, e certamente molto meno “disastroso”,
non soltanto perché ha coinvolto un numero di persone più contenuto, ma
soprattutto perché, in un certo senso, era stato concepito secondo una modalità
ancora novecentesca, e cioè attraverso l’organizzazione di un sequestro
finalizzato a una trattativa.
La crisi del Dubrovka, tuttavia, si verificò in uno
dei picchi di massima tensione tra ceceni e russi, un momento in cui gli animi
erano fortemente esasperati e ben oltre il limite della sopportazione. Si
spiegano forse così alcuni episodi difficili da inquadrare, come l’irruzione
all’interno del teatro di Olga Romanova, la prima vittima di questa crisi.
Olga, una ragazza di venticinque anni, verso l’una e mezzo di notte riuscì in
qualche modo a superare il cordone della polizia e a entrare nel teatro,
raggiungendo l’area dove erano tenuti gli ostaggi. Una volta dentro si mise a
urlare, nel tentativo di incitare i sequestrati a ribellarsi ai sequestratori,
ma fu raggiunta da un miliziano ceceno che, scambiandola per una spia, la
uccise sul colpo. Fu la prima vittima della crisi, una crisi che si stava
delineando come il peggior attacco terroristico della crisi russo-cecena (fu
superato solo nel 2004 dalla strage di Beslan, che però avvenne ben più
lontano, in un paese dell’Ossezia del nord, anziché nel cuore di Mosca).
La crisi del Dubrovka si verificò in uno dei picchi di
massima tensione tra ceceni e russi, un momento in cui gli animi erano
fortemente esasperati e ben oltre il limite della sopportazione.
Cosa resta oggi di quell’evento? A dire il vero ben
poco. Di fronte al luogo dove si consumò la strage è stato eretto un monumento,
mentre un memoriale dedicato alle vittime è stato realizzato sulla parete
dell’edificio. Nonostante la realizzazione sia stata abbastanza celere (furono
realizzati già nel 2003) e l’obiettivo sia esplicitamente quello della
commemorazione di un fatto luttuoso, il monumento alla vittime del terrorismo
sembra incarnare piuttosto un esempio perfetto di rimozione. Il che è per certi
versi straordinario perché Mosca, oltre ad essere una città dei teatri, è anche
tra le città europee che continua a descriversi attraverso i monumenti. È una delle
caratteristiche che la rendono una città particolarmente scenografica, anche
perché, a differenza della Londra vittoriana e della Parigi haussmaniana, la
simbologia comunista rimanda a un passato molto più vicino e presente nel
nostro immaginario.
Il brutalismo sovietico, le statue e busti di Lenin e
degli altri eroi del socialismo che continuano a osservare con sguardo severo
lo scorrere della vita nella Russia postsovietica, le costruzioni monumentali e
celebrative del parco VDNKh e del Museo della Cosmonautica, così come le
fermate della metropolitana che sono di indubbio fascino; tutto questo e altro
ancora contribuisce a fare di Mosca una città scenografica, non necessariamente
congelata nel passato anche se intrisa dei suoi simboli. Un’attività celebrativa
che non si è fermata neppure in epoca recente, rivolgendo però l’attenzione al
mondo artistico, in parte per tributare il giusto riconoscimento ai giganti
della letteratura russa – come la statua di Dostoevskij posta di fronte
all’ingresso della biblioteca Lenin nel 1997 –; in parte per officiare
gesti riparatori delle persecuzioni del passato – come la targa corredata di
bassorilievo dedicata al premio nobel Solženicyn nel 2017, affissa sul palazzo
dove abitava nel 1974, quando fu arrestato e mandato in esilio –; e in parte
anche per strizzare l’occhio al turismo internazionale, – come nel caso delle
divertenti statue dedicate a Fagotto e Behemot, due dei personaggi luciferini
de “Il Maestro e Margherita”, che campeggiano davanti alla casa-museo dedicata
al geniale scrittore russo, aperta nel 2007.
Raggiungere il teatro Dubrovka non è facilissimo,
perché non è semplice trovare notizie sulla sua ubicazione. Non si tratta di un
teatro importante del centro storico, ma di una grande sala commerciale situata
in un quartiere del distretto sud-orientale di Mosca, non proprio in periferia
ma nemmeno in centro. Se si prova a chiedere informazioni in giro è facile
cadere in un fraintendimento: quella che noi, in Italia, chiamiamo “Crisi del
teatro Dubrovka”, in Russia è conosciuta come “il sequestro di Nord-Ost”, o
semplicemente Nord-Ost, dal nome del musical che stava andando in scena quel
giorno.
Sotto il monumento commemorativo, scarno e funebre,
c’è un blocco di granito dove è scolpita una frase: “in memoria delle vittime
del terrorismo”. Nient’altro. Di quale terrorismo, di quale storia si tratti,
non c’è traccia.
Il teatro non è geolocalizzato su Google maps, e
nonostante sia perfettamente raggiungibile dalla via Dubrovskaja, che gli dà il
nome, è invece adiacente alla via Mel’nikova, che la incrocia. Quando mi
ritrovo a fare un giro della città (qualche tempo prima della pandemia
scatenata di COVID-19), riesco a ricavare l’indirizzo da un articolo dell’epoca
di un quotidiano internazionale, che la riporta. Per raggiungere il teatro
scendo alla fermata Proletarskaja e procedo a piedi verso sud; il teatro si
trova all’incirca a metà tra quella fermata degli anni sessanta e la fermata
omonima Dubrovka, più recente e situata più a sud. Dopo una breve camminata,
sulla sinistra, compare il monumento, una stele in cemento piuttosto spoglia,
sormontata da tre cicogne che spiccano il volo scolpite in metallo. Sotto la
stele, scarna e funebre, c’è un blocco di granito dove è scolpita una frase in
russo, che recita semplicemente: “in memoria delle vittime del terrorismo”.
Nient’altro. Di quale terrorismo, di quale storia si tratti, non c’è traccia.
Il monumento colpisce per la sua essenzialità, per la sua nettezza che si
traduce in una formula elusiva. Non si parla della guerra con la Cecenia,
soprattutto non si parla delle responsabilità delle autorità russe nella
gestione della crisi.
Delle morti scaturite dalla crisi del teatro Dubrovka
quelle direttamente uccise dai terroristi ceceni si contano sulle dita di una
mano, tutte le altre sono connesse all’utilizzo del gas da parte delle teste di
cuoio che, contrariamente a quanto sperato (doveva servire ad addormentare i
sequestratori), provocò una strage. Il monumento, genericamente dedicato alle
vittime del terrorismo, sembra voler creare uno spartiacque netto e
indiscutibile tra il male – il terrorismo – e il bene – e cioè noi, o la
società russa, la gente, il resto del mondo. Un discorso in linea con le
retoriche occidentali, riportato alla realtà russa. Ma per fare questo finisce
per rimuovere la storia che dovrebbe raccontare. L’esatto opposto di quanto
tentò di fare in un articolo che raccontava la crisi del 2002 Anna
Politkovskaja, che fu tra i protagonisti di quei drammatici giorni.
Nota per essere una delle voci più critiche nei
confronti del governo russo soprattutto per quanto riguardava il conflitto con
la Cecenia, la giornalista della Novaya Gazeta – che solo quattro anni più
tardi verrà uccisa nell’androne del suo palazzo da un sicario – fu la
protagonista di un tentativo di mediazione che racconterà sul suo giornale una
settimana dopo la conclusione della crisi. Anna Politkovskaja, in
quell’articolo intitolato “Buio in sala”, racconta del dialogo intavolato con il commando
ceceno, per cercare di far liberare almeno i bambini presi in ostaggio. Abu
Bakar, uno dei leader del commando ceceno assieme a Movsar Barayev, risponde
seccamente alla richiesta della giornalista spiegando che tra gli ostaggi non
ci sono bambini. O meglio, di non considerarli tali. “Nei rastrellamenti
prendete i nostri bambini quando hanno dodici anni, e noi qui ci terremo i
vostri” è il ragionamento di Abu Bakar. “Per vendicarvi?”, chiede
Politkovskaja. “Per farvi capire cosa si prova”, risponde lui. (L’atto
terroristico, nella logica del commando, serve a “mettere in scena” nel cuore
di Mosca ciò che i ceceni provano quotidianamente a casa loro. Quello che i
separatisti ceceni vogliono scatenare è un effetto di “transfert”,
un’immedesimazione radicale, che renda evidenti ai russi il dolore del popolo
ceceno, del “nemico”, di quella alterità totale alla quale, in quanto alterirà,
non è riconosciuto uno statuto di umanità, e di sofferenza, pari al
nostro). Lungi dal voler giustificare la logica agghiacciante del
miliziano ceceno, Anna Politkovskaja conclude però il suo articolo appellandosi
al buon senso, riflettendo sulla reciprocità dei gesti di violenza che
finiscono per trascinare in un gorgo infinito tanto i civili russi quanto
quelli ceceni: “Più aumentano la violenza, il sangue, le vittime, i sequestri e
le umiliazioni, più si moltiplicano quelli che vogliono vendicarsi, nonostante
tutto e malgrado tutto. E più arrivano nuove reclute nell’esercito di chi vuole
morire vendicandosi”. Le scelte di Vladimir Putin, orientate invece a una
spietata logica militare, le daranno drammaticamente ragione.
Le scelte di Vladimir Putin, orientate a una spietata
logica militare, daranno drammaticamente ragione alle paure espresse da Anna
Politkovskaja.
Accanto al monumento alle vittime del terrorismo (che
come tale è riportato anche sulle mappe, senza specificazioni aggiunte) sorge
una piccola chiesa ortodossa dedicata ai santi Cirillo e Metodio. Anche se lo
stile architettonico è tradizionale, la chiesa è in realtà piuttosto recente: è
stata costruita come forma di commemorazione religiosa per quanto accaduto al
teatro Dubrovka. La consacrazione, avvenuta il 26 ottobre del 2012, a dieci
anni esatti dal giorno del tragico esito del sequestro, si è tenuta alla
presenza di circa duecento parenti delle vittime, che ogni anno si danno
convegno nel piazzale antistante il teatro per commemorare i loro morti. In
quell’occasione 130 palloncini bianchi, uno per ognuno degli ostaggi morti,
sono stati liberati in aria. Un anniversario avvenuto, come sempre, nella
totale indifferenza delle autorità russe. Vladimir Putin e Dmitri Medvedev,
durante le rispettive presidenze, non hanno mai presenziato alle commemorazioni
dei parenti delle vittime, né tantomeno hanno invitato rappresentati o messaggi
di cordoglio.
Il silenzio delle autorità finisce per rimbalzare
sulle vittime (generiche) del terrorismo, tanto più per il fatto che la causa
della morte, in realtà, va imputata alla miscela di gas utilizzato dai reparti
speciali russi. Uno dei militari responsabili dell’azione, qualche anno dopo,
rilasciò un’intervista in cui spiegò che, con i mezzi di allora, quella era
l’unica possibilità per cercare di salvare almeno una parte degli ostaggi. Una
spiegazione che non convince i parenti delle vittime e i sopravvissuti (i
feriti furono più di settecento), che ogni anno si danno convegno il 26 ottobre
per ricordare i loro morti, leggendo uno a uno i loro nomi. Nomi che sono riportati
su un bassorilievo realizzato sulla parete esterna del teatro, terzo angolo
all’interno del piazzale dedicato alla memoria di quanto accaduto, l’unico che
riporta un elemento concreto. È anche l’unico luogo che lascia tracimare le
emozioni e il lutto, dove è facile trovare ancora oggi, a diciotto anni di
distanza, luci perpetue e persino dei peluche, per ricordare i morti più
giovani.
I parenti delle vittime, riunitisi nell’associazione
Nord-Ost, criticheranno aspramente le autorità russe per l’utilizzo del gas e
per la gestione caotica dei soccorsi. Nel 2011 la Corte europea per i diritti
dell’uomo darà loro ragione, affermando che anche se la Russia ha
legittimamente utilizzato la forza per risolvere la crisi, non ha però predisposto
un adeguato piano di soccorso per le vittime degli effetti collaterali dovuti
all’utilizzo del gas soporifero. Anzi, sembra che nel momento in cui i medici,
cercando di prestare soccorso, chiesero di capire quale fosse la composizione
del gas utilizzato, le autorità si rifiutarono categoricamente di rispondere,
trincerandosi dietro il segreto di stato. Le prime dichiarazioni di Putin,
all’indomani della strage, ipotizzavano che la morte degli ostaggi fosse dovuta
a patologie pregresse. Per anni il governo russo ha rifiutato di rendere nota
la composizione del gas, anche se a un certo punto si cominciò a parlare di un
oppioide particolarmente potente, di origine sintetica, noto come Fentanyl. Si
tratta dello stesso tipo di molecola – per proseguire nel solco dell’intreccio
simbolico, per quanto causale, tra l’attentato terroristico del Dubrovka e la
società dello spettacolo – che ha ucciso popstar come Prince e Michael Jackson.
Il “terrorismo come una delle belle arti” è una
provocazione che campeggia sul titolo di un libro di “storiette” (riflessioni a
metà tra la prosa e il saggio) scritte da Mario Perniola qualche anno fa. Anche
se in quel caso la riflessione riguarda maggiormente il terrorismo
novecentesco, generalmente di sinistra, la provocazione della frase intercetta
l’intreccio scandaloso tra società dello spettacolo e atto terroristico, dove –
che ci si trovi difronte all’effetto studiato, come per le torri gemelle, o
all’effetto collaterale di un’azione studiata, come quella del Dubrovka, per
suscitare la maggiore identificazione e la maggiore angoscia possibile (voi
prendete i nostri bambini, noi facciamo lo stesso con i vostri) – la frattura
maggiore che si verifica non ha a che fare soltanto con i corpi delle vittime e
con le ripercussioni politiche, ma ha a che vedere con l’immaginario. La
controversa frase di Karlheinz Stockhausen sugli attentati dell’11 settembre,
che andrebbero considerati “la più grande opera d’arte mai esistita” (non si
trattava di una considerazione compiaciuta, come ebbe a precisare il
compositore tedesco, che accusò la stampa di averla estrapolata dal contesto) a
suo modo rivelava uno scomodo cortocircuito dell’immaginario collettivo.
Il “terrorismo come una delle belle arti” è il titolo
provocatorio di un libro di Mario Perniola che intercetta l’intreccio
scandaloso tra società dello spettacolo e atto terroristico.
Se l’arte deve necessariamente sconvolgere,
deflagrare, cambiare radicalmente la vita dello spettatore, certamente tali
prerogative sembrano sempre più appannaggio – più che dell’arte, oggi sempre
meno incisiva – dell’ansia distruttiva del terrorismo, maniacalmente attento
all’effetto mediatico, a quanto cioè è in grado di imprimere nelle menti prima
ancora che sui corpi o sugli oggetti che distrugge (una lezione raccolta da
Isis, organizzazione produttrice di immagini raccapriccianti perfettamente
postprodotte, pronta a distruggere beni inestimabili come i reperti di Palmira
pur di creare una ferita nell’immaginario collettivo). È allo stesso tempo un
equivoco e un paradosso. Il bello e l’abietto si scambiano di posto, scrive
Attilio Scarpellini nel 2009 parafrasando Slavoj Žižek in un illuminante saggio
intitolato L’angelo rovesciato, in cui indaga la “scomparsa della
realtà” proprio a partire dal terrorismo. Nella società dello spettacolo, dove
i confini tra verità e rappresentazione della verità sfumano irrimediabilmente,
l’iconolatra e l’iconoclasta parlano la stessa lingua.
Fin dai primi minuti dopo il tragico esito del blitz
delle teste di cuoio, prevale il tentativo di “mettere in scena” una versione
dei fatti, prima ancora di capire cosa sia davvero successo. Il cadavere di
Barayev, militante musulmano, viene ripreso dalle televisioni con una bottiglia
di cognac in mano, immagine che qualcuno ipotizzerà essere frutto di
manipolazione. D’altronde anche le cinture esplosive che i ceceni indossano si
riveleranno essere, in qualche caso, fasulle. La rappresentazione conta più
della realtà. Un’altra delle immagini che farà il giro del mondo è quella delle
miliziane cecene morte, sedute nelle poltrone del teatro, con la testa riversa
all’indietro e le cinture esplosive ancora allacciate. C’erano molte donne nel
commando che fece irruzione nel teatro Dubrovka. Le cosiddette “vedove nere”, o
“shahidki”, erano forse l’incarnazione più dura della cattiva coscienza
dell’esercito russo: donne che avevano perso mariti e figli nel conflitto
russo-ceceno e che erano disposte a immolarsi pur di ottenere vendetta. Eppure,
nonostante il pugno duro di Putin nella gestione della crisi abbia suscitato
molte critiche, alla conta dei fatti il presidente russo riuscì a trarre
vantaggio dalla situazione. Una volta tracciata la linea della lotta al
terrore, le violazioni dei diritti umani da parte dell’esercito russo, fino ad
allora criticate dalla comunità internazionale, di colpo si trasformano in
misure accettabili. Se da un lato c’è il terrorismo, il peggiore di tutti i
mali contemporanei, dall’altra parte si situano i difensori della civiltà, le
sfumature non sono contemplate. Le vittime del terrorismo (meglio se generiche,
spogliate della complessità dei fatti) tracciano il solco che non si può
valicare.
La realtà e la rappresentazione entrano – e in futuro
entreranno sempre di più – in un cortocircuito paradossale. A raccontarlo in
forma letteraria è un libro che non c’entra nulla con la questione
russo-cecena, anche se, paradossalmente, è ambientato alle pendici del Caucaso
ed esce proprio nello stesso anno in cui si verifica la crisi del teatro
Dubrovka, nel 2002. La vicenda che è al centro di Neve (Einaudi, 2004), romanzo del premio Nobel turco
Orhan Pamuk, si svolge a Kars, una cittadina turca che si trova al confine con
l’Armenia, dove si consuma uno scontro tra militanti islamisti e militari
kemalisti, attorno alla rappresentazione di un testo degli anni Venti di
ispirazione laica, dove una donna brucia il velo islamico come segno di
indipendenza. Nella finzione letteraria l’atto teatrale cessa di essere
simbolico e diventa reale, non solo perché una rappresentazione – quindi in
buona sostanza una finzione – scatena le ire dei fondamentalisti religiosi, ma
anche perché una vera morte avvenuta sul palco finirà per essere creduta un
atto di finzione. Nel gioco di specchi creato da Pamuk se il fondamentalista
prende il discorso simbolico in modo letterale, il laico finisce per non
credere che dietro questo comportamento possa celarsi non solo e non tanto
l’ottusità, quanto anche una concreta alterità. A un certo punto del libro uno
dei personaggi lo dice in modo esplicito, parlando di letteratura, in merito a
come gli occidentali guardano gli artisti islamici: “Ogni volta che
loro scrivono poesie o cantano canzoni, parlano a nome di tutta l’umanità.
Loro sono uomini, noi invece siamo soltanto musulmani. Se siamo noi a scrivere
poesie, diventano automaticamente poesie etniche.”
La realtà e la
rappresentazione entrano – e in futuro entreranno sempre di più – in un
cortocircuito paradossale, come aveva già raccontato Orhan Pamuk in “Neve”.
Se le piccole coincidenze che legano la storia
raccontata da Pamuk alla tragedia moscovita sono, tutto sommato, casuali, di
certo il meccanismo di disconoscimento dell’altro accomuna le due vicende, una
vera e l’altra finta. Nella crisi del Teatro Dubrovka lo scontro tra simbolico
e reale è così potente che l’arte cercherà di appropriarsi di questa storia. Ma
cercare di ricreare a teatro un cortocircuito tra realtà e rappresentazione
avvenuto nella realtà è un atto destinato al fallimento, perché la realtà,
nella società dello spettacolo, si è spinta talmente oltre sul piano della
provocazione che il realismo, trascinato sul palcoscenico, risulta caricaturale
e posticcio. È quello che accade nel 2008, ad esempio, nell’allestimento
del Boris Gudunov della compagnia catalana La Fura dels Baus,
che fa piombare in sala nel bel mezzo della rappresentazione un gruppo di
terroristi/attori armati fino ai denti che rievoca le scene drammatiche
avvenute sei anni prima a Mosca. Divenendo finalmente “visibile”, quel
cortocircuito, avvenuto davvero nel buio di una sala teatrale, non funziona
più. Non è credibile. La realtà, in fatto di violenza e spettacolarità, ha
divorato tutto lo spazio della rappresentazione.
Torniamo, infine, al piazzale del teatro. L’ultimo
elemento di cui si compone è quello in realtà più evidente di tutti, ma che
circondato dalle sculture commemorative finisce paradossalmente per sparire. Si
tratta del teatro stesso, anzi meglio, della sua facciata. Piuttosto anonima e
spoglia, la facciata dell’edificio sembra più adatta a un centro congressi che
a un teatro vero e proprio. In effetti la sala, piuttosto grande, è sede di
progetti di tipo commerciale che la affittano per la sua capienza. Così fu
anche nel caso del musical “Nord-Ost”, che all’epoca era la più grande
produzione mai realizzata in Russia, costata ben quattro milioni di dollari. Un
colossal. Il musical si incentrava su una vicenda ambientata durante la seconda
guerra mondiale, con dei militari russi come protagonisti. Il fatto che si
trattasse di uno dei più grandi eventi spettacolari della Russia post-sovietica
attirò moltissime persone. Dopo il sequestro lo spettacolo continuò, anche se
dopo alcuni mesi chiuse i battenti, perché la paura di possibili attentati, o
forse il ricordo troppo doloroso di quanto avvenuto, ridusse notevolmente
l’afflusso del pubblico.
Quando passo davanti al teatro la facciata è
completamente spoglia, non c’è nulla che faccia supporre che il teatro sia in
attività, a parte una locandina davvero piccola, delle dimensioni di un foglio
A4, che sembra reclamizzare uno spettacolo per ragazzi. La sala, d’altronde, ha
una vocazione commerciale e alcuni giornali riportano che anche quando
l’associazione delle vittime l’ha richiesta per le commemorazioni, hanno
comunque dovuto espletare le pratiche burocratiche ed economiche che servono
per organizzare una conferenza. L’immagine anonima del teatro sembra incarnare,
sia pure accidentalmente, una sorta di congiura del silenzio per quanto
riguarda questa storia. Come il memoriale spartano e anonimo, molto meno elaborato
di quello dedicato alla strage di Beslan che sorge in via Solyanka, in una zona
molto più centrale. Di ciò che accadde davvero nella gestione della crisi è
meglio non parlare più. Quello che resta è una generica retorica contro il
terrorismo, contro lo spauracchio del ventunesimo secolo, astratta come il
memoriale che la incarna.
Buio in sala -
Il mio ruolo in questo dramma è cominciato il 25 ottobre, intorno alle due
del pomeriggio. Alle 11.30 avevo parlato per la prima volta al cellulare con le
persone che avevano catturato gli ostaggi. Alle 13.30 ero arrivata al centro
operativo.
Un’altra mezz’ora era passata per definire la questione: qualche
sconosciuto decideva qualcosa dietro porte che continuavano a sbattere.
Finalmente mi hanno portato nella zona, dove c’era un cordone di camion. Mi
hanno detto: “Va’, provaci. Magari ci riesci”. Con me è venuto il dottor
Roshal. Ci siamo trascinati fino alle porte, non ricordo neppure come: avevamo
paura. Tanta.
Entriamo nell’edificio. Gridiamo: “Ehi, c’è qualcuno?”. L’unica risposta è
il silenzio. Sembra che in tutto il teatro non ci sia anima viva. Mi metto a
gridare: “Sono la Politkovskaja! Sono la Politkovskaja!”. Comincio lentamente a
salire la scala sulla destra – il dottore dice che sa dove andare. Anche nel
foyer del primo piano c’è silenzio, buio e freddo. Non un’anima. Grido di
nuovo: “Sono la Politkovskaja!”.
Finalmente da quello che era stato il bancone del bar emerge un uomo. Sul
viso ha una maschera nera piuttosto sottile, i tratti del viso si distinguono
perfettamente. Nei miei confronti non è aggressivo, ma il dottore gli sta
antipatico. Perché? Non riesco a capirlo. Ma cerco comunque di placare gli
animi che stanno per infiammarsi. “Allora dottore, vuoi fare carriera?”, insiste
la “maschera”.
Questo dottore ha 70 anni, è un grande studioso, e ha già fatto tante cose
importanti nella sua vita che per lui pensare alla carriera non ha senso: se
l’è già costruita. Lo dico ad alta voce. Comincia un battibecco. È chiaro che
bisogna “abbassare i toni”, altrimenti…
Un destino senza varianti
La maschera sottile si allontana nel buio del foyer e continua a
borbottare: “Perché dici di aver curato i bambini ceceni, dottore?”. Ancora
delle esclamazioni sgradevoli e confuse, e per questo mi limito a riportarne il
senso generale: “Tu, dottore, parli in particolare dei bambini ceceni. Quindi i
bambini ceceni per te non sono come gli altri. Noi ceceni non siamo persone?”.
La solita storia. Mi intrometto, ma non per dovere, è solo che non lo sopporto
più. Dico: “Tutti gli uomini sono uguali. Hanno la stessa pelle, le stesse
ossa, lo stesso sangue”. Inaspettatamente questo concetto non troppo originale
ha un effetto calmante.
Chiedo di sedermi sull’unica sedia del foyer, a cinque metri dal bancone
del bar, perché le gambe mi cedono. Mi danno il permesso. Le suole delle scarpe
scivolano su una melma rossastra. Osservo con prudenza perché ho paura di
sembrare troppo curiosa ma ho ancora più paura di calpestare del sangue
raggrumato. Però, grazie a Dio, forse è gelato alla frutta. Visto che non è
sangue, i brividi si calmano. Aspettiamo una ventina di minuti: sono andati a
chiamare il “capo”.
E intanto dall’alto, dalla balconata, ogni tanto si affacciano delle teste
mascherate. Alcune maschere sono spesse e nascondono completamente i tratti del
viso. Altre sono sottili come quelle del primo uomo che abbiamo incontrato,
quello che stava dietro al bancone.
“Eri tu a Chotuni?”, chiedono le teste. “Sì”. Le “teste” sono soddisfatte.
Chotuni (un villaggio nella regione di Vedeno) diventa il mio lasciapassare:
era lei, possiamo parlarci.
“E lei di dov’è?”, chiedo a quello che sta dietro il bancone.
“Io sono di Tovzeni”, risponde. “Qui ce ne sono molti di Tovzeni e in
generale della regione di Vedeno”.
Poi c’è qualche confuso segnale di una tragedia in corso: alcune maschere
arrivano, altre se ne vanno – il tempo inghiottito dal nulla stringe il cuore
con presentimenti assurdi. E il “capo” ancora non si vede. Magari adesso
decidono di spararci.
La maschera
Finalmente arriva un uomo in tuta mimetica e con il viso completamente
coperto, grosso, tarchiato e con lo stesso identico portamento dei nostri
ufficiali dei reparti speciali, sempre attenti alla forma fisica. “Seguitemi”,
dice. Le gambe non mi reggono, eppure mi muovo.
Ci ritroviamo in un locale sporco accanto al buffet saccheggiato. Dietro
c’è un rubinetto d’acqua. Qualcuno cammina alle nostre spalle e mi volto; mi
rendo conto di apparire nervosa, ma che ci posso fare? Eppure sembra che io sia
una con una grande esperienza di rapporti con i terroristi in situazioni
estreme… È il “capo” in persona a restituirmi l’uso della ragione. “Non dovete
guardare dietro! Parlate con me, perciò guardate me”.
“Chi è lei? Come si chiama?”, domando senza sperare troppo in una risposta.
“Bakar. Abubakar”.
La maschera se l’è già alzata sulla fronte. Il viso è aperto, largo, e ha
un che di tipicamente militaresco. Sulle ginocchia ha un mitra. Solo alla fine
del nostro colloquio se lo mette dietro la schiena e addirittura si scusa: “Ci
sono così abituato che non me ne accorgo più. Ci dormo, ci mangio, è sempre con
me”. Ma anche senza queste spiegazioni per me è chiarissimo: appartiene a
quella generazione di ceceni che non hanno fatto altro che combattere per tutta
la vita. “Quanti anni ha?”. “Ventinove”. “Ha combattuto in tutte e due le
guerre?”. “Sì”. “Non si è rifugiato in Georgia?”. “No. Non mi sono allontanato
dalla Cecenia”.
Esiste una nuova generazione di ceceni: Bakar è uno di quelli che negli
ultimi dieci anni hanno conosciuto solo il mitra e le foreste, e prima hanno
avuto appena il tempo di finire la scuola, e così, poco a poco, vivere nella
foresta per loro è diventato l’unico modo di vivere possibile. Un destino senza
varianti.
“Veniamo al dunque?”.
“D’accordo”.
“Innanzitutto i bambini più grandi. Bisogna liberarli, sono bambini”. È il
primo problema che Sergej Jastrzhembskij, collaboratore del presidente russo,
mi ha chiesto di affrontare con “loro”.
“Bambini? Qui non ci sono bambini. Nei rastrellamenti prendete i nostri
bambini quando hanno dodici anni, e noi qui ci terremo i vostri”.
“Per vendicarvi?”.
“Per farvi capire cosa si prova”.
Sono tornata molte altre volte sui bambini, pregandoli di fare delle
concessioni. Per esempio portargli del cibo. Ma le risposte sono sempre state
categoriche. “Ai nostri bambini durante i rastrellamenti non danno da mangiare,
devono resistere anche i vostri”.
Nel mio elenco c’erano cinque richieste: cibo per gli ostaggi, articoli di
igiene personale per le donne, acqua, coperte. Anticipo i fatti: siamo riusciti
a metterci d’accordo solo sull’acqua e i succhi di frutta. Nel senso che io li
avrei portati, avrei gridato dal basso di averli con me e allora mi avrebbero
lasciato passare.
“Mi farete entrare più di una volta? Non riuscirò a portare granché in una
volta sola… C’è tantissima gente. Magari potreste far venire con me anche un
uomo”. “Va bene”. “Potrei portare un nostro giornalista?”. “Sì, e anche
qualcuno della Croce rossa”. “Grazie”.
Le richieste
Comincio a chiedere cosa vogliono. Ma politicamente Bakar è in difficoltà.
Lui è “soltanto un soldato” e nient’altro. Spiega a lungo e confusamente a che
serve questa azione, e si possono trovare quattro punti. Primo, Putin deve
“dire una parola”: annunciare la fine della guerra. Secondo: entro
ventiquattr’ore deve dimostrare che non sono solo parole, per esempio deve
ritirare le truppe da una regione.
“Da quale regione? La vostra? Da Vedeno?”.
“Sei una spiona? Fai un interrogatorio proprio come una spiona. Basta,
vattene!”.
Mi rendo conto che non posso andarmene, anche se mi piacerebbe moltissimo.
Per questo pronuncio parole quasi di scusa – sono un’idiota, certo: “Vedete,
dobbiamo sapere cosa volete. E dobbiamo saperlo con precisione. Altrimenti…”.
Continuo a impuntarmi sulle parole. Il mio cervello si scontra con un problema
superiore alle sue forze: cercare di salvare gli ostaggi, dato che hanno
accettato di parlare con me, e allo stesso tempo non perdere la dignità. Ma
purtroppo non riesco a venirne a capo. Sempre più spesso non so cosa dire, e
blatero delle sciocchezze, purché Bakar non dica: “Basta!”, e io non debba
andarmene a mani vuote, senza aver ottenuto niente. Così ci avviciniamo al
terzo punto del “loro” piano.
Ma proprio allora Bakar riceve una telefonata sul cellulare da Boris
Nemtsov. Questo telefono i combattenti l’hanno preso a uno degli ostaggi, un
musicista dello spettacolo Nord-Ost, e ora lo usano per le loro conversazioni.
Bakar, dopo aver parlato con Nemtsov, riceve una telefonata “da casa”, dalla
regione di Vedeno, in Cecenia.
Guerra autonoma
Dopo il colloquio con Nemtsov Bakar comincia visibilmente a innervosirsi.
In seguito mi avrebbe detto che Nemtsov lo prendeva in giro: il giorno prima
aveva detto che la guerra in Cecenia poteva cessare, mentre oggi, il 25 ottobre,
sono ripresi i rastrellamenti. Allora gli chiedo: “Voi a chi credereste? Chi
può darvi la sua parola per confermare il ritiro delle truppe?”. Viene fuori
che si fidano di lord Jadd (il capo dell’assemblea parlamentare del consiglio
d’Europa).
Passiamo al “loro” terzo punto. È semplice: se saranno attuati i primi due,
libereranno gli ostaggi. “E voi?”. “Resteremo a combattere. Accetteremo la
lotta e moriremo in battaglia”. “Ma voi in realtà chi siete?”, chiedo, e mi
spavento e penso, oddio, ho esagerato! “Un battaglione di esplorazione e
diversione”. “Siete tutti qui?”. “No, solo una parte. Siamo stati selezionati
per questa operazione. Hanno preso i migliori. Perciò anche se moriremo ci sarà
sempre chi porterà avanti la nostra causa”. “Ubbidite a Maskhadov?”.
Noto un certo turbamento e poi di nuovo una grande irritazione. Le
spiegazioni sconnesse possono ridursi alla formula: “Sì, Maskhadov è il nostro
presidente, ma noi combattiamo per conto nostro”.
È la conferma dei peggiori timori: si tratta di uno dei reparti che in
Cecenia fanno tutto da soli. Hanno una loro guerra autonoma, ed è assolutamente
radicale. E se ne infischiano di Maskhadov: perché non è un estremista.
Proseguo: “Eppure voi lo sapete, i colloqui di pace sono condotti da Iljas
Akhmadov in America e da Akhmed Zakaev in Europa – i rappresentanti di
Maskhadov. Magari volete mettervi in contatto con loro, oppure potrei chiamarli
io. Non dovete fare altro”.
“E perché? A noi non piacciono. Conducono questi negoziati con lentezza
perché non hanno nessuna fretta, e noi intanto moriamo nelle foreste. Ci hanno
stufato”.
Nel “loro” piano non ci sono altri punti. Bakar aggiunge molte frasi forti:
“Per un anno e mezzo le persone hanno chiesto di poter fare i kamikaze e di
venire qui”. “Siamo venuti a morire”. Non dubito affatto che siano condannati e
pronti a morire – e a portare con sé tutte le vite che vorranno.
Il cellulare squilla. Bakar ascolta e comincia a gridare: “Non telefonate
più. Questo è un ufficio. Disturbate il mio lavoro”.
“Posso parlare con gli ostaggi?”. “È impossibile”. Ma dopo cinque minuti,
dice a un “fratello” seduto proprio dietro di me: “Portali, va bene”.
Quello fa uscire dalla sala una ragazza bella e spaventatissima, Masha, che
non riesce a spiccicare parola per il terrore e la debolezza – gli ostaggi non
hanno mangiato niente. Bakar è irritato dal suo balbettio e ordina di portarla
via. “Prendetene una un po’ più grande”. Mentre il “fratello” va nella sala e
torna, Bakar mi spiega quanto sono nobili. Ci sono tante belle ragazze nelle
loro mani – e Masha è veramente bellissima – ma non hanno alcun desiderio,
tutte le loro forze sono assorbite dalla lotta per la liberazione della loro
terra. Interpreto le sue parole nel senso che devo essergli grata di non aver
violentato Masha.
Parliamo brevemente di morale e di etica, se così si può dire. “Non mi
crederete, ma moralmente qui ci sentiamo meglio che nei tre anni di guerra.
Finalmente facciamo qualcosa di concreto. Siamo come pesci nell’acqua, qui.
Stiamo meglio di quanto non siamo mai stati. Sarà bello morire. Aver
partecipato alla storia è un grande onore. Non ci crede? Vedo che non ci crede.
Io invece ci credo moltissimo. Era un anno che nell’ambiente militare ceceno se
ne parlava. Vista l’inerzia del virtuale Maskhadov molti reparti combattenti
sono rimasti tutto l’inverno nelle foreste e sono diventati impazienti: non si
può uscire, non si riesce a combattere, bisogna fare qualcosa e dal comandante
in capo non arrivano ordini. Man mano che questi sentimenti crescevano i
reparti si sono disgregati oppure si sono radicalizzati, e di fatto hanno
cominciato una loro guerra sulla quale Maskhadov non ha nessuna autorità”.
Un altro Kursk
Il “fratello” porta un’altra bella ragazza con i nervi molto scossi. “Sono
Anja Andrijanova, inviata di Moskovskaja Pravda. Cercate di capirci: noi siamo
già rassegnati a morire. Ormai l’abbiamo capito: il paese ci ha abbandonato.
Noi siamo un altro Kursk. Se volete salvarci, scendete in piazza. Se mezza
Mosca implorerà Putin, riusciremo a sopravvivere. Per noi è chiarissimo: se
oggi moriremo, domani in Cecenia comincerà un nuovo massacro che poi rimbalzerà
qui, provocando nuove vittime”.
Anja parla senza fermarsi. Bakar è nervoso, ma Anja non se ne accorge. Ho
di nuovo paura che Bakar cominci a dimostrare la sua forza. Finalmente Anja
viene portata via. E stabiliamo che adesso penserò a portare dell’acqua. Bakar
a sorpresa aggiunge spontaneamente: “Potete portare anche dei succhi di
frutta”. “Per voi?”. “No, noi ci prepariamo a morire, non beviamo e non
mangiamo niente. Per loro”. “E magari qualcosa da mangiare? Almeno per i
bambini”. “No. I nostri soffrono la fame. Che soffrano anche i vostri”.
Proprio come in Cecenia
Questa giornata di storia è finita. Poi c’è stato l’attacco. E io continuo
a chiedermi: abbiamo fatto tutto il possibile per contribuire a evitare che ci
fossero vittime? È stata davvero una grande “vittoria”? E io personalmente sono
servita a qualcuno con i miei succhi e i miei tentativi sull’orlo del baratro?
La mia risposta è sì, sono servita. Ma non abbiamo fatto tutto il
possibile. Perché abbiamo ancora molto davanti a noi, anche se alle nostre
spalle c’è già troppo. La tragedia del Nord-Ost non è nata dal nulla e non
segna la fine. Adesso vivremo nel terrore costante vedendo uscire di casa i
bambini e gli anziani: li rivedremo di nuovo? Proprio come ha vissuto in questi
ultimi anni la gente in Cecenia.
Ci sono solo due varianti.
La prima: finalmente ci renderemo conto che più aumentano la violenza, il
sangue, le vittime, i sequestri e le umiliazioni, più si moltiplicano quelli
che vogliono vendicarsi, nonostante tutto e malgrado tutto. E più arrivano
nuove reclute nell’esercito di chi vuole morire vendicandosi. E poiché questa
guerra non si combatterà sul campo di battaglia, ma accanto a noi e con la
partecipazione di gente che non c’entra niente – noi tutti – saremo condannati
a un altro Nord-Ost, e nessuno potrà sentirsi sicuro in nessun luogo, per
strada come nel proprio appartamento.
Un uomo con le spalle al muro inventa metodi sempre più astuti per
vendicarsi.
La seconda variante è difficile, impegnativa, ma almeno si muove in
direzione di un miglioramento: bisogna cominciare a parlare con colui che resta
aggrappato all’ultimo filo del suo potere, con Maskhadov. Altrimenti saremo
condannati a negoziati come quelli del Nord-Ost, segnati alla disperazione.
Quando la posta in gioco è la vita degli innocenti.
Internazionale, numero 461, 1 novembre 2002
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