Perché ci si è fatti trovare impreparati di fronte alla seconda ondata del Covid-19? Perché le misure prese, in Italia e altrove, faticano a produrre i risultati sperati? Al fondo della questione mi pare stia un nodo politico irrisolto.
Due sono le risposte fondamentali alle minacce
epidemiche (e non solo): “disciplinare” oppure “securitaria”. La prima è quella
tradizionale e si fonda sull’imposizione di regole: confinamento dei malati, limitazione
alla circolazione dei sani. La seconda, legata all’affermazione della logica di
governo liberale e quindi storicamente recente,1 prevede di fronteggiare il nemico
non isolandolo ma contenendolo.
Prevenzione e precauzione
Un primo approccio securitario è la prevenzione. Se la drasticità
della misura disciplinare si giustifica per l’oscurità della minaccia, la
prevenzione si fonda sulla conoscenza e quindi la prevedibilità e gestibilità
della sua evoluzione. Questa è la logica delle vaccinazioni. Punto cruciale è
il calcolo probabilistico e la conseguente possibilità di definire una
proporzione tra minaccia e contromisura. La logica dell’effetto gregge, come sappiamo,
è che se si tiene sufficientemente alto il numero dei vaccinati la malattia non
è in grado di propagarsi. Tuttavia occorre valutare il rapporto tra costi
(vaccinazioni massicce, con le loro implicazioni economiche e, sia pure in
piccola percentuale, i loro effetti collaterali) e benefici (gravità della
malattia). Una parte del cosiddetto movimento no-vax contesta appunto la
proporzionalità tra entità della minaccia e obbligatorietà di alcuni vaccini.
Nelle democrazie la proporzionalità è dunque fonte di legittimità, nella misura
in cui l’azione di governo si fonda su un presupposto di razionalità
calcolativa.
Un secondo approccio, comparso da alcuni decenni,
è quello della precauzione. Esso costituisce un indebolimento della logica
liberale di governo del territorio e della popolazione, dato che impone di
muoversi prima di conoscere bene l’avversario, nell’assunto che il tempo
necessario ad acquisire informazioni più solide potrebbe andare a vantaggio di
quest’ultimo, riducendo l’efficacia dell’azione. L’intervento precauzionale non
consente quindi, per definizione, una vera e propria valutazione di
proporzionalità, nonostante quest’ultima sia richiamata, con evidenti fini
legittimatori, dalla legislazione. Ma c’è dell’altro: quanto più l’azione precauzionale
è efficace, tanto più, a posteriori, risulterà sproporzionata rispetto alla
minaccia effettivamente concretizzatasi. È avvenuto così con la pandemia H1N1
del 2009. Alla sua diffusione limitata ha senza dubbio contribuito la risposta
dell’Oms, che reagì prontamente senza attendere una valutazione della gravità
della minaccia; ma ciò portò a forti critiche contro l’acquisto da parte dei
governi di milioni di dosi di vaccino rivelatesi superflue, critiche che molti
ritengono aver influito sulla negligenza nell’aggiornamento e l’implementazione
dei piani pandemici riscontratasi in molti paesi, Italia inclusa. In sintesi,
la precauzione sconta un evidente problema politico nell’attuale regime di
governo, dato che si pretende di legittimarla su una base che la sua stessa
applicazione contraddice e il suo successo di conseguenza punisce anziché
premiare chi la applica.
Una minaccia come il Covid-19,
scatenata da un virus sconosciuto, sembra
mettere immediatamente fuori gioco la prevenzione. In effetti, presi
alla sprovvista, la primavera
scorsa si è adottato un approccio disciplinare: il lock down generale.
Poi, a fronte dell’acquisizione “sul campo” di conoscenze sul virus, delle
divisioni tra gli esperti, dei costi economici e sociali del lock down,
delle rimostranze, cavalcate dall’opposizione, di una parte della popolazione e
degli interessi organizzati, si è
virato in direzione securitaria: contenere la minaccia. Si è deciso però di seguire una logica
preventiva anziché precauzionale, cercando di proporzionare le misure
alle evidenze (il famoso indice Rt), con il risultato di inseguire il virus anziché anticiparlo. Appena
le misure cominciano a funzionare l’indice si abbassa, ma appena l’indice si
abbassa le misure si allentano, con il risultato di ricominciare daccapo. La
logica di governo liberale non è insomma stata messa in discussione anche se
l’occasione, nella sua drammaticità e proprio per tale motivo, era propizia.
Nel momento in cui scrivo si levano voci che chiedono di tornare al lock
down generale, presentato non come delegittimazione finale ma come
sospensione temporanea di tale logica. È interessante notare, per contro, che i paesi del sud-est asiatico che
stanno registrando maggiore successo nel controllo della pandemia perseguono un
tracciamento a tappeto dei contatti, il che corrisponde a un approccio di tipo
precauzionale (lo stesso applicato a Vo’ Euganeo con lo screening
integrale della popolazione).
Un’escatologia tecnologica: il vaccino
L’impasse politica delle democrazie occidentali dovrebbe a questo punto
essere chiara: nel regime liberale vigente per dare legittimazione ai
provvedimenti occorre mostrarne la proporzionalità rispetto ai dati, ma per
arginare l’epidemia occorrerebbe muoversi precauzionalmente, usando i dati non
per commisurarvi i provvedimenti ma come indicatore qualitativo per decidere di
quanto spingersi in tale direzione, e con la certezza che, se sarà stata
efficace, l’azione apparirà a posteriori eccessiva. Sarebbe necessaria una
classe di politici, esperti e comunicatori eccezionali, di cui si stenta a
trovare traccia, per riconoscere questo fatto e provare a spiegarlo anziché
speculare sul malcontento e dividersi di fronte a una popolazione disorientata
dal senso di irrazionalità espresso da misure che, cercando di mettersi al
passo con una preda per questo stesso motivo ogni volta sfuggente, appaiono
inadeguate nel preciso momento in cui vengono assunte.
La via d’uscita cui quasi tutti guardano
speranzosi è un’escatologia tecnologica: il vaccino. Ma già si dice che anche
questa soluzione non sarà risolutiva: il virus cambia, non si sa quanto può
durare l’immunità né, qualora duri, quanto tempo ci vorrebbe per ottenere
l’effetto desiderato su scala mondiale – la sola in grado di far ripartire
l’economia globalizzata. Si evidenzia così che il regime effettivamente vigente, che possiamo definire
tardo-neoliberale, non privilegia più la razionalità calcolativa. La
precauzione si confronta non solo e non tanto con la mitologia del calcolo, per
quanto come detto essa rimanga la base di legittimazione pubblica dell’azione
di governo, ma anche e soprattutto con il suo contrario: l’incalcolabilità, la
necessità (e l’ebbrezza) di navigare sull’onda dell’imprevisto,
l’imprevedibile, la sorpresa. La
logica securitaria sta prendendo infatti in modo sempre più marcato una piega
peculiare, che alcuni hanno colto in campo militare nella dottrina della pre-emption,
la “guerra preventiva”, e che trova nella preparedness il suo
corrispettivo di elezione in campo sanitario (la minaccia di guerra
batteriologica sta ovviamente a cavallo tra i due campi).
L’importanza della preparedness – intesa come prontezza di
risposta all’attacco di sorpresa, a un’insidia che circola sottotraccia per
erompere all’improvviso – è esplicitamente riconosciuta a partire dai documenti
dell’Oms.2 La sua logica e le sue
implicazioni sono al centro di crescente attenzione da parte di studiosi di
varia estrazione3 e traspaiono da molti discorsi che
si leggono e ascoltano in questi mesi (“il virus è qui per restare”, “dobbiamo
già prepararci alla prossima pandemia”, ecc.). Non si tratta di contenere la
minaccia con l’obiettivo di estinguerla (almeno virtualmente se non
letteralmente, com’è accaduto con il vaiolo), ma di imparare a conviverci. I pre- e i
non-moderni l’hanno sempre fatto con le malattie endemiche. Stavolta però l’idea
è di modulare l’espressione della minaccia, trattenendola con un talismano, una
forza, un katechon tecnologico. Si pensa così di cavalcare
l’imprevedibile estraendone valore, sganciando l’obiettivo del dominio dalla
tradizionale nozione di controllo,4 laddove l’approccio pre- e
non-moderno al mondo era generalmente informato a saggezza, prudenza e umiltà
(gli stessi criteri che ritroviamo nel principio di precauzione).
Da dove può
nascere la spinta per una svolta?
In questa prospettiva vaccini, terapie e apparati ospedalieri assumono un
significato diverso da quello cui siamo ancora abituati: tattico piuttosto che
strategico. Non sono loro il fulcro della preparedness, ma la
vigilanza tramite “sentinelle” biologiche, per esempio animali domestici
collocati all’interfaccia tra società e natura, o meglio tra mondo
antropomorficamente organizzato e mondo antropomorficamente “affetto”,5 in modo da evidenziare gli indizi
di un’insorgente zoonosi. Dobbiamo allora chiederci se oltre a quelle animali
ci sono, e quali sono, le sentinelle umane. La risposta è abbastanza
facile. La pandemia minaccia
innanzitutto chi rimane al lavoro, o lo utilizza, in modalità non-smart (manifattura,
trasporti, assistenza e cura, generi di prima necessità, scuola in presenza
ecc.). Sono queste le categorie cui élite politiche, intellettuali e
imprenditoriali sempre più ristrette dall’impoverimento sociale e culturale dei
ceti medi affidano la vigilanza, proteggendosi e al contempo vagliando se, come
e di quanto correggere il sistema per mantenere lo status quo, arricchendosi
ulteriormente grazie al fiume di denaro destinato a riversarsi sul recovery post-pandemico
e, in prospettiva più ampia, alla transizione green & blue.
È solo da un’acquisita consapevolezza da parte
delle sentinelle dell’emergenza e da chi, pur non in prima linea, è destinato a
condividerne le sorti, che può venire la spinta necessaria a una svolta, primo e principale
antidoto al virus che oggi ci affligge e a quelli che, senza tale svolta,
sicuramente verranno. Ciò cui si è assistito sinora è una protesta scomposta,
su cui la destra sta cercando di mettere l’ipoteca e in cui si mescolano
istanze contraddittorie e si profilano figure di esperti in versione
terrapiattista, molto utili ai media di regime in quanto permettono di
distogliere l’attenzione dal problema che essa solleva. La domanda è se e chi riuscirà a tradurre
questa opposizione ancora informe, animata non solo e non tanto da
chi non sopporta qualche temporanea restrizione alle proprie comodità ma da chi
sente di avere sempre meno da perdere, in
un programma politico coerente, in cui magari coinvolgere la parte più
politicamente equipaggiata di movimenti quali Fridays For Future ed Extinction
Rebellion.
1 Cfr. M. Foucault, Sicurezza,
territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978),
Milano, Feltrinelli, 2007.
2 Cfr. WHO, Pandemic
influenza preparedness and response: a WHO guidance document, Geneva, World
Health Organization, 2009.
3 Cfr. A. Lakoff, Unprepared.
Global health in a time of emergency, Oakland, CA, University of California
Press, 2017; F. Keck, Asian reservoirs, Durham, NC, Duke University
Press, 2020: L. Pellizzoni, The time of emergency. On the governmental
logic of preparedness, “AIS Journal of Sociology”, 16, 2020, pp. 39-54.
4 Cfr. L. Pellizzoni, Governing
through disorder: neoliberal environmental governance and social theory,
“Global Environmental Change”, 21, 2011, pp. 795–803.
5 Cfr. R. Wallace, Big farms
make big flu, New York, Monthly Review Press, 2016.
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