Smettete di vivere! Perché oggi il tempo vissuto, il tempo trascorso, è considerato una pura perdita di capitale-tempo… Le nostre società dette ‘postmoderne’ – società in cui le democrazie hanno, ammettiamolo, un po’ di piombo nelle ali e che si pretendono non razziste, non sessiste, non omofobe eccetera – hanno in compenso adottato all’unanimità una nuova griglia di lettura per interpretare i comportamenti dei loro cittadini.
Ciascuno di noi è chiamato a diventare
l’imprenditore della propria vita: autonomo, performante, dinamico e, non
dimentichiamolo…, felice! Infatti, nelle nostre società ‘ugualitarie’, tutti possono ‘tutto’ –
anche se per la verità solo sulla carta… Se state male, siete disoccupati,
malati, deboli, non avete che da prendervela con voi stessi, è colpa
vostra. Tristezza e debolezza sono
diventati veri e propri difetti, ‘segni’ del fatto che amministriamo
male la nostra ‘impresa’ (leggi: la nostra povera persona). Il mondo si divide in winners (responsabili,
performanti) e in losers,
la cui incapacità di gestione determina il fallimento della loro impresa
personale.
E ciò ha inizio già dalla culla o quasi: i giovani devono imparare fin da subito a non perdere tempo, a
orientare la loro vita verso il successo, il buon funzionamento della loro
‘impresa’. Quanto ai vecchi… Diciamolo subito anche se può apparire
strano: oggi la vecchiaia è ‘male’.
Mostrare la propria fragilità sembra ormai qualcosa di trasgressivo. Al
massimo, ciò che un vecchio ha diritto di esibire sono quelli che si potrebbero
chiamare segni di ‘non-vecchiaia’. E in particolare segni di potere: un’auto
grande e potente, molti soldi, gadget tecnologici (e guai a far vedere che non
si è capaci di usare il proprio cellulare!) e cose simili. E se il vecchio non
può evitare di mostrare la propria fragilità, dovrebbe giustificarsi, chiedere
scusa di esistere!
In effetti, è come se le nostre società facessero fatica a sopportare tutte
quelle persone che non si adattano felicemente alle gioie ludiche dell’attuale
tecnologia e che si intestardiscono a esistere. ‘Plasticità’ è il nuovo mantra:
contro ogni forma di pensiero appena un po’ più complesso, il vivente deve
trasformarsi in un ‘senza-forma iperplastico’ che si lascia plasmare in modo
adeguato in ogni situazione. E, si sa, la plasticità delle ossa, delle
articolazioni, dei ricordi e dell’esperienza dei vecchi lascia un po’ a
desiderare…
Un tempo, all’epoca della modernità industriale,
la vecchiaia era assimilata alla non-produttività. Non si può più dire che sia così. I
criteri di integrazione sono cambiati: ciò che conta oggi, nella nostra società postmoderna, non è che si
produca, ma che si consumi. Il vecchio continua a essere ‘incorporato’ finché
consuma. Di più: finché partecipa al gioco, mostrandosi felice e
vincente. Sarà tollerato finché terrà nascosto tutto ciò che evoca, insomma, la
vecchiaia. Non celebriamo del resto i disabili pieni di forza e potere, i sordi
che sentono, i ciechi che vedono?
Già alcuni anni fa, ho lanciato in modo provocatorio su France
Culture un appello per la
formazione dell’Associazione dei disabili cattivi. Sostenevo che i
disabili avrebbero dovuto andare in giro mostrando il dito medio, insultando le
persone, facendo delle smorfie e così via. Per smascherare il fatto che ciò che
si esige da un disabile in quanto tale – che può inquietare, per la fragilità
che espone e rimanda agli altri – è che sia un angelo, asessuato, senza
desideri, senza cattiveria. Che si aggiri per la città e nelle strade
ostentando un’aria riconoscente per il fatto di essere tollerato…
Per i vecchi è un po’ la stessa cosa: essere vecchi è attualmente diventato una specie di disabilità. E
quando qualcuno accetta ‘senza complessi’ la propria vecchiaia, offre uno
spettacolo che disturba gli altri. Appare come quello che arriva a guastare la
festa perché ricorda al mondo che, per quanto si pretenda, con un po’ di buona
volontà, che tutto sia possibile, nei fatti non è così.
Ma cos’è accaduto in Europa perché i nostri ‘anziani’ si siano trasformati
in ‘vecchi’? Cos’è accaduto nella nostra società perché, guardando le persone
avanti nell’età, non si veda altro che perdita e si pensi immancabilmente: «Bè,
non gli rimangono più molti cioccolatini nella scatola… »? Che tipo di società è quella che non
attribuisce più alcun valore alla scultura della vita – che è scultura dei
corpi, della memoria dei corpi, dell’esperienza, delle ferite, delle ‘potenze’?
Attenzione però: non si tratta
neanche di idealizzare la vecchiaia né di affermare che invecchiare
sia magnifico. Non c’è nessun piacere ad avere male alle anche, a dimenticare
le cose, a diventare sempre meno belli… Occorre piuttosto chiedersi quali siano le vere ‘potenze’ dell’essere
anziani. Che non sono certamente quelle della giovinezza. Non si può non
constatare che oggi, in Occidente, in mancanza di elementi culturali e
antropologici che consentano di evocare altre forme di potenza, si affoga in un
giovanilismo permanente.ù
Paradossalmente, a questi vecchi cui non si consente più di essere degli
anziani fa da contraltare oggi un’altra generazione, biologicamente giovane,
cui non si consente più di essere giovane… La nostra società disciplina e terrorizza i giovani impedendo loro di
seguire la propria strada, i propri percorsi, i propri necessari errori.
Non si lasciano più i bambini essere bambini. Oggi capita che, già dall’età di
6 o 7 anni, un bambino che non faccia a dovere i compiti si senta dire: «Sai,
la vita è dura, se non fai i compiti sarai un disoccupato». E si vedono
genitori disperati perché il loro figlio diciassettenne è indeciso sul proprio
orientamento personale, si disinteressa della questione, o si impegna in un
percorso per poi abbandonarlo, o decide di prendersi uno o due anni per
imboccare delle vie traverse. Detto altrimenti: per esplorare e sviluppare la propria personale
potenza.
Un giovane è uno che esplora le possibilità, uno per cui la vita non è
pianificata come un viaggio organizzato (con tutte le necessarie
assicurazioni), uno che non considera la vita come una linea dritta – la strada
più breve, il percorso più comodo e con il minimo spreco di energie. È al
contrario uno che sperpera, che rischia e non valuta le sue azioni in base al
rapporto costo-benefici. Un piccolo aneddoto. Ero stato invitato da un gruppo
di giovani contadini cattolici – giovani cristiani, idealisti – che mi chiamano
sovente per discutere, mi fanno sempre domande sulla resistenza, sulla lotta
armata eccetera, un’esperienza che, sinceramente, non penso di aver mai
considerato come qualcosa di redditizio, anche se sicuramente mi ha formato più
di una qualunque laurea. Uno di loro, a un certo punto, mi disse una cosa
incredibile: «Non riesco a capire, da un punto di vista investimento/profitto,
il fatto di opporsi alla dittatura. Tu ti opponi alla dittatura perché vuoi la
democrazia, ma se ti ammazzano? Investi la vita in un obiettivo rischiando di
non ottenere un profitto che equivalga all’investimento». Rimasi sconcertato
davanti a questa logica puramente redditizia… Era la prima volta che si
riferivano al mio percorso come a qualcosa di mal ‘gestito’…
Un vecchio racconto narra di un saggio chiamato alla corte del re che
chiede a quest’ultimo cosa conti di fare. Il re gli spiega che si prepara a
conquistare il paese vicino. «E dopo, cosa conti di fare?». «Conquisterò il paese
limitrofo e così di seguito, fino a impadronirmi del mondo intero». «E dopo,
cosa conti di fare?». Al che il re risponde dicendo che sarebbe rientrato nel
suo regno e si sarebbe seduto sul trono. Pensando di illuminare la cecità del
sovrano, il saggio ribatte: «Ma perché tanto affanno, se sei già seduto qui?».
Si comprende facilmente la morale di questa storia: perché andare a cercare
tanto lontano la felicità che è già a portata di mano? Ma ciò che il saggio,
evidentemente intriso di logica utilitaristica, non ha colto è che le varie
imprese bellicose del re non hanno per obiettivo la felicità e nemmeno la
soddisfazione di tornare a sedersi sul suo trono dopo tante conquiste.
L’obiettivo della sua vita è la vita stessa. Come scrive il poeta greco Konstantinos Kavafis, Itaca è nel cammino che
porta a Itaca (Itaca, edizione italiana in Poesie, Mondadori). E
imboccare il percorso più breve per giungere a Itaca ci farebbe sicuramente
perdere Itaca. È esattamente in
questo che risiede la specificità della giovinezza: esplorare le proprie
possibilità, assumere rischi, correre dietro a molte lepri, abbandonarsi con
passione, scottarsi, tornare indietro… Un giovane che rimane seduto
dicendosi «perché sprecare la mia vita se poi devo tornare a sedermi?»: ecco
senz’altro lo studente ideale delle scuole di management a cui si insegna a
gestire la propria vita nei termini di un bilancio costi-benefici…
Non ho nulla di intelligente da aggiungere, ma ci tenevo a dirti quanto ho apprezzato il tuo scritto, del quale ti ringrazio.
RispondiEliminamica l'ho scritto io, sono solo il corriere :)
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