In questo articolo Chukwuemeka Attilio Obiarinze testimonia la paura che i cittadini nigeriani vivono davanti alla polizia, e in particolare alla SARS (Special Anti-Robbery Squad), un braccio armato speciale molto violento accusato di crimini e torture. Durante il mese di ottobre ha fatto notizia anche in Occidente End SARS, un movimento sociale decentralizzato che ha organizzato una serie di proteste di massa contro la brutalità della polizia in Nigeria. Partendo dalla violenza delle forze armate, Obiarinze indaga sulla sfiducia dei cittadini verso le istituzioni e quindi verso i propri leader.
“It’s a
shame for leaders. Because there will be no future for Africa until they
respect the dignity of their little children.” Majek Fashek in “I come
from the ghetto”
Verso metà
mattinata arriviamo all’Ufficio Immigrazione a Ikeja, dove mamma e zia Hannah
hanno fissato un appuntamento per il rinnovo del passaporto. C’è tantissima
gente in coda e l’ufficiale preposta alla mansione non sembra essere disposta a
sbrigare le pratiche celermente senza una piccola jara. Di sicuro ne avranno
per un bel po’ lì…
Nell’attesa,
per non squagliare al caldo dentro quella stanzetta angusta, mio cugino Kelvin
e io decidiamo di rifugiarci dentro un centro commerciale poco distante. Si chiama
ShopRite, è un’importante catena sudafricana di supermercati al cui interno di
certo non mancano bibite fresche, aria condizionata e, di conseguenza,
bellissime ragazze da contemplare. Stupende donne africane, nere, di ogni
tonalità, rilucenti di una bellezza che non ho mai potuto configurare a pieno
in Europa. Con sorpresa scorgo qua e là anche qualche signora caucasica e
libanese. Mi rivolgo a Kelvin: “Omo mehn, guarda quella lì con quel culo
illegale! ‘Sto posto dovrebbero chiamarlo LustRite…!”
Lui scoppia
a ridere, di pancia, come se quelle risa fossero rimaste trattenute a lungo per
qualche motivo. Saliamo al secondo piano con l’intenzione di sederci in un
lounge bar, bere un drink e magari attirare l’attenzione di qualche lady
fortunata quando, dal nulla, appaiono due energumeni con gli occhiali da sole e
le camicie scure. Li vediamo camminare verso di noi con un senso di superiorità
e una confidenza tipici di chi va in giro armato, ci passano a fianco, molto
lentamente, scrutandoci dalla testa ai piedi con fare intimidatorio e
distruggendo l’atmosfera di giubilo: sarà per il nostro bighellonare
spensierato? Sarà per i vestiti alla moda europea? Sarà per gli occhiali a
goccia cool o per il Huawei relativamente nuovo? Sarà perché non siamo messi
così male insomma?! Chiedo a Kelvin cosa vogliano da noi questi due tizi, lui
non mi risponde. È visibilmente preoccupato, consiglia di dimenticarci dei
cocktail e delle signorine e di andarcene da lì non appena fuori dalla loro
vista.
Usciamo dal
centro commerciale. Il sole è già alto, sembra un occhio di fuoco antico
offuscato in una patina grigiastra incapace di contenerne il furore. L’afa
esalata dall’asfalto rovente e i gas di scarico dei camion in transito rendono
l’aria a dir poco mefitica. Pur essendo abituato a Lagos e le sue temperature,
Kelvin sostiene che questo calore sia del tutto anomalo: “Bro, non ha mai fatto
così caldo in aprile, è reale il cambiamento climatico”. È la prima volta che
quelle due parole così astratte mi fanno seriamente preoccupare. Seguo il mio
Virgilio per le trafficatissime vie di Ikeja anche se ormai ci
avanza poco tempo per i tour; dopo una breve visita al New Afrika
Shrine dove Femi Kuti suole esibirsi i giovedì sera,
raggiungiamo le nostre madri che finalmente hanno terminato i loro impegni
all’Ufficio Immigrazione e quindi, sgranocchiando dolci pannocchie grigliate,
ci dirigiamo tutti insieme al parcheggio dove Babà, il nostro
autista Uber, ci attende pazientemente in macchina. Sulla strada verso casa
passiamo di fronte a una caserma militare e di colpo, come un tuono nella
notte, zia Hannah emette un sospiro profondo commentando: “Grazie a Dio che a
Magboro non c’è una stazione di polizia”. Silenzio. Se questa frase fosse stata
pronunciata da altre persone di mia conoscenza non mi avrebbe fatto né caldo né
freddo, ma per il fatto che lo dica zia Hannah, una donna di mezz’età, madre,
credente e lavoratrice onesta, è davvero scioccante.
La polizia a Lagos (e a Como)
Di cosa ha bisogno in primis una nazione o una società per esistere e prosperare? Sicurezza, no? All’improvviso, lì schiacciato fra mia madre e Kelvin nel sedile posteriore, mi tornano in mente immagini di Como dove il decoro – puramente estetico e non morale – è un dogma e dove a un ragazzino tocca imboscarsi furtivamente anche solo per fumarsi una canna. Lì, la stazione di polizia è sinonimo di controllo, ordine, prevenzione, ora più che mai. Girando per Como a volte si ha l’impressione di stare sotto un vero e proprio stato poliziesco. Come il sottotenente Drogo nel Deserto dei Tartari, molti cittadini sentono la necessità e il dovere di difendere la loro “fortezza” dall’arrivo minaccioso dell’esercito nemico, in questo caso composto da migranti ed emarginati sociali in generale. Nei fatti, il rischio di un’invasione non sussiste; grazie agli sforzi dei vari governi succedutisi finora, gli arrivi di migranti in Italia sono drasticamente calati e tantissimi ora sono ancora detenuti in schiavitù nelle carceri libiche, sottoposti a ogni genere di crudeltà lontano dagli occhi dell’ONU. In sincronia con i provvedimenti DASPO di Minniti e, in seguito, con quelli di Salvini quando era ministro dell’Interno, il braccio della legge a Como ha cominciato a scagliarsi in maniera quasi esclusiva contro mendicanti, rifugiati, nomadi, artisti di strada e chiunque possa essere percepito come pericoloso o semplicemente “fastidioso” dall’opinione pubblica. Tutti ricordano la crisi umanitaria che fece scalpore nel 2016 quando centinaia di profughi abissini rimasero accampati per mesi in stazione S. Giovanni nella speranza di poter attraversare la frontiera con la Svizzera. Una città turistica come Como non poteva certo presentare ai visitatori uno scenario da campo-profughi nel cuore cittadino! Così disposero Carabinieri, Polizia di Stato, Guardia di Finanza e Polizia Locale a pattugliare l’area in concerto e intensificarono le costosissime deportazioni di migranti verso i centri di accoglienza del sud Italia. Il risultato di tali misure era che i migranti prendevano il treno o il bus dalla Puglia o dalla Calabria e facevano ritorno alla stazione della città di confine, allo stremo ma ancora decisi a raggiungere i parenti in nord Europa. E così giornalisti, politici, movimenti d’azione cattolici, centri sociali, squadre neofasciste, volontari, associazioni private, artisti, tutti presero parte all’inaspettato scontro di civiltà. Ma poi, di che civiltà stiamo parlando? Qual è il motore della civiltà, la compassione o la paura? Il clima di tensione sbollì solo quando in previsione dell’inverno il consiglio comunale decise di creare fra l’oratorio di S. Rocco, il cimitero monumentale e la ferrovia un complesso di prefabbricati gestito dalla Croce Rossa Italiana, dove i rifugiati venivano ospitati, ben nascosti dallo sguardo dei turisti chiaramente. Ma oggi la Croce Rossa non c’è più.
Riflettendo
su queste cose lungo il tragitto, noto che l’amministrazione comunale e la
Polizia di Como almeno sembrano avere a cuore l’incolumità dei cittadini che
proclamano di difendere. Se non altro ascoltano le loro paure, infondate o
meno. Al di là dell’ignoranza, l’ipocrisia, la xenofobia e i doppi fini
politici, ciò è ragionevole perché ogni governo in teoria dovrebbe interessarsi
alla sicurezza dei propri contribuenti. Un italiano X, generalmente, sa di
avere una certa protezione e di poter rivendicare i propri diritti in quanto
cittadino italiano, ovvero, membro di uno Stato con struttura e leadership
abbastanza forti e credibili da riuscire a tutelarlo, in Italia o all’estero
che sia. Il cittadino di una giovane nazione decolonizzata, come la Nigeria,
chi ha alle spalle per essere difeso all’estero se pure “a casa sua” viene è
trattato da subumano dai suoi stessi leader? Come può confidare nella giustizia
e nelle istituzioni quando il governo genera appositamente i blackout e manda i
soldati a sparare indiscriminatamente su gente innocente che non la pensa
uguale? Purtroppo, nel vocabolario di un nigeriano popolare –
e non solo – stazione di Polizia significa frode, estorsione, tortura e, non di
rado, morte. Sia chiaro, con questo non sto dicendo che tutti i poliziotti
nigeriani siano corrotti, anzi. Polizia ed esercito nigeriani sono intervenuti
nelle zone di conflitto di altri paesi africani portando un sostegno notevole e
sono ammirati in tutto il Continente per la preparazione e l’efficacia
dimostrate. Ahimè, però, in casa propria ognuno toglie le scarpe e l’odore che
ne esce difficilmente sa di rose: i salari ridicoli, la frustrazione clinica, la
provenienza da contesti sociali miserabili, la corruzione legittimata, la
mancanza di punibilità per i reati commessi sono alcuni dei fattori che portano
un numero considerevole di soggetti a sfruttare un distintivo per fini
personali, spesso commettendo abusi e infamità, mentre il sistema giudiziario
attuale non è disegnato per assistere chi è più indifeso. La SARS è un
esempio di questo cancro congenito nella società nigeriana. Acronimo di
Special Anti-Robbery Squad, la SARS è un corpo di polizia speciale creato nel
1992 e che negli anni si è macchiato di ogni sorta di crimine efferato proprio
come i delinquenti che insegue.
Nella Lagos dove risiede la mia famiglia, quando salgo in auto con Kelvin, i miei zii mi sconsigliano di sedermi sul sedile anteriore con lui dato che, vedendo due ragazzi vestiti bene, la Polizia potrebbe pensare – o voler pensare – che siamo rapinatori o yahoo boys ed inizierebbero a darci un sacco di wahala, come sarebbe potuto accadere benissimo a ShopRite con quei due grossi agenti in borghese. L’eccesso di violenza della Polizia contro i cittadini in Nigeria può essere paragonato a quello dei cops contro le comunità afroamericane e ispaniche nei ghetti statunitensi. Tuttavia, se in quest’ultimo caso esiste la componente razziale e dalla narrazione ormai romanzata del razzismo negli Stati Uniti (senza il quale non sarebbero gli Stati Uniti) nascono movimenti di protesta e hashtagismi globalizzati come Black Lives Matter, sul quale ora come ora un po’ tutti ci speculano, nel primo caso invece si tratta di quotidiana brutalità comunemente accettata da parte di un africano su un altro africano, brutalità della quale la maggior parte dei media internazionali non parlerà. Mio cugino un giorno mi raccontò di quando per leggerezza diede il suo cellulare ad un amico, un ragazzo affiliato agli omonile. Questo fece una chiamata col suo cellulare e la SARS intercettò la conversazione. In perfetto stile militare, la polizia speciale fece un assalto nell’abitazione dei miei zii sparando all’impazzata nel quartiere, per poi sfondare la porta e mettere in scompiglio tutte le cose. Mio cugino era a casa da solo, fu arrestato e sbattuto in una cella di sicurezza dove rimase per quattro giorni senza avvocati di ufficio né la minima possibilità di difendersi davanti ad un giudice finché la famiglia pagò per il suo “riscatto”. Innocente, avrebbe potuto essere trasferito a Kiri Kiri, il carcere di Lagos, e restarci dentro per settimane, mesi, chi lo sa, un anno o più. Tutto dipende come al solito dal potere d’acquisto di un individuo per la propria libertà. Un altro esempio di abuso d’ufficio in famiglia coinvolge mio padre. Anni fa, sulla via per andare a cambiare cento dollari da un aboki, venne fermato da due poliziotti che lo minacciarono di consegnargli i soldi, altrimenti lo avrebbero ucciso, sparso un po’ di banconote sul suo cadavere e inscenato il tentativo di fuga di un ladro. Mio padre, sapendo che avrebbero potuto farlo realmente, gli diede tutto ciò che possedeva, ma nella paura riuscì a leggere i nomi degli agenti sul distintivo che portavano al petto. Il giorno stesso si presentò con mia madre al comando di Polizia del quartiere per spiegare l’accaduto al generale della stazione e l’indomani riuscì a farsi ridare una parte della somma sottratta. Anche stavolta la storia ebbe un esito felice ma pure qui fu la pecunia a far scampare mio padre al pericolo immediato.
La violenza e l’eredità coloniale
Dietro
l’affermazione di zia Hannah dunque non vi è un pensiero pseudo-anarchico o
criminoso, ma una rassegnazione generalizzata ed insanabile verso lo Stato ed i
suoi emissari. Fortunatamente, fino ad ora non ci è capitato nulla di tragico
tranne qualche piccola mazzetta qua e là, ma anche solo l’aggressività verbale
degli ufficiali che abbiamo incontrato mi fa ridere amaramente del decantato
senso di fratellanza pan-africano di cui molti europei parlano: “Siete tutti
brotha and sistah fra di voi eh?” Non gliene faccio una colpa, non sanno niente
sull’Africa perché al sistema-mondo conviene di più mantenere l’oscurantismo
sull’Africa, salvo per Lucy, i safari, il Re Leone e, meno male, di recente la
musica afro-beats. Non sanno che la democrazia storica occidentale è un
esperimento fallito in molti Paesi ex-coloniali, dal momento che non è mai
stata scelta ma imposta con la Bibbia ed i moschetti. Non sanno che le
repressioni sanguinarie attuate oggi dai governi africani o sudamericani contro
chi manifesta pacificamente fanno parte di un’agenda neo-coloniale mirata alla
perpetuazione delle diseguaglianze e dell’oppressione.
Da secoli
ormai è in atto un processo di disumanizzazione dell’uomo africano di cui
l’Occidente non è l’unico responsabile. Pensandoci bene, a Badagry i primi a vendere
africani come schiavi ai mercanti europei furono gli africani stessi, i sovrani
locali oba. Una delle famiglie reali più influenti nell’odioso traffico furono
i Mobee; se uno decidesse di visitare Badagry non potrebbe evitare di fare un
salto al Mobee Royal Family’s Slave Relics Museum, dove le reliquie della
schiavitù sono ancora custodite. Ma cos’era di preciso lo schiavismo? Avete
presente i braccialetti e le collane di conchiglie bianche che per decenni i
venditori ambulanti senegalesi hanno provato a rifilarci e che solo negli
ultimi anni sono diventate di moda in Italia grazie a Chiara Ferragni? Ecco,
quelle conchiglie chiamate cyprea moneta o cauri erano l’euro degli imperi
africani pre-coloniali. Ma quando nel 1440 l’anglo-portoghese Prince Henry
giunse a Badagry con la sua flotta, a differenza della Ferragni egli non
riconobbe il valore monetario dei cauri, così venne stabilito di utilizzare il
baratto per le transazioni commerciali con i re. Da allora cinquecentomila
uomini, donne e infanti, in maggioranza Yoruba, furono catturati come
prigionieri di guerra nell’entroterra, fatti arrivare a Badagry e scambiati per
altri beni “di valore”, quaranta africani per un ombrello, dieci per una
bottiglia di gin, cento per un cannone grande usato per combattere guerre
fratricide contro altri africani. Una volta ceduti agli europei nelle aste di
Vlekete market, gli schiavi venivano marchiati sulla pelle con il nome del
proprietario come bestiame. I cosiddetti house slaves venivano evirati
di pene e testicoli. Nei tre mesi antecedenti l’imbarco essi venivano
ammassati in quaranta in celle strette e prive di sufficiente aereazione, le
donne violentate davanti ai mariti, ai figli, e lasciate a partorire doloranti
nel letame, le ossa spezzate per chi aveva le braccia troppo grosse per
indossare le catene, le labbra bucate e serrate con lucchetti metallici perché
nessuno potesse nutrirsi delle canne da zucchero raccolte col proprio sudore, i
bambini incatenati per tutto il giorno così da evitare distrazioni alle madri,
i cani addestrati all’inseguimento e all’uccisione dei fuggitivi, le
impiccagioni e le flagellazioni punitive diarie. Quando il numero di schiavi
raggiungeva il livello massimo di capacità di una nave, essi venivano
traghettati sull’isola di Gberefu di fronte a Badagry Town.
Lì, venivano
costretti a bere l’acqua dal pozzo di attenuazione dello spirito degli schiavi.
Tutt’ora non si sa se l’acqua fosse corretta o jazzed, cioè stregata con il
juju, sta di fatto che bevendo da quel liquido gli schiavi venivano rintontiti
prima di essere condotti al punto di non ritorno, dove finalmente venivano
fatti salire a bordo, sofferenti e annichiliti. Camminando oggi per l’isola è
difficile credere che in un tale paradiso naturale si possa essere consumata
una barbarie del genere. Chi non reggeva le umiliazioni e le atrocità
si lasciava morire per poi essere seppellito in mezzo agli alberi di cocco o
gettato nell’Atlantico in acque infestate di pescecani. Così milioni e
milioni di vite umane, in catene pesantissime e incandescenti, venivano vendute
praticamente a gratis per quattrocento anni in cui il resto del mondo si
sviluppò impassibile e rapido, gettando le basi del capitalismo contemporaneo
attraverso il sistema produttivo della piantagione estesa. Solo
centosessant’anni fa nei bar dello Stato Pontificio, di Liverpool o Amsterdam, sniffando
tabacco e mescolando lo zucchero nel caffè, ancora si rifletteva se i negri
avessero un’anima o meno mentre persone che nella loro vita non avevano mai
visto l’oceano venivano immagazzinate in seicento, in mille, nelle pance
asfissianti e nauseabonde delle navi negriere e spedite verso una destinazione
ignota in schiavitù perpetua.
La storia
diventa ancora più raccapricciante se si pensa che all’epoca esisteva una
tratta più antica di quella europea, quella araba; si stima che nello stesso
lasso temporale della tratta transatlantica essi portarono quasi tredici
milioni di africani dall’Africa orientale nei califfati asiatici attraverso il
Sahara, il Mar Rosso e il Pacifico. Basta fare una piccola ricerca in internet
sugli Zanj di Turchia e Iraq o sui Sidi in Pakistan e in India per capire le
dimensioni globali della Maafa. Questi schiavi, spesso giovanissimi, avevano
principalmente una funzione sociodemografica: le femmine venivano vendute come
concubine, o meglio, come schiave sessuali mentre i maschi utilizzati come
soldati o servi eunuchi. Solo con l’influsso dei portoghesi e dei britannici
nel Pacifico gli schiavi vennero impiegati maggiormente nel lavoro forzato,
nelle immense piantagioni di riso e di tè. A parte casi eccezionali in cui
qualche africano riuscì a ricoprire ruoli di comando nei ranghi militari e
religiosi, le condizioni di vita della maggior parte degli schiavi negli imperi
islamici erano incredibilmente orribili, trattati come bestie e finendo spesso
nelle mani di psicopatici, seviziatori e pedofili. Pur non essendo riconosciuti
come le popolazioni negre del continente americano o europeo, al giorno d’oggi
esistono milioni di afro-discendenti in Asia che reclamano maggiore uguaglianza
e rappresentanza politica.
Leader che amano i cittadini
Anche negli
eventi più macabri la storia ha il suo senso dell’umorismo, basti pensare a Ifaremi,
conosciuto anche come sir Williams Seriki Abass, preso schiavo all’età di sei
anni in un villaggio dell’odierno stato federale di Ogun e che, una volta
liberato, divenne anch’egli trafficante di esseri umani. Schiavo domestico di
uno studioso musulmano del Benin di nome Abass, Ifaremi fu rivenduto ad uno
schiavista brasiliano di nome Williams, che lo portò in Brasile e gli insegnò a
leggere e a scrivere nelle lingue dei bianchi: portoghese, spagnolo, inglese ed
olandese. Un giorno il signor Williams pose ad Ifaremi una domanda cruciale:
“vuoi tornare in Africa come uomo libero e collaborare nel business degli
schiavi con me o vuoi continuare ad essere il mio schiavo?”. Ifaremi scelse la
prima opzione. Al ritorno in madrepatria, egli divenne il proprietario del
Brazilian Barracoon, la struttura dove milleseicento schiavi venivano
imprigionati prima di essere caricati sulle navi. Dato il suo forte interesse
per la religione islamica, la comunità musulmana di Badagry gli diede la carica
onorifica di seriki. Da qui Williams Seriki Abass. Egli ebbe centoventotto
mogli e centoquarantaquattro figli. Oggi i bambini, discendenti di Ifaremi,
giocano in quell’edificio fatiscente che è casa loro, corrono sorridendo come
se i segni della morte e dell’avidità demoniaca dell’uomo non li turbasse,
troppo impegnati a gioire della vita. Un foglio appeso al muro giallo ocra
scrostato recita: “Noi discendenti ci pentiamo e siamo davvero dispiaciuti per
il ruolo e la collusione di Williams Seriki Abass nella tratta di schiavi
transatlantica, o per forza o per scelta. Ci dispiace tanto”.
Tutto questo
è per dire cosa? Che nei miei libri di scuola la schiavitù era giusto tre o
quattro paragrafetti in un tomo di trecento pagine? Che dovrei smettere di
fumare sigarette della British-American Tobacco? Che girando per Napoli, fra un
caffè sospeso e una pizza al portafoglio, potrei ricordarmi delle migliaia di
africani passati in uno dei più grandi porti schiavistici nel Mediterraneo del
‘600? Forse, ma non è solo per dire questo. L’Africa risorgerà quando i leader
africani cominceranno ad amare gli africani, mettendoli al primo posto di
tutto, insegnando agli africani ad amare sé stessi e ad avere fiducia nelle
istituzioni. Thomas Sankara, Patrick Lumumba, Steve Biko, Ken Saro Wiwa, Fela
Kuti e tanti altri provarono a cambiare una mentalità disumanizzante. Tutti
furono assassinati, ma ci provarono. Non è giusto incolpare i discendenti dei
Mobee o di sir William Seriki Abass che con passione tentano di mantenere viva
la memoria di questo luogo di dolore. È vero, in qualche modo con il
turismo lucrano su questa memoria ma ho potuto leggere nei loro occhi il peso
dell’eredità lasciata dai loro antenati. Quello che voglio dire è che
finché gli agenti di polizia estorcono soldi ai cittadini onesti, finché i
militari scaricano i caricatori addosso a giovani disarmati che reclamano solo
il diritto di vivere, finché i dipendenti dello Stato intascano tangenti per
fare il loro dovere, finché l’estrazione del petrolio arricchisce schifosamente
solo governatori e compagnie petrolifere straniere distruggendo ecosistemi,
finché il presidente si assenta per mesi per farsi curare all’estero anziché
negli ospedali del Paese, finché gli alti funzionari africani tacciono di
fronte ai loro figli seviziati in Libia o annegati nel Mediterraneo, non ci
potrà mai essere perdono sincero per i nostri re.
Nessun commento:
Posta un commento