Scuola e contesto pandemico
Ormai è
diventata una questione personale, ove l’interesse pubblico – qualunque esso
sia – viene marginalizzato. Il concorso straordinario docenti che prenderà il
via il prossimo 22 ottobre è l’obiettivo politico personale della Ministra
Azzolina, rispetto a cui nulla conta il contesto reale del Paese, la seconda
ondata di Sars-Cov2, ansie ed istanze di un’intera classe, quella de* docent*
precar*, che come è italica tradizione viene sfruttata e marginalizzata
all’occorrenza.
Partiamo
allora dal contesto pandemico, che di fatto ha riportato alla luce l’importanza
di indagare il rapporto pubblico/privato, analizzando come si è modificata la
relazione fra i due e quale ruolo tende ad assumere in questa fase di emergenza
il pubblico[1]. Innanzitutto l’evidenza ha mostrato, oltre le
narrazioni catastrofiche che potevano apparire viziate dalla condizione di
sfruttamento di chi le viveva, lo stato reale in cui versano le Istituzioni del
Welfare in Italia, ciò che ne rimane, quanto siano fondamentali come
infrastruttura democratica in un Paese esso stesso precario come il nostro.
La
fotografia che ne è emersa è forse ancor più desolante della narrazione.
Il forte
senso di precarietà indotto dal primo lockdown e
dalla prolungata paralisi di diversi settori produttivi ha fatto emergere il
generalizzato bisogno di Welfare, emersione che ha infranto il mito neoliberale
secondo cui la regolamentazione migliore sarebbe quella lasciata all’autonomia
privata, mostrandone tutta la fragilità ideologica.
Il
coronavirus ha avuto anche il merito, e va sottolineato, di aver stimolato
pratiche solidaristiche importanti, di aver incoraggiato forme di mutuo aiuto
fra le diverse soggettività che animano la scuola (docenti – alunn*- genitor*),
così dando una significativa consistenza al comune[2].
Se la scuola
è sempre stata una realtà complessa, il suo scopo primario nella nostra
Repubblica è tuttavia stato il libero sviluppo della persona in formazione. Lo
sottolineava efficacemente Stefano Rodotà, ricordandoci come la scuola pubblica
sia un vero e proprio organo costituzionale, la prima e più importante
Istituzione: “Alla scuola pubblica si deve guardare come al luogo del sapere
libero e disinteressato, che è la forma del sapere che costruisce il cittadino.
Se l’attenzione, invece, è sempre più rivolta al “settore produttivo”, si ha di
vista una formazione tutta strumentale, fatalmente riduttiva, persino inadeguata
a quelle esigenze di flessibilità culturale che oggi accompagnano qualsiasi
lavoro”[3].
Il principio
del libero sviluppo della persona (Artt. 2 e 3 Cost.) dà sostanza e
orientamento allo stesso diritto all’istruzione di studentesse e studenti
previsto dall’art. 34 della Costituzione. Ciò giuridicamente implica che pure
l’amministrazione statale deve conformare l’organizzazione scolastica nel modo
più congeniale possibile alle diverse soggettività che “abitano” la scuola. La
stessa Corte costituzionale ha sottolineato efficacemente come organizzazione e diritti siano“aspetti speculari della stessa materia, l’una e gli altri
implicandosi e condizionandosi reciprocamente. Non c’è organizzazione che,
direttamente o almeno indirettamente, non sia finalizzata a diritti, così come
non c’è diritto a prestazione che non sia condizionato dall’organizzazione”[4].
Oggi, però,
lo scopo primario della scuola pare essere transitato maggiormente verso
l’aspetto funzionalmente economico, nella formazione di consumatori e
lavoratori più che di persone, come d’altronde Confindustria, che pare avere un
ruolo di assoluto primo piano nelle decisioni governativa, ha confermato pochi
giorni fa.
A conferma
che, nella sospensione dovuta alla pandemia, il tema della necessità di una
programmazione statuale è divenuto quanto mai evidente, e in questa
programmazione la scuola pubblica ha giocato e gioca un ruolo economicamente
fondamentale. In tal modo, però, si accelera una deriva neoliberista della
scuola pubblica, già da tempo sotto assedio.
Pare
legittimo, difatti, chiedersi a quale programmazione pubblica ha pensato il
Ministero dell’Istruzione. Il pubblico quale obiettivi ha voluto perseguire?
L’obiettivo
concreto della riapertura delle scuole a settembre, infatti, non è di certo
stata la declamata tutela del pur fondamentale diritto allo studio di
studentesse e studenti, che resta penalizzato nella sua continuità dalle
crescenti quarantene di classe o dalla mancanza di organico resa farraginosa se
non impossibile dalle novità introdotte dalle graduatorie provinciali (GPS).
L’obiettivo vero della riapertura delle scuole a settembre è stato quello di
consentire che l’ingranaggio economico potesse ripartire, togliendo i minori
(scomodi, untori, vittime a seconda del contesto, mai soggetti sempre oggetti
funzionali alla giustificazione di scelte sulla loro pelle) dalle case per
permettere, comprensibilmente, ai genitori di tornare regolarmente al lavoro.
La scuola, quindi, è stata caricata di un surplus di Welfare che
strutturalmente non può durare molto e che potrebbe portare alla sua chiusura
in presenza coll’aggravarsi della pandemia[5].
Ad ogni modo
la scuola è ricominciata, all’estate è seguito l’autunno con l’evidente ripresa
dei contagi come annunciato da marzo e con essa la possibilità continua e a
geometria variabile delle quarantene. Ma già alla prima quarantena la scuola
inizia a scricchiolare: quando la classe viene messa in quarantena preventiva,
difatti, dovrebbe essere garantita la didattica a distanza, ma non dai docenti
della classe – anche essi in quarantena – che sono considerai in malattia e
dunque non devono (non possono) lavorare[6]. Sicché la continuità didattica
viene comunque penalizzata, con ripercussioni sul diritto all’istruzione di
studenti e studentesse, già provati da una apparente “normalità” costruita
artificialmente, che l* costringe a un disciplinamento rigoroso: seguire
lezioni con mascherine, ridimensionare la socialità, evitare di condividere
materiale scolastico, mantenere il distanziamento sociale per le ore di
lezione. Rigore che però sembrano aver compreso responsabilmente più gli
studenti di molte altre figure, negazioniste di nome o più semplicemente di
fatto.
Durante
l’estate è stata costruita una campagna grottesca finalizzata a rappresentare
l’istituzione scolastica come istituzione totale COVID-free per eccellenza, con
banchi adeguati, distanza più o meno garantite, dispenser di gel igienizzante
in ogni classe, mascherine per tutte e tutti. Il tutto “garantito” dalla
confusione e schizzofrenia del decentramento del governo della scuola pubblica
e quindi di fatto da un’assoluta disparità regionale, disomogeneità e incuranza
di “chi rimane indietro”.
Detto
questo, possiamo dire che la programmazione della Ministra sia stata da una
parte una operazione di propaganda, dall’altra una velocizzazione del processo
di autonomia scolastico con la strutturazione delle graduatorie (GPS) non più a
carico della amministrazione centralizzata dello stato: di fatto rispetto alla
tutela del diritto allo studio e al contesto pandemico una programmazione
contraria ad ogni buon senso e razionalità che dovrebbe di default appartenere
a chi governa, quanto meno. La programmazione si è rivelata infatti priva di
qualsiasi piglio e previsione sistemica, non coordinata con il mondo reale, con
il sistema dei trasporti urbani ed extraurbani, con le altre amministrazioni
territoriali. Perché la scuola non è un compartimento stagno, non è solo un
luogo fisico da preservare. La salute dei cittadini e delle cittadine va
garantita a 360° anche prima e dopo la scuola, altrimenti si vanifica tutto il
lavoro svolto per rendere la scuola, al suo interno, sicura e salubre, come
d’altronde dimostra il crescente numero dei contagi e delle classi messe in
quarantena fiduciaria. Anche da noi, come per la verità in altre esperienze
maggiormente stataliste quali la Francia, il crescente bisogno di Welfare si è
infranto in una generalizzata disorganizzazione del pubblico. La scuola, in
particolare, ha mostrato una forte ma inefficace presa della decisione pubblica
e una debole capacità programmatoria, causata da una deliberata decisione
politica e strutturale (dell’insieme dei governi che si sono avvicendati) che
nel tempo ha tagliato risorse fondamentali da destinare all’istruzione, così
scegliendo di mantenere una inadeguata edilizia, personale precarizzato,
affollamento delle classi.
Oltretutto
resta il dubbio che, al di là del clamore mediatico e dell’egotismo della
Ministra, tutto il fardello organizzativo e le connesse responsabilità siano
state scaricate sui singoli Dirigenti scolastici… Nessuna delle significative
indicazioni avanzate dalle mobilitazioni spontanee che si sono date ovunque in
Italia, nonché dall’attivismo di Priorità alla scuola (coordinamento nazionale
di genitori, insegnanti, studenti e personale ATA) sono state raccolte per la
messa in moto della macchina scolastica a partire da quella di trasformare la
scuola in un importante presidio sanitario con un adeguato e formato personale.
Certificare le vestali della nuova scuola
In questo
desolante contesto, però, il concorso straordinario docenti per la Ministra
Azzolina si deve fare. A nulla serve la constatazione che, per esigenze
epidemiologiche, altri concorsi sono stati rinviati già prima dell’ultima
impennata dei contagi da COVID-19. Quel che conta è che resta invariato il
concorso per Carabinieri. A dimostrazione che, ad esempio, future/i magistrate
e magistrati, o dipendenti del Comune di Roma, sono meritevoli di tutela, ma i
e le docenti precari(e) no. Loro non solo vanno utilizzat* in massa, non senza
ritardi nell’assunzione (ulteriore problema organizzativo sfuggito alla
Ministra Azzolina e al farraginoso e già citato sistema delle GPS), per far
ripartire l’anno scolastico, ma nella situazione attuale devono svolgere il concorso,
molto spesso dovendo anche raggiungere altre Regioni[7], se vogliono la stabilizzazione del
posto, se aspirano ad una loro dignità sociale: tutto il resto non conta. Non
conta la pandemia, in termini concreti: chi sarà sfortunatamente in quarantena
o in isolamento fiduciario nelle date del concorso semplicemente è stato
sfortunato e non lo farà, una sorta di darwiniana selezione naturale insomma.
Non conta
neanche la situazione psicologica condivisa da questa tipologia di lavoratori,
dopo la DAD forzata e improvvisata imposta loro lo scorso anno scolastico, dopo
l’attesa delle convocazioni inconciliabili con la preparazione del concorso,
dopo il terrore del contagio non solo per la propria salute e quella dei propri
“congiunti”, perché non è prevista alcuna prova suppletiva in caso di COVID-19,
né di quarantena forzata, né di isolamento fiduciario. Non contano le
mobilitazioni degli stessi docenti, le voci che si sono alzate, né le rivendicazioni
sostenute dall’insieme delle parti sindacali. Per non parlare dell’annoso
problema della rappresentanza sindacale dei lavoratori e delle lavoratrici
precarie[8].
Tuttavia la
necessità del concorso non è davvero messa in discussione da nessuno. Il
problema, rebus sic stantibus, è il quando. Poi, politicamente, qualche considerazione
merita pure il come. Si avverte infatti la
necessità di una ricostruzione degli interessi collettivi in gioco maggiormente
consapevole della concretezza della situazione cui versa il precariato della
scuola da ormai troppi anni.
Ma sul punto
il Ministero è sordo, e procede dritto in maniera autoritaria. “Io insisto molto – ha spiegato Azzolina – perché i concorsi nella scuola si facciano perché in questo modo
si assumono veramente i precari rispettando la Costituzione, secondo un
principio anche di merito. Sfatiamo il mito che non si possono fare i
concorsi. Il giorno 22 ottobre è l’inizio delle prove”[9].
Su questo
“principio del merito”, vero e proprio mantra neoliberale[10], che occorre prima spendere qualche
breve riflessione. Parola insidiosa e ambigua, il “merito” finisce per
giustificare storture sistemiche di non poco conto, facendo per altro
serpeggiare l’idea che gli attuali insegnanti precari non siano meritevoli. Non
basta una laurea, talvolta master e dottorati e corsi di perfezionamento pagati
cari e con i propri risparmi al business della formazione privata per acquisire
qualche misero punto in graduatoria, l’acquisizione dei famigerati 24 CFU in
materie antropo-psico-pedagogico e nelle metodologie e tecnologie didattiche,
l’esperienza accumulata in diversi (o anche molti) anni di attività sul campo.
Per attività sul campo, si intende in aula, nella relazione concreta con i
colleghi, ma soprattutto con le studentesse e gli studenti. Le e i docenti
italian*, “capitale umano” indispensabile per permettere alle scuole di
funzionare e garantire un servizio pubblico essenziale, devono dimostrare
sempre di più.
Devono
sottoporsi ad un concorso per esame – una modalità alquanto tradizionale in
beffa alla decantata innovazione di cui vari riformatori recenti si sono
vantati – che ha modalità ancora poco chiare, e che comprende come presupposto
lo studio di programmi ministeriali sproporzionati, eccessivamente
contenutistici, ma anche l’apprendimento delle nuove metodologie didattiche
neoliberali (la learnification nel new public management) e in più, ovviamente, continuare
a lavora per la scuola che senza loro non potrebbe neanche aprire.
Di questo
concorso, cui non esistono motivi ragionevoli per non spostarlo ad emergenza
pandemica terminata, è chiara solo la forte matrice ideologica, quella che mira
a constatare che gli aspiranti docenti di ruolo abbiamo acquisito realmente gli
strumenti per espletare il ruolo di “sacerdoti della scuola
neoliberale”. L’insegnamento, infatti, è diventata sempre più una
“professione normata” così minuziosamente da anni a questa parte, da
schiacciare la libertà di insegnamento (Art. 33 Cost.) dentro il tunnel della
somministrazione di test, questionari, INVALSI: dentro il comando del capitale
cognitivo gli insegnanti si trasformerebbero in un ingranaggio in grado di
ammaestrare la forza lavoro nella maniera più congeniale al mercato, operatori
e operatrici addett* a plasmare le soggettività in formazione in senso
neoliberale e a controllare le condotte dei discenti. Tale formazione, difatti,
assume al cuore del suo progetto le famose “competenze”, che nella traduzione
corrente si declinano nel sapere (fare per) essere (produzione
di soggettività) dentro la relazione, ma anche in competizione individuale e
individualizzata con gli e le altr*, insieme al saper fare e sapere (come fa
ben nota di sapere nel suo documento Il coraggio di cambiare il
presidente di Confindustria Carlo Bonomi). L’esito delle condotte-competenze
raccolte nel portfolio nel tempo come indicato dalle indicazioni e Linee guida
nazionali sarà alla base della certificazione de* student* in una scuola sempre
più legata agli interessi di un mondo del lavoro profondamente modificato.
Senza entrare nel merito delle trasformazioni della scuola che sono dettate dal
passaggio di un modello fordista (riconfigurato anche alla luce da decenni di
lotte) al modello della scuola del capitalismo cognitivo, in questa sede
vogliamo sottolineare come questo passaggio in questo preciso momento si
consolida con un salto di violenza simbolica e materiale sulla pelle di
migliaia di precar*. Il coraggio di cambiare di Bonomi, infatti, pare a buon
titolo sposarsi proprio con l’azione politica di Azzolina, che in una scuola
pandemica e accerchiata da più parti non pare mollare minimamente
sull’imminente concorso a riprova che il decantato “merito” di cui la Ministra
parla ha l’effettivo merito di rappresentare la misura di un cambio di velocità
che il capitale ha dettato e che ha proprio al centro il Welfare, e soprattutto
la scuola. Perché allora stabilizzare e assicurare dunque tutele ufficiali
lavorative a migliaia di vecch* precar* che lavorano da anni nella scuola,
quando l’obbiettivo è quello di produrre una nuova soggettività, prima di tutto
tra gli stessi insegnanti, che devono essere in grado di dimostrare
pubblicamente – attraverso anche le forche caudine di un concorso che ha ormai
assunto la forma di una rituale collettivo di umiliazione – di avere
introiettato bene ed entusiasticamente la lezione, quella di dover diventare le
vestali del merito della scuola del new public management?
Eppure, si
diceva, tutt* aspettano un concorso. Non a queste specifiche condizioni, però.
Senza considerare che non necessariamente il concorso pubblico deve essere per
titoli ed esami, potendosi prevedere, tanto più in situazioni straordinarie, un
concorso per soli titoli (come ad esempio avviene per il personale
tecnico-amministrativo delle scuole), o anche un concorso per titoli ed esame
orale.
O anche una
verifica effettiva su un’annualità di servizio, insomma pare che tutt* per
questa ammaccata società desiderino insegnanti su cui scaricare frustrazione e
umiliazione, mentre al contrario dovrebbe essere una figura professionale
significativa: una figura in grado di trasmettere fiducia nel futuro, passione
per il sapere critico, autonomia di giudizio e di azione, senso civico e di
responsabilità per il prossimo, passione per la “cosa comune”.
In chiusura
va dedicata una riflessione al ruolo delle donne in questa battaglia cieca
contro l’irrazionalità e l’arroganza di questa Ministra, seppur donna e più in
generale alla gestione – sociale – del contesto pandemico. Non è retorico dire
che le donne hanno scontato le criticità del lockdown e la
sofferenza inflitta dalla pandemia in modo soggettivamente più violento
rispetto agli uomini, in particolare quello specifico tipo “maschio bianco
etero” che ancora pretende di governare il mondo. Seppur messo a tacere nei
contesti mainstream come discorso retorico e risolto con la
cessione di quote rosa, la battaglia femminista disvela ad esempio quanto la
casa venga riaffermata come perno concreto e simbolico della supposta
equivalenza tra donne e attività di cura e riproduzione sociale. Che siano le
donne a doversi fare carico di figli e figlie mentre le scuole sono chiuse o in
modalità didattica mista è dato per scontato, tanto che anche in ambito
lavorativo sono ricorrenti i riferimenti all’inclinazione naturale delle donne
al lavoro di cura. Nella scuola poi tali riferimenti si caricano di missione
resa inevitabile dall’istinto materno di cui le donne sono portatrici dalla
nascita.
E la
Ministra e il suo apparato confidano evidentemente in queste “qualità” di
genere, visto che le ultime statistiche rispetto alla percentuale di donne
impiegate nella scuola supera l’80% del totale.
[1] Cfr. M. R. Marella, G. Marini,
L. Nivarra, Editoriale, in Rivista critica del diritto
privato, n. 1-2/2020, p. 1 ss.
[2] Si rinvia a R. Pompili, “Una scuola fantastica”, EuroNomade, 22 settembre 2020.
[3] S. Rodotà, Se l’istruzione per tutti diventa un bersaglio, in La
Repubblica, 3 marzo 2011, reperibile on-line al link https://www.repubblica.it/scuola/2011/03/03/news/se_l_istruzione_per_tutti_diventa_un_bersaglio-13116097/.
[4] Corte cost., 27-11-1998, n.
383. In dottrina, sul nesso fra organizzazione e diritti costituzionalmente
garantiti, cfr. G. Rossi, Principi di diritto
amministrativo, Torino, Giappichelli, 2010, p. 111 ss.
[5] Paradigmatico il caso Campania
e la parziale marcia indietro che De Luca ha dovuto fare a seguito della
chiusura incondizionata di tutte le scuole lo scorso 15 ottobre con l’ordinanza
n. 79: ordinanza subito modificata il 16 ottobre, anche su richiesta sindacale,
per lasciare aperte almeno nidi ed asili (ordinanza n. 80: http://www.regione.campania.it/assets/documents/ordinanza-n-80-16-10-2020.pdf).
[6] Ciò è sottolineato anche
dal Rapporto ISS COVID-19 n. 58/2020 Rev. – Indicazioni operative per
la gestione di casi e focolai di SARS-CoV-2 nelle scuole e nei servizi
educativi dell’infanzia. Versione del 28 agosto 2020.
[7] Durante la fase di
compilazione della domanda le candidate e i candidati hanno scelto la regione
in cui partecipare e in cui otterrà l’immissione in ruolo, facendo attenzione
alle aggregazioni territoriali. Il Ministero scrive infatti nell’avviso
pubblicato in GU del 29 settembre “Ai sensi dell’art. 400, comma 02, del testo
unico, in caso di esiguo numero dei posti conferibili in una data regione,
l’USR, individuato nell’Allegato B del D.D. n. 783 dell’8 luglio 2020 quale
responsabile dello svolgimento dell’intera procedura concorsuale, provvede
all’approvazione delle graduatorie di merito sia della propria regione che
delle ulteriori regioni indicate nell’Allegato B medesimo.
Pertanto, i
e le precari(e) che abbiano presentato domanda per le regioni per le quali è
disposta l’aggregazione territoriale delle prove, espleteranno le prove
concorsuali nella regione individuata quale responsabile della procedura
concorsuale. Alla faccia delle esigenze epidemiologiche!
[8] D’altronde i sindacati e la
loro capacità di incidere per l’effettiva tutela dei lavoratori sono un
capitolo a parte nell’attuale storia italiana.
[9] Vedi Concorso straordinario, Azzolina: insisto perché si faccia. 22
ottobre inizio prove e saranno sicure, in OrizzonteScuola.it, 16
ottobre 2020.
[10] Cfr. M. Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Roma-Bari, Laterza,
2019; e la seconda edizione di V. Pinto, Valutare e punire,
Napoli, Cronopio, 2019.
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