«Per vedere cosa c’è sotto il proprio naso occorre un grande sforzo», ha scritto George Orwell. Facciamolo. Sotto il nostro naso c’è una convivenza non breve con il Covid.
È evidente che potremo tornare alla normalità, forse,
nell’estate del 2022. Ma sarà una normalità fatta ancora di mascherine,
distanze, paure.
E sempre che la corsa ai vaccini (questa nuova corsa
alla bomba: una durissima partita di denaro e potere) non sia così forzatamente
accelerata da portare al disastro di effetti collaterali tanto gravi da
spaventare l’opinione pubblica mondiale, innescando così un testacoda dagli
esiti imprevedibili.
Pessimismo? Un po’ di realismo, in un discorso
pubblico che sembra averlo completamente smarrito. A metà novembre, con oltre
500 morti al giorno, il governo discute dell’ampiezza del cenone natalizio. Del
resto, è il Paese in cui l’ovvia seconda ondata del virus costringe il ministro
della Salute a ritirare un libro incredibilmente ottimista sulla prima ondata.
Basterebbe questo disastro cognitivo a spiegare come è potuto succedere quel
che è successo: abbiamo vissuto il presente, senza alcuna capacità di pensare
al futuro.
Ciechi guidati da altri ciechi: eccoci nel fosso.
La politica, certo: questo mediocre, imbarazzante
Governo. E la peggiore opposizione che si potesse immaginare: tanto peggiore
del Governo, da rendere impensabile il minimo cambiamento in meglio.
Un Governo che non ha usato il potere che la
Costituzione (all’articolo 120) gli conferisce per sostituirsi alle Regioni
inerti quando ne va del bene pubblico. Poteva, doveva farlo: sui trasporti,
sugli ospedali. Invece niente: solo un grottesco, infinito minuetto con i
presidenti delle Regioni. Che sono ancora, e ancora e ancora, peggiori del
Governo: tutti, di qualunque colore siano. Contro ogni retorica del
decisionismo, il presidenzialismo delle Regioni non ha generato capacità di
governare: ha generato solo una riduzione della democrazia, e un
plebiscitarismo paralizzato e inconcludente (https://volerelaluna.it/commenti/2020/11/08/la-grottesca-rivolta-dei-governatori/). Oggi l’unica riforma seria da
immaginare sarebbe sopprimerle, queste Regioni.
Ma, e dovremo pur vedere anche questo, gli italiani
non sono stati affatto migliori dei loro governanti. Irresponsabilità estive,
egoismi, ignoranza, cialtronaggine: un unico assurdo assembramento, da maggio a
ottobre. Come i governanti, così i governati: nessun amore per il futuro, solo
il consumo del presente.
E quando è così, quando cioè il problema è culturale,
la cura non può che essere, anch’essa, culturale. E invece, come un malato che
nel raptus scagli via la sua medicina, ci siamo subito strappati di dosso la
cultura.
Le scuole (in ogni ordine e grado) e le università
avrebbero dovuto essere l’ultimissima cosa a chiudere. Invece sono cadute
subito. Mentre in Francia, in Germania, nel Regno Unito le scuole vengono
sentite come l’ultima trincea della civiltà, da noi si chiudono perché nessuno
ha saputo governare gli autobus. L’abbiamo sempre disprezzata la scuola: ora
gettiamo solo la maschera. Abbiamo preferito le discoteche: qua sta la cifra
del nostro fallimento. Morale, prima che politico, o organizzativo. La scuola,
su tutto, è il luogo del futuro. La didattica a distanza è una non scuola:
senza mezzi adeguati (nessuno ha costruito una piattaforma pubblica…), senza
giustizia, senza calore, Una scuola senza scuola che colpisce a morte una
generazione che è la nostra riserva di futuro.
E poi i teatri, i cinema, i musei: e le biblioteche, e
gli archivi. Luoghi di lavoro anch’essi: luoghi dove si lavora, e dove si va al
lavoro. La ricerca scientifica (di ogni disciplina) è stata chiusa subito,
piegando come cartacce le vite di migliaia di ricercatori precari, non
garantiti. Tutti luoghi che, con gran fatica e con tangibile successo, erano
stati resi non pericolosi: almeno non più pericolosi dei parrucchieri e dei
ferramenta che restano aperti anche nelle zone rosse.
Perché, vedete, l’unica speranza di guarire da questo
“alzheimer al contrario” – da questa malattia che ci fa dimenticare il futuro –
è la cultura. La scuola, con tutti i suoi limiti e difetti. Ma anche con la sua
grande, insostituibile forza. La ricerca: la continua messa in discussione del
sapere stabilito. L’arte, in tutte le sue forme: quel che ci avvince alla vita,
che ce ne fa desiderare ancora. È tutto questo a renderci, più di ogni altra
cosa, capaci di futuro.
Quando i padri costituenti scrissero (nel primo comma
dell’articolo 9) che la Repubblica era fondata anche sulla promozione dello
sviluppo della cultura, sulla ricerca, sul paesaggio, sulle biblioteche, sugli
archivi, sui musei, ebbene lo fecero perché fossimo vaccinati contro il ritorno
di un altro virus, il fascismo.
Lungo i decenni, via via che tutto il progetto della
Costituzione veniva dimenticato, abbiamo perso coscienza anche di questo: non
sappiamo più cosa farcene di questa “cultura”.
Ora, però, forse torniamo a capirlo. Forse capiamo che
l’Italia non è più capace di futuro perché da troppo tempo ha voltato le spalle
alla cultura. Abbiamo clamorosamente perso l’occasione della prima pausa del
virus. Ma, purtroppo, avremo altre pause, e poi altre ondate.
Se continueremo ad affrontarle strappandoci di mano
ciò che ci consentirebbe di pensare al futuro – scuola, ricerca e cultura – non
avremo futuro. E non sarà colpa del virus: sarà colpa nostra.
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