Oscar Wilde, o meglio il suo avatar letterario, il meraviglioso giovane immutevole Dorian Gray, pensa che l’arte debba essere “inconsapevole, ideale e remota”. Non proprio chiarissimo, il suo manifesto estetico espresso in questi termini. Ma è proprio questo il punto. L’opacità. L’arte deve scrutare oscuramente, deve parlare come attraverso uno specchio per consentirci di sfiorare i paesi delle meraviglie. Ma quello specchio, appunto oscuro, non dovrà servire a rispecchiare, o non soltanto: non sarà lo specchio asservito di un servo che si limita a specchiare di nuovo, ma una superficie riflettente che flettendo la luce, potrà farci riflettere. Flettere di nuovo. Flettere meglio.
Mi chiedo se non possa giovare a dirimere l’arcano di
quella sententia wildiana, un vecchio e trito esercizio
didattico ispirato al contraria facere, cioè il tentativo di
definire qualcosa tramite la sua opposizione. Parlando di specchi, ad esempio,
immaginiamoci che il numero 1, specchiandosi bramoso di vedersi come davvero è,
finisca poi per scorgere di fronte a sé, non quel che è, ma il suo correlativo
negativo. Se l’1 e il -1 si avvicinassero fino a toccarsi, il loro punto
d’incontro sarebbe 0, ovvero una tensione all’infinito. Quello stesso 0 che è
anche l’ovale dello specchio.
Come sempre capita, l’immagine riflessa in uno specchio
non è un fedele ritratto ma un ritratto al contrario: quella figura che si ha
davanti non siamo noi, siamo noi meno noi stessi. Una superficie. Per questo,
forse, l’amico di Dorian, Lord Henry Wotton suggerisce che “il mistero del
mondo è il visibile, non l’invisibile”. Ma poi, a ben vedere, se le superfici
sono davvero quel che siamo, certo lo sono in virtù di qualcosa di soggiacente,
e anche di qualcosa di proiettato. Del passato nascosto e del futuro ignoto,
insomma. E allora sì che ritorna anche il senso di altre parole de Il
ritratto di Dorian Gray, ovvero che l’arte è al contempo “superficie e
simbolo”. Non solo: Wilde aggiunge che “chiunque si inoltri al di sotto della
superficie lo fa a proprio rischio e pericolo” esattamente come “chiunque ne
legga il simbolo”. Il pericolo, va da sé, è di non riconoscersi –
come quando non si riconosce la propria voce se registrata.
Proseguendo per i percorsi pseudomatematici più su
inaugurati, possiamo affermare che in virtù della proprietà transitiva il
simbolo è la superficie; per questo addentrarvisi e superarlo
risulta pericolosissimo. Dorian non se ne rende conto minimamente, nel momento
in cui, alla fine del libro, pugnala il proprio ritratto e si ritrova col cuore
trafitto. Perché l’arte, se è davvero qualcosa, è la natura meno se stessa. Una
superficie simbolica, lucida: “inconsapevole, ideale e remota”. Una teoria di
opposti coincidenti.
Inconsapevole è pure il contrario di “volontario” e di
“cosciente” ma, allontanandoci un po’ dallo specchio, vediamo bene che lo è
anche di “concettoso” e “artificioso”. Una bellezza inconsapevole vuol dire
certamente una bellezza non studiata. Ma l’arte, che è per Wilde produzione di
bellezza (sebbene Dorian sia altamente affascinato anche dalla sua versione
raccapricciante) è studiatissima. Vero, il romanticismo delle ipotesi
sull’ispirazione artistica farebbe pensare di no: che l’arte sia invece
spontanea. Ma sappiamo bene che romantic in inglese vuol dire
anche fittizio e favoloso: una menzogna, insomma, come sa bene qualunque
scrittore, ossia qualunque “fingitore” che “finge così completamente da
arrivare a fingere che è dolore il dolore che davvero sente”, direbbe Pessoa.
La materia immaterica, la storica dicotomia tra body e soul,
è dunque la componente visibile e al contempo invisibile dell’arte: il
suo μυστήριον (“mysterion”) estetico e spirituale, un rimescolio di
corpo e anima. Dal Ritratto di Dorian Gray:
L’anima e il corpo, il corpo e l’anima –
che mistero! C’era un che di animalesco nell’anima e il corpo aveva i suoi
momenti di spiritualità. I sensi sapevano raffinarsi, e l’intelletto
degradarsi. Chi poteva dire dove terminavano gli impulsi della carne o anche
dove iniziavano quelli psichici? Com’erano vacue le definizioni arbitrarie
degli psicologi a cui siamo abituati! E com’era difficile scegliere tra le
affermazioni delle varie scuole! L’anima era forse un’ombra seduta in una casa
del peccato? O era il corpo in realtà che risiedeva nell’anima, come pensava
Giordano Bruno? La distinzione tra spirito e materia era un mistero, e lo era
anche l’unione di spirito e materia.
L’arte, se “inconsapevole”, non può essere fattuale. E
dunque non può rivelarsi concreta. Ideale? Qual è il contrario di
quest’ultima parola, oltre a quelli citati? “Reale, tangibile, corporeo”; ma
anche “imperfetto, sbagliato, inadatto”. E infine, l’arte deve essere remota,
ovvero l’opposto che “vicina, a portata di mano”. Ma stiamo parlando di tempo o
di spazio? Di spazio-tempo, ovviamente, perché l’arte è in gran parte materia
oscura, materia ipotetica che manca di luce. E come l’universo, l’arte è
animata da energia oscura per grandissima parte. Tale materia e tale energia
sono dette in cosmologia oscure non perché buie, ma perché non misurabili se
non in maniera indiretta. Esattamente come l’arte, di cui semmai vanno misurati
gli effetti, poiché ogni analisi tecnica, per quanto raffinata e rigorosa,
risulta sminuente, riduttiva, arida, in paragone a quel che l’arte produce in
termini di pensieri, sensazioni, emozioni (e omissioni). Il mistero dell’arte è
il suo fascino, e non sono soltanto trucchi misteriosi da mestieranti quelli
che il mestiere dell’artista implica.
Mistero è una parola che non si spiega da sé, non
riguardando il noto. Richiede un salto nel buio, un salto in altro direbbe
Alessandro Bergonzoni. Ora, non andrebbero mescolati il sacro e il profano,
come vorrebbe qualche critico o qualche religioso, ma va ricordato come la
parola mystery, che rimanda ovviamente alla sfera religiosa e al
contempo a quella dell’immaterico, ci riporta anche e soprattutto a uno dei
tanti abissi oracolari della classicità, come i misteri eleusini. E tuttavia,
essa non manca persino di usi prosaici. Nello slang inglese,
ad esempio, a partire dalla seconda metà del Novecento, mystery significa
persino “ragazza di strada, prostituta”, il che pare riconnetterci a un qualche
suo senso nascosto nell’uso che se ne fa in Apocalisse 17:
La donna era vestita di porpora e di
scarlatto, era tutta adorna d’oro, di pietre preziose e di
perle, e aveva in mano una coppa d’oro piena di abominazioni e delle
immondezze della sua fornicazione. Sulla sua fronte era scritto un nome:
«Mistero, Babilonia la grande, la madre delle meretrici e delle abominazioni della
terra».
(Nuova Diodati)
“Mistero” è un nome, e il dilemma shakespeariano “che c’è
in un nome?” (Romeo e Giulietta) torna qui come un memento. Mystery,
sempre in slang vuol dire anche “ragazza appena arrivata in un contesto che per
i primi periodi le è e le risulta alieno”. Non è chiaro come il lemma possa
aver assunto questo significato, ma è ragionevole sospettare che deve aver
giocato un ruolo non periferico, nella mutazione, il concetto di
non-conosciuto. Un po’ come per il termine barbaro. Quello che non padroneggiamo,
lo segreghiamo.
Per fortuna non è sempre così. In un libro tuttora
misteriosissimo, che come l’universo è composto in grandissima parte di materia
ed energia oscura, il Finnegans Wake di James Joyce, ci
imbattiamo nella parola inventata mysttetry: un insieme di mistero,
tetraggine, bruma (mist), forse un’amante (mistress), di sicuro
un signore (mister), e poi l’arcano degli arcani, il tetragrammaton,
il nome impronunciabile di dio (che è poi un altro signore, El Shaddai,
il quale nel Wake diventa persino un’ombra: shaddo…).
Facciamo allora un esempio, di queste interpretazioni improntate al
misterico.
In quello stesso libro di Joyce, nel cui buio una volta
entrati non si esce facilmente, leggiamo questa strana domanda: “Comb his tar
odd gee sing your mower O meow?”. Che abbiamo qui? Pettinare (to comb),
il suo catrame (tar) [o forse un marinaio (tar)] strano (odd),
e poi anche il sesso delle donne in slang dublinese (gee) [e tante altre
cose (droga, mille dollari, l’imbronciarsi)], e ancora, cantare (sing)
la tua mietitrice o una falce (mower), e infine, il verso del gatto (meow).
Come ricomporre questo mosaico alienante? Quali le combinazioni possibili? Di
certo notiamo all’istante (ovvero, ricorrendo a qualche volo pindarico) che la
sfera sessuale nella frase è prominente: consideriamo, infatti, che dal punto
di vista della flora, un termine come bush (“cespuglio”) è un
altro uso slang per “pelo pubico femminile”; mentre da quello della fauna,
teniamo a mente anche l’uso non zoologico del termine pussy (“micio,
micia”, in tutti i sensi) implicito nel barbarico “miao” finale.
Di fronte a un simile dilemma ermeneutico, che si tratti
di arte o meno – e di certo possiamo derubricarlo a gioco effimero, se
vogliamo, ma a nostro rischio e pericolo – il critico può idealmente agire in
tanti modi: può arrendersi al mistero e dar per scontato che non si arriverà a
una soluzione certa dell’enigma, sopportandone, questo, soltanto di plurime;
oppure può tentare una strada o una serie di strade che, sempre fallibilmente,
potranno portare a una direzione o all’altra, e poi accettare questa direzione
come un punto di partenza per un qualche altro viaggio.
Certo, alcune strade sono più solide di altre, nel
percorso dell’interpretazione, ma non è detto che queste ultime siano sempre le
più sondate. Una, ad esempio, che sicuramente porterà in qualche dove, a
partire dalla strana frase citata, è insospettabile, eppure muove i passi da un
presupposto verificabile, forse l’unico in letteratura, ovvero il suono. La
domanda di cui sopra, infatti, se letta con occhi che si fanno orecchi, ovvero,
con orocchi, può anche suonare così: “come stai oggi signor moro mio?”. Si
dirà, ma che idiozia! Ed è innegabile che una componente di idiosincratica
idioticità esiste e persiste in questo tipo di letture che Eco chiamerebbe – se
non fossero legate al Finnegans Wake – “paranoiche”. Ma a
corroborarla c’è sempre il testo, e ci si fidi di me se dico che la stessa
domanda, nello stesso libro, compare tante altre volte, e sempre, fonicamente,
in lingue diverse, seppure, visivamente, impiegando le risorse morfologiche
dell’inglese (una di queste vede il “signor moro” divenire un “dark mister”,
che sta certamente anche per un “mistero oscuro”). Non starò tuttavia qui ad
elencarle, queste varie varianti di una domanda apparentemente innocua, futile,
frivola; perché l’assioma di fondo, wildiano, ma anche joyciano, è che l’arte,
le arti, e dunque anche la letteratura, nascono da istinti misterici. Sono
ineluttabilmente qualcosa di “misterioso” che raccoglie un’eredità composita,
fatta di entità sconosciute, di estraneità, un rimescolio di palpabile e
impalpabile: un possedere ma al contempo non possedere davvero, perché alla fin
fine è il mistero che possiede noi.
Il mistero è tale in virtù della sua non
risolvibilità.
Il mistero non solo ci parla di allontanamenti dalla
verità originaria, ma li richiede perfino. Come le storie, che secondo Gershom
Scholem soppiantano la verità, prima tramite il rito, e poi tramite la
narrazione: ma al contempo, la tengono in vita nel farla apparire sempre più
remota. Si vede allora come l’aggettivo scelto da Wilde, remoto,
possa qui volgersi, flettersi e piegarsi anche a significare ideale;
poiché quel che è ideale è inafferrabile per natura, allo stesso modo in cui il
mistero, se afferrato, perderebbe la ratio stessa della propria essenza.
Il mistero è tale in virtù della sua non risolvibilità.
Per questo l’opera di gran lunga più interessante del ciclo di Sherlock Holmes
è La valle della paura: poiché, nel momento in cui ci aspetteremmo
la spiegazione, ci viene richiesto di inabissarci tramite un flashback in un
buco nero della storia che intrappola la luce: una palude brumosa in cui a
malapena si distinguono i confini tra racconti, paure, verità e paranoie. Nel
momento in cui, nel romanzo di Conan Doyle, per comprendere il presente ci si
tuffa nel passato e vi si riemerge anelando a un futuro, ci si rende conto che
le radici di quel che è stato sono tanto inafferrabili quanto i risvolti non
calcolabili dei domani che ci attendono.
La sorgente delle storie è sempre la nostra impossibilità
e incapacità di sfiorarle. E la letteratura, anche quando non le racconta, le
plasma le storie. Storie di silenziamenti, talvolta, come il vuoto di parole in
cui si racchiude Iago dopo il delitto che ha istigato. Come la mordacchia che
frenò per sempre la lingua considerata blasfema di Bruno nel suo ultimo viaggio
per il campo dei fiori che l’avrebbe fatto ascendere, dalla nostra valle di
lacrime, alla sua altissima profondità dell’ombra. O infine, come una “madre
delle muse” nella recente ballata di Bob Dylan, che canterà “delle montagne, e
del mare oscuro e profondo, dei laghi e delle ninfe della foresta”.
Dobbiamo riconoscere, credo, da lettori e da critici, che
la letteratura, come l’arte, nasce nel vuoto, vive nell’alterità, e si inoltra
in abissi oscuri e insondati. La comprensione, che nella vita pare esser tutto,
nell’arte non è che l’inizio di una menzogna. Perché leggere significa sì
capire, ma solo tramite un silenzio di morte: un’immobilità di principio, con
un principio e senza fine. La letteratura e l’arte trasferiscono un testo
passato in possibili futuri traducendolo e mutandolo ad infinitum,
e ogni punto fermo non è che un ennesimo punto di svolta. E poiché, poi,
riconoscere le cause, nella mutevolezza dei fenomeni instabili e soggetti a
risposte individuali, è forse soltanto un obiettivo scollegato dal comprenderne
conseguenze ed esiti, un approccio misterico alla letteratura riconduce nello
spazio ineludibile dell’esistenza, l’incorporeità della materia sognante di cui
siamo fatti tutti, secondo Shakespeare.
Letteratura, ovvero la gioia di far parte
di un ricircolo eterno, di una significazione infinita.
Esistono parole che per il loro inutilizzo divengono
apparentemente inesistenti. Tra queste, taciturnità. Ecco, la taciturnità è
forse la regione insondata in cui sono pronunciate, o scritte, o concretizzate,
parole e storie, mosaici che nel loro divenire materia, restano ad abitare in
una dimensione discosta.
I lettori, allora, sono estrattori di etere: sono
Estragon che armeggiano con qualcosa di indistinto nei meandri di una oscurità
da cui non si riemerge se non modificati. Questo è il miracolo della
letteratura come delle arti. Il sapersi cambiare, e il saper cambiarci in virtù
di una statica dinamicità. Loro immobili e immutabili, mutano e si muovono nel
tempo; ma restando sempre dov’erano. Questo vuol dire rivelare: aggiungere
altri veli, ed è quel che deve fare l’arte. Se non lo fa, la si chiami pure in
altro modo. Aggiungere nebbia, insomma, e consentirci uno scrutare sfumato.
Perché è oltre quei manti lievi e sovrapponentesi che esiste un qualcosa
d’altro – il mondo, un pensiero, un ricordo, il nulla – un altrove additato
dall’artista e percepito (ci si augura) dal critico. Abita il retro di una
nebbia “rara”, come quella che vede il protagonista di Aldilà di
Andrea Morstabilini: la nebbia “che si schiacciava contro i vetri delle
finestre fino a farti credere che un mondo, là dietro, non c’era più; che oltre
quel vapore umido, si spalancasse un grande vuoto”.
Un aldilà brumoso, questo, che la critica, per Wilde
persino superiore all’arte proprio in quanto ulteriore ri-velazione, ipotizza
proprio perché l’arte l’ha rivelandolo svelato. Per questo i nostri sforzi di
lettori critici non possono e non devono perdersi in sterili derive scientiste
come quelle a cui siamo ahimè abituati e assuefatti, pena il loro essere corresponsabili
della scarsità di mistero e interesse per fenomeni che devono abbagliare, e
dunque, in un certo senso, accecare.
È forse il momento di tornare, per autori, critici e
lettori, senza paura all’epoca di quel terrore che può indurre meraviglia,
al θαῦμα (“thauma”), spostando l’interesse dall’interpretazione come
modalità di elaborazione dei testi, a considerazioni sul nostro essere esseri
naturalmente interpretanti, e sul fatto che la nostra ἑρμηνεία (“hermeneia”)
si basa solo in parte sui testi che leggiamo o analizziamo. Conta molto di più
lo spazio-tempo (ovvero la cultura) in cui ci muoviamo e che assorbiamo; questa
sì degna della parola “fine”, ma al maschile; per donare a noi stessi e ai
testi che affrontiamo, la gioia di far parte di un ricircolo eterno, di una
significazione infinita.
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