lunedì 2 novembre 2020

Perché non voglio parlare di scuola - Gianluca D’Errico

 


§       Perchè in questo momento è più utile agire.
“Non crediamo agli assoluti” ma “nell’azione per una modificazione delle condizioni che ci circondano, e assieme a questa in una azione per la modificazione delle componenti fondamentali dell’uomo, per non parlare di quelle della società”. Questa è la frase che mi è risuonata in mente più spesso dall’inizio del cosiddetto lockdown, anche perché l’avevo letta da poco (grazie al volumetto I “Piacentini”: Storia di una rivista (1962-1980) di Giacomo Pontremoli dedicato ai “Piacentini” e pubblicato dalle Edizioni dell’asino). Goffredo Fofi la scrisse, sui “Quaderni Piacentini” appunto, in un articolo del 1967. La interpreto come un invito non certo allo stolto pragmatismo, ma al fare politico in contrapposizione alla postura intellettuale.

Dall’inizio della pandemia ho cercato gli altri, ho provato a fare gruppo, a confrontarmi, ad agire. Non sono stato mai “solo”. Potrei arrivare a dire che nessuna riflessione su ciò che è accaduto da febbraio 2020 a oggi sia stata, per me, una riflessione individuale. Qui a Napoli è nata una rete di insegnanti, educatori e genitori che già da inizio marzo ha cominciato a incontrarsi, telematicamente, con molta frequenza. Ne sono nati azioni e pensieri collettivi, ovviamente imperfetti, incompleti, frammentati: come tutto ciò che nasce nella condivisione. Un piccolo miracolo. E le parole che qui scrivo sono parole nostre più che mie.

Abbiamo dapprima, come molti, pensato che quello che stava accadendo poteva essere una “occasione” per la scuola pubblica. Un’occasione di ripensamento radicale e complessivo di quanto già nell’ordinario non ci piaceva. Il solo fatto che si era, per forza maggiore, disarticolato il lento fiume tranquillo della routine scolastica, rompendo tempi e ritmi che si ripetono uguali a se stessi da anni, apriva delle possibilità. Era da decenni (forse dalla Prima guerra mondiale) che la scuola nazionale, nella sua interezza, non restava chiusa (nella sua versione fisica e non virtuale) per così tanto tempo. È stata un’illusione momentanea, un brivido durato il tempo di pochi giorni. I primi decreti governativi ci hanno riportato con i piedi per terra: bambini e adolescenti non sono una priorità per questo Paese da sempre e la pandemia non ha cambiato il segno degli interventi.

Abbiamo affermato che i bambini non sono il futuro, perché sono il presente: portatori di diritti e desideri, qui e ora. Abbiamo chiesto, in pieno lockdown, spazio, strade chiuse al traffico per loro, la possibilità di uscire di casa in sicurezza, ancor prima di pretendere la riapertura delle scuole.

Abbiamo chiamato truffa semantica l’espressione scuola a distanza, bidimensionale ed escludente, individuando nella relazione l’elemento qualificante di qualsiasi processo di formazione.

Abbiamo parlato di medicina preventiva, dell’idea secondo cui le scuole potessero divenire presidi territoriali di cura e prevenzione (e non di mero controllo burocratico e medicalizzante); di didattica negli spazi aperti, criticando l’idea che scuola e edificio scolastico dovessero essere, per forza, sinonimi. Tutte parole sconfitte.

Poi le scuole hanno riaperto e i nostri peggiori incubi sono diventati realtà. Tanto è stato già scritto; a noi la cosa che è apparsa subito evidente è che chiedere così tanto, in termini di protocolli di organizzazione e gestione, ai singoli istituti senza garantire loro le risorse necessarie, significava provocare una rottura, forse definitiva, dell’unitarietà della scuola pubblica, uno sbriciolamento in cui i territori che partivano da una situazione ordinaria decente riuscivano a galleggiare, tutti gli altri nel fondo del mar. Sta succedendo esattamente questo. Con l’ulteriore carico che questa sporca faccenda di soldi oscura tutto il resto e che, oggi, parlare di didattica “democratica”, cura, ecologia delle relazioni, sembra un fatto da velleitari fuori dal mondo. Il cerchio si è chiuso.

§  Perché vorrei parlare delle persone e non degli oggetti.
Oramai, in quel distillato di paradossi che è il discorso pubblico sulla scuola, il più “doloroso” di essi può enunciarsi in questi termini: parlare di scuola equivale, in maniera quasi meccanica, a non parlare di bambini e adolescenti. Come se essi non fossero ragione prima e causa ultima di ogni organizzazione, struttura, carrozzone: il modo più comodo ed efficace di dribblare il dire e il pensare ai più piccoli è mettersi a parlare dei “fatti” della scuola. Per fare un esempio: pensate al penoso e ridicolo dibattito sui banchi monoposto con le rotelle (avevo giurato davanti agli dei che giammai avrei accennato a questo argomento, ma i tempi sono difficili per tutti…).

Al netto di tutte le osservazioni critiche (idee sulle quali una mente sana evita di soffermarsi), l’immagine che si attiva nella mente, anche in quella dei più avveduti, diciamolo, è quella del banco con sedia incorporata e non del suo “abitante”. Del banco: solo, nella sua vuotezza. E allora questo è un punto (forse il punto): la necessità di rimettersi in movimento nel faticosissimo viaggio “dal banco al suo occupante”, viaggio lungo a dispetto della vicinanza fisica, tortuoso, necessario. Viaggio doveroso già prima del Covid, ovviamente: ancora più urgente e arduo ai tempi della pandemia.

I più colti direbbero in maniera più appropriata: il viaggio dall’efficienza organizzativa all’efficacia pedagogica. L’emergenza sanitaria (e i suoi corollari sociali e culturali) ha inferto un colpo quasi mortale alla possibilità di riconoscere come necessario questo cambiamento di prospettiva; e se oggi diciamo termoscanner pensiamo all’oggetto e mai alla capoccia sulla quale il raggio laser (o mio dio, l’ho detto) va a posarsi (“sono arrivati i termoscanner?”, “chi li deve comprare i termoscanner?”), se diciamo “un metro tra le rime buccali”, mai una fottuta volta pensiamo alle bocche. Manco a dirlo: se diciamo mascherina pensiamo a oggetti che vivono di vita propria, autonoma, che prescindono dal viso (“porto a fare un giro alla mascherina” mi scrive un amico per comunicarmi che sta scendendo a fare quattro passi, rielaborando, senza manco saperlo, il miglior Luciano Bianciardi).
Dove sono finiti i bambini? Da marzo 2020 assistiamo a un processo di sparizione di massa.

E qui bisogna ridire senza stancarsi mai le parole ossessivamente presenti sulle pagine di questa rivista: parlare di bambini e bambine significa parlare di città, di spazi, dei tempi di lavoro dei loro genitori, parlare della mobilità, dei parchi, del lavoro di cura tutto o quasi sulle spalle delle madri; bambini e adolescenti non possono essere un “affare” che riguarda (solo) genitori e insegnanti; nell’emergenza la cancellazione della loro condizione fisica psichica e sociale dall’agenda mentale (prima che politica) del mondo adulto è stato l’atto più violento da essi subito.
E dire della “salute”, parola ameba già pesantemente degradata, oggi definitivamente appiattita sul misero significato di “assenza di malattia”: può il sistema di formazione di un paese muoversi (solo) con questo obiettivo tanto minimo? Che cos’è salute? Che cosa benessere? Oggi manco più un affare di medici (e già questa delega in bianco alla medicina andrebbe sottoposta a critica), ma di biologi, epidemiologi, forse prima ancora di addetti alle pulizie (“sanificare” è già verbo monumentale; fa ombra a “crescere”, “imparare”: secondari questi ultimi, inutili quasi, se non si sopravvive, no?).

§  La ragione principale è che la rabbia sopravanza, e di parecchio, la capacità di analisi in profondità (nella parola scritta è poi difficile far sentire l’urlo). A scrivere in questo particolare momento storico per “Gli asini”, ho come l’impressione di scrivere per una rivista straniera, appartenente a un altro stato. Nella scuola (e non solo nella scuola) la pandemia ha fatto deflagrare una questione territoriale impressionante. Che la questione meridionale con tutti gli squilibri e le contraddizioni che essa contiene sia una dato strutturale della nostra storia nazionale era già chiaro a tutti. La pandemia ha portato a conseguenze estreme questo squilibrio, mostrando con crudele limpidezza che la scuola al Sud non è forse mai stata veramente pubblica: gratuita, aperta, inclusiva, di massa. E non lo è stata non per le storture, essenzialmente pedagogiche, denunciate su queste pagine a più riprese.

La riapertura in tal senso è stata impietosa: muri, tetti, condotte fognarie, aule mancanti, trasporti pubblici ridicoli; sono le parole di sempre, non solo di oggi. L’emergenza si abbatte su un sistema già profondamente fragile e lo fa implodere. Nella città di Napoli il primo giorno di scuola è stato per molti il 28 settembre (in molte regioni si era già alla terza settimana di attività); della refezione scolastica non si parla nemmeno: le scuole che dovrebbero offrire il tempo pieno offrono a malapena 4 ore giornaliere. D’altronde l’anno scorso, anno no Covid, in alcune scuole la refezione, e quindi il tempo pieno, è partita a novembre… L’elenco sarebbe ancora triste, lungo e avvilente.

Ci sono scuole dell’infanzia che a oggi (10 ottobre) hanno offerto ben tre giorni di attività in tutto. Tre. Scuole superiori con 33 classi e 20 aule, scuole che dovrebbero essere già chiuse, ma non per Covid, per l’assenza delle minime condizioni di sicurezza e igiene. I doppi turni sono la normalità di sempre. Per non parlare del personale scolastico eternamente insufficiente, soprattutto per i soggetti più deboli (la cronica carenza di insegnanti di sostegno e assistenti materiali è il dato più eclatante e tragico).

Insomma, c’è un’asticella al di sotto della quale non è più scuola pubblica. Spesso abbiamo scritto che questi sono falsi problemi e che anche nelle super efficienti strutture formative del Nord del Paese si pratica, nelle aule, classismo, conformismo culturale, nozionismo e insopportabile autoritarismo. E su questo non c’è dubbio, ma fermarsi a questo senza osservare (anche) il tracollo del sistema sociale al Sud (e in esso della scuola tutta) rischia di condannarci a un atteggiamento snob e borghese. Nella città di Napoli ci sono diverse centinaia di bassi (le unità abitative poste al pian terreno e formate da un unico vano con un’unica porta che si apre direttamente sulla strada) per non dire dei quartieri di periferia. Per i bambini di quei luoghi (ma per tutti anche) il decoro di un’aula sarebbe già “salvezza” (anche se farcita con la peggiore pedagogia? Sì, tre volte sì) e invece la scuola riproduce, in tutto e per tutto, la precarietà materiale dalla quale essi provengono come a voler ratificare che “questa è la zuppa” e che condizione e condanna definitiva finiscono per diventare sinonimi.

Si salva chi può. Essenzialmente chi ha i soldi per pagarsi altro. Scuole private, più spesso le attività pomeridiane più disparate e “performanti”. È il capitalismo avanzato applicato alla didattica: un sistema pubblico putrescente (nel senso sia letterale che letterario) e tutto il resto in vendita, saldamente ancorato alla logica del profitto. Quando parliamo di privatizzazione dei sistemi di formazione non dobbiamo immaginare il padrone cattivo che si compra la scuola o pezzi di essa, ma la morte per inedia di quei sistemi, la loro irrilevanza per le vite di masse enormi di bambini, bambine e adolescenti e il conseguente emergere di nuove e più seducenti “agenzie”. Questo è il Sud, oggi; e sotto l’apparente coltre di arretratezza in realtà indica, a chi sa vedere, il futuro. E sia chiaro: questa non è una condanna, senza appello, alle persone che fanno la scuola al Sud; tra queste essendoci esempi, e non pochi, di professionalità e abnegazione fuori dal comune, veramente alti ed estremi. Forse addirittura si può sostenere che il livello medio tende verso l’alto (ecco un altro paradosso). Ma se un bravo macchinista o un bravo marinaio si ritrovano su una nave il cui motore è irrimediabilmente compromesso, non possono che “puntare” su una scialuppa di salvataggio.

Ecco cos’altro è la scuola meridionale: una flotta (piccola o grande a seconda del giudizio di chi guarda) di scialuppe di salvataggio, alcune delle quali anche bellissime e “poetiche”, ma sullo sfondo il “corpo grosso” della nave affonda. Anzi, l’esistenza stessa di tutte queste scialuppe è la prova definitiva che un naufragio è in atto. C’è bisogno di politica, non abbiamo il tempo di capire fino in fondo proprio tutto. Anche cercare d’istinto il giusto e l’ingiusto, essere disposti allo sbaglio; abbandonare la strada consolatoria della minuziosità delle analisi per l’imperfezione dell’agire politico, che non è solo azione, ma anche parola, polemica, posizionamento; insomma lotta. È quello che mi sento di urlarvi da questo mondo a parte che ha nome Meridione.

da qui

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