Il massacro di
Sabra e Shatila - Robert
Fisk
“Furono le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era
eloquente quasi quanto l’odore. Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono
completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se stavamo fermi a
scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca
dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi
intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti
morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi,
palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a
banchettare.
Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù giravano
intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la
generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli quelle mosche, costituivano
il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci
che c’è vita anche nella morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono
imparziali. Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati
vittime di uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello
stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio, doveva essere
stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.
All’inizio non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le
mosche si avventavano infallibilmente sulle nostre bocche. Per questo motivo ci
tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si
spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato
nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare. Lo sentivamo anche
attraverso i fazzoletti più spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo
a puzzare di morto.
Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze
distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli assassini –
i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare nei campi per
«spazzare via i terroristi» – se n’erano appena andati. In alcuni casi il
sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver visto un centinaio di morti,
smettemmo di contarli. In ogni vicolo c’erano cadaveri – donne, giovani, nonni
e neonati – stesi uno accanto all’altro, in quantità assurda e terribile, dove
erano stati accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie
trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano scomparsi
dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di andarsene. Dappertutto,
trovavamo i segni di fosse comuni scavate in fretta. Probabilmente erano state
massacrate mille persone; e poi forse altre cinquecento.
Mentre eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli
israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest – il
secondo palazzo del viale Camille Chamoun – li vedevamo che ci scrutavano con i
loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a sinistra sulle strade coperte
di cadaveri, con le lenti che a volte brillavano al sole, mentre il loro
sguardo si muoveva attraverso il campo. Loren Jenkins continuava a imprecare.
Pensai che fosse il suo modo di controllare la nausea provocata da quel
terribile fetore. Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte,
inalando la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins
capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto assumersi
una parte della responsabilità di quell’orrore. «Sharon!» gridò. «Quello
stronzo di Sharon! Questa è un’altra Deir Yassin.»
Quello che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina
del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più facile da
raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame medico. C’erano già stati
massacri in Libano, ma raramente di quelle proporzioni e mai sotto gli occhi di
un esercito regolare e presumibilmente disciplinato. Nell’odio e nel panico
della battaglia, in quel paese erano state uccise decine di migliaia di
persone. Ma quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno
sterminio di massa, un’atrocità, un episodio – con quanta facilità usavamo la
parola «episodio» in Libano – che andava ben oltre quella che in altre
circostanze gli israeliani avrebbero definito una strage terroristica. Era
stato un crimine di guerra.
Jenkins, Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato
a Shatila che all’inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di quanto
fossimo sconvolti. Bill Foley dell’Ap era venuto con noi. Mentre giravamo per
le strade, l’unica cosa che riusciva a dire era «Cristo santo!». Avremmo potuto
accettare di trovare le tracce di qualche omicidio, una dozzina di persone
uccise nel fervore della battaglia; ma nelle case c’erano donne stese con le
gonne sollevate fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola
squarciata, file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli
allineati lungo un muro. C’erano neonati – tutti anneriti perché erano stati
uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini erano già in stato di
decomposizione – gettati sui cumuli di rifiuti accanto alle scatolette delle
razioni dell’esercito americano, alle attrezzature mediche israeliane e alle
bottiglie di whisky vuote.
Dov’erano gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani,
dov’erano i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli
israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non avevano cercato
di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al campo di Burj al-Barajne
perché qualcuno ci aveva detto che c’era stato un massacro. Tutto quello che
avevamo visto era un soldato libanese che inseguiva un ladro d’auto in una
strada. Fu solo mentre stavamo tornando indietro e passavamo davanti
all’entrata di Shatila che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace
questa storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest’odore?»
Appena superato l’ingresso sud del campo, c’erano alcune case a un piano
circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle casupole
alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa entrata di Shatila
vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state fatte saltare in aria con la
dinamite. C’erano bossoli sparsi a terra sulla strada principale. Vidi diversi
candelotti di traccianti israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli
paracadute. Nugoli di mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che
avevano annusato la vittoria.
In fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri
dall’entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una dozzina, giovani
con le braccia e le gambe aggrovigliate nell’agonia della morte. A tutti
avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la pallottola aveva portato via una
striscia di carne fino all’orecchio ed era poi entrata nel cervello. Alcuni
avevano cicatrici nere o rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato
castrato, i pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche
banchettava sul suo intestino dilaniato.
Avevano tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici
anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai corpi che
avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano stati derubati. Su un
polso annerito, un orologio svizzero segnava l’ora esatta e la lancetta dei
minuti girava ancora, consumando inutilmente le ultime energie rimaste sul
corpo defunto.
Dall’altro lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di
macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le donne erano
tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo di rifiuti. Una era
distesa sulla schiena, con il vestito strappato e la testa di una bambina che
spuntava sotto il suo corpo. La bambina aveva i capelli corti, neri e ricci,
dal viso corrucciato i suoi occhi ci fissavano. Era morta.
Un’altra bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con
il vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più di tre
anni. La parte posteriore della testa era stata portata via dalla pallottola
che le avevano sparato al cervello. Una delle donne stringeva a sé un minuscolo
neonato. La pallottola attraversandone il petto aveva ucciso anche il bambino.
Qualcuno le aveva squarciato la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere
un altro bambino non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro
pietrificato dall’orrore.
Tveit cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in
norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di una donna
con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne. Sono morte…»
Di tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per vomitare
nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley, Jenkins e io
sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui» disse Jenkins e mi fissò.
Erano ancora lì. Gli assassini erano ancora nel campo. La prima preoccupazione
di Foley fu che i miliziani cristiani potessero portargli via il rullino,
l’unica prova – per quanto ne sapesse – di quello che era successo. Cominciò a
correre lungo il vicolo.
Io e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora nel
campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le prove
fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa; l’aprimmo e ci
precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di noi. Sentimmo il veicolo
che si addentrava nella strada accanto, con i cingoli che sferragliavano sul
cemento. Jenkins e io ci guardammo spaventati e poi capimmo che non eravamo
soli. Sentimmo la presenza di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una
bella ragazza distesa sulla schiena.
Era sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido le
scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n’erano appena andati. E lei era
lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se avesse visto il suo
salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi, era una bella donna, e intorno
alla sua testa c’era una strana aureola: sopra di lei passava un filo per
stendere la biancheria e pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri
indumenti giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto
irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua famiglia. E
quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano finite a terra formando
un piccolo cerchio di legno attorno al suo capo.
Solo il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man
mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non l’avevano
ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma imprecava di nuovo e
borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e l’altra. Provai tanta pena per
quella donna. Forse era più facile provare pietà per una persona giovane, così
innocente, una persona il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire.
Continuavo a guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il
filo da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento
all’altro.
Probabilmente quando aveva sentito sparare nel campo era andata a
nascondersi in casa. Doveva essere sfuggita all’attenzione dei miliziani fino a
quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno sparo,
aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue attività
quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un tratto qualcuno
aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo fatto noi, e gli assassini
erano entrati e l’avevano uccisa. Senza pensarci due volte. Poi se n’erano
andati ed eravamo arrivati noi, forse soltanto un minuto o due dopo.
Rimanemmo in quel giardino ancora per un po’. Io e Jenkins eravamo
spaventati. Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un
sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani – gli assassini della
ragazza – avevano violentato e accoltellato le donne di Shatila e sparato agli
uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato a uccidere Jenkins e l’americano
avrebbe cercato di dissuaderli. «Andiamocene via di qui» disse, e ce ne
andammo. Fece capolino in strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta
molto piano perché non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la
sua aureola di mollette da bucato.
Foley era tornato sulla strada vicino all’entrata del campo. Il cingolato
era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada principale
esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano ancora osservando.
Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta di cadaveri e lo persi di
vista. Continuavamo a perderci di vista dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo
prima stavo parlando con Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi
stavo rivolgendo a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia
penzoloni dietro la testa.
Sentivo le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza,
dall’altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era stata
appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre metri e mi arrampicai
con difficoltà su uno dei lati, con i piedi che scivolavano nel fango. Quando
ormai ero arrivato quasi in cima persi l’equilibrio e per non cadere mi
aggrappai a una pietra rosso scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una
pietra. Era viscida e calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai
gli occhi vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un
triangolo di carne e ossa.
Lo lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta sui
pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando. Ma l’odore era
terrificante e ai miei piedi c’era un volto al quale mancava metà bocca, che mi
fissava. Una pallottola o un coltello gliel’avevano portata via, quello che
restava era un nido di mosche. Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo
Jenkins e Tveit in piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non
potevo chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per gridare
avrei vomitato.
Salii in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi
consentisse di saltare dall’altra parte. Ma non appena facevo un passo, la
terra mi franava sotto i piedi. L’intero cumulo di fango si muoveva e tremava
sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando guardai giù di nuovo, vidi
che solo uno strato sottile di sabbia copriva altre membra e altri volti. Mi
accorsi che una grossa pietra era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un
uomo, il seno nudo di una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su
decine di cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.
I corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati
spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai lo
sguardo vidi il bulldozer – con il posto di guida vuoto – parcheggiato con aria
colpevole in fondo alla strada.
Mi sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me.
Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in quel momento.
Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non erano miei nemici, quei
morti avrebbero approvato il fatto che fossi lì, avrebbero voluto che io,
Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo, e quindi non dovevo avere paura di
loro. Ma non avevo mai visto tanti cadaveri in tutta la mia vita.
Saltai giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando
come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la bocca per
parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit vomitava. Stava guardando
quelli che sembravano sacchi davanti a un basso muro di pietra. Erano tutti
allineati, giovani uomini e ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato
alla schiena mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov’erano caduti,
una scena patetica e terribile.
Quel muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già
visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero alle
vecchie fotografie scattate nell’Europa occupata durante la Seconda guerra
mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni nascosti da altri. Quando
mi inchinai per guardarli più da vicino notai la stessa cicatrice scura sul
lato sinistro del collo. Gli assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da
giustiziare in quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che
l’uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre eravamo lì
sentimmo un uomo gridare in arabo dall’altra parte delle macerie: «Stanno
tornando». Così corremmo spaventati verso la strada. A ripensarci,
probabilmente era la rabbia che ci impediva di andarcene, perché ci fermammo
all’ingresso del campo per guardare in faccia alcuni responsabili di quello che
era successo. Dovevano essere arrivati lì con il permesso degli israeliani.
Dovevano essere stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato
controllato – osservato attentamente – dagli israeliani, dagli stessi soldati
che guardavano noi con i binocoli da campo.
Sentimmo un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest –
forse erano falangisti, forse israeliani – ma non apparve nessuno. Così
proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila, quando i
miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano rifugiate nelle
camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati sui materassi, spinti
sotto le sedie, scaraventati sulle pentole. Molte donne erano state violentate,
i loro vestiti giacevano sul pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro
mariti o fratelli, adesso tutti neri di morte.
C’era un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le
sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non arrivammo a un
centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul terreno c’era un tappeto
di mosche e anche lì si sentiva il solito, leggero, terribile odore dolciastro.
Vedendo quel posto, sospettammo tutti di che cosa si trattasse, una fossa
comune scavata in fretta. Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad
affondare nel terreno, che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro
verso il sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.
Un diplomatico norvegese – un collega di Ane-Karina Arveson – aveva
percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer con una
decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano fuori dalla cassa.
Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta solerzia? Chi aveva guidato il
bulldozer? Avevamo una sola certezza: gli israeliani lo sapevano, lo avevano
visto accadere, i loro alleati – i falangisti o i miliziani di Haddad – erano
stati mandati a Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più
grave atto di terrorismo – il più grande per dimensioni e durata, commesso da
persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano uccidendo –
della storia recente del Medio Oriente.
Incredibilmente, c’erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci
chiamarono da un tetto e ci dissero che durante il massacro erano
rimasti nascosti. Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano
stati uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e
i falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con l’albero di
cedro delle due milizie.
Sulla strada principale c’erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il
signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant’anni.» E lì sul marciapiede,
sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto anziano con una sottile
barba grigia e un piccolo berretto di lana ancora in testa. Un altro vecchio
giaceva davanti a una porta in pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava
di scappare. Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi
che erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola, uno di
questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva cercato di saltare per
mettersi in salvo mentre i miliziani gli sparavano.
C’erano stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era
diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri di
munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come quelli usati dai
palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora un’arma avevano cercato di
difendere le loro famiglie. Nessuno avrebbe mai conosciuto la loro storia.
Quando si erano accorti che stavano massacrando il loro popolo? Come avevano
fatto a combattere con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla
moschea, c’era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la
canna spezzata in due.
Camminammo in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri
cadaveri, gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di
mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto. Laggiù c’era la
donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il signor Nuri, disteso sulla
spazzatura al lato della strada. A un certo punto, guardai con attenzione la
donna con la bambina perché mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse
assunto una posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri
occhi.
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