1.
Nel 2016, subito dopo la vittoria di
Trump contro Clinton, fui sorpreso nell’ascoltare amici e pazienti di sinistra,
soprattutto di estrema sinistra, rallegrarsi per la vittoria di Trump contro
una donna che, negli USA e anche in Italia, era detestata come campionessa
dell’Establishment americano (direi di tutti gli establishment). E
in effetti è un dato di fatto: Wall Street, e soprattutto il nuovo impero
americano chiamato GAFA (Google, Apple, Facebook, Amazon), appoggiarono Clinton
nel 2016 così come hanno appoggiato ancor più massicciamente Biden nel 2020.
L’oppositore democrat questa volta ha potuto attingere a una
massa di denaro enorme, ben superiore a quella di cui disponeva Trump. Si sono
schierati per Biden da una parte la Silicon Valley, dall’altra la
Hollywood liberal e democrat, oltre che la grande
finanza newyorkese. Per non parlare dei grandi media americani, i quali si è
visto che non influiscono minimamente sulla grande massa.
Una prima analisi approssimativa del
voto nel 2020 conferma le analisi già fatte nel 2016: il voto trumpista si
concentra essenzialmente nelle campagne e nei piccoli centri di tutti gli
stati, negli stati agricoli e meno centrali, tra i rednecks[1] e gli operai, tra i farmers (contadini)
e i ranchers (allevatori), in particolare tra gli anziani
bianchi e con il più basso livello di istruzione. Se dovessimo applicare quindi
delle rigorose griglie marxiste, dovremmo dire che il grande capitale ha fatto
vincere Biden, mentre Trump era ed è il campione di quelli che Gramsci chiamava
strati subalterni. In termini più antichi, la plebe è per Trump, i
patrizi (almeno in senso culturale) sono per Biden.
Qualcosa di molto simile accade
anche in Europa, e in Italia. Le elezioni degli ultimi anni hanno visto questa
polarizzazione: sempre più il voto per la sinistra (in Italia PD, LeU, Italia
Viva) è il voto tipico delle grandi metropoli e soprattutto del centro delle
grandi metropoli, del ceto medio-alto e più colto, dei giovani. Mentre il voto
per la Lega e Fratelli d’Italia è sempre più un voto rurale o di piccoli
centri, del ceto medio-basso soprattutto se poco colto, e dei più anziani. I
“vincenti” votano sempre più a sinistra, i “perdenti” sempre più a destra. Si
tratta in effetti di un ribaltamento epocale.
Fino a non molti anni fa, in Occidente,
le roccaforti elettorali della sinistra (partiti socialista, comunista,
laburista) erano le grandi periferie urbane e industriali, le zone più povere
anche se urbanizzate dei paesi occidentali. In questi ultimi anni è avvenuta
una mutazione profonda nella composizione elettorale dei paesi europei e
nord-americani, forse la mutazione più spettacolare da cento anni a questa
parte. Cambiamento su cui pochi politologi di sinistra hanno riflettuto, e che
quindi molto male hanno spiegato
2.
Tra le cento maggiori città americane
per numero di abitanti, il 64% è amministrata da sindaci democratici, il 29% da
repubblicani, e il 7% da indipendenti (spesso però più assimilabili alla
sinistra che alla destra). Se poi passiamo alle dieci maggiori città americane,
la prevalenza della sinistra democrat diventa schiacciante:
ben otto metropoli (New York, Los Angeles, Chicago, Houston, Philadelphia,
Phoenix, Dallas, San José CA) sono amministrate da democrats, solo
una (San Diego in California) è amministrata da un republican, e
una sola (San Antonio, Texas) da un indipendente.
In Europa la situazione non è molto
diversa. Delle venti più grandi metropoli europee, ben 15 sono amministrate da
forze di sinistra o centro-sinistra, solo tre (Mosca, Helsinki, Varsavia) dalla
destra, e due (Atene e Roma) da sindaci inclassificabili. Notiamo comunque che
la sinistra tiene quasi tutte le grandi capitali europee: Londra, Parigi,
Berlino, Bruxelles, Copenaghen, Oslo, Stoccolma, Vienna. Istambul è governata
da un sindaco, Ekrem Imamoglu, che si oppone all’egemonia anti-democratica di
Recep Tayyip Erdogan, lo possiamo quindi considerare di sinistra liberale.
Persino in Australasia accade qualcosa
di simile: delle quattro metropoli maggiori, due hanno sindaci di sinistra, una
di centro, una di destra.
Dato che invece l’entroterra di tutti
questi paesi tende a premiare la destra e l’estrema destra, sembra realizzarsi
lo slogan di Lin-Biao, ex-braccio destro di Mao, quando teorizzò la strategia
delle “campagne che assediano le città”, ispirandosi alla guerra del Vietnam
negli anni 1960. Da noi, la sterminata provincia del paese assedia le
cittadelle urbane liberal e di sinistra. Possiamo dire che con
vittoria di Biden nel 2020 le città hanno spezzato l’assedio delle campagne,
almeno in America.
Questo deciso situarsi a sinistra delle
grandi metropoli è a sua volta solo un aspetto di una polarizzazione più
generale degli elettorati occidentali, a parte qualche rara eccezione. Si è
calcolato che il tipico elettore di sinistra è sempre più
giovane
donna
abita nei più grandi centri urbani
ha un reddito familiare tendenzialmente
medio o alto
un livello d’istruzione più alto della
media
Al contrario, il tipico elettore
di destra o populista (ma il populismo di solito si risolve nella destra, come
abbiamo visto in Italia col flusso di voti da M5S alla Lega) è: anziano,
maschio, abita in piccoli centri o in zone rurali, ha un reddito
tendenzialmente basso così come un’istruzione di livello poco elevato.
Segno che una griglia di tipo “classe
sociale” in senso marxista non spiega più nulla dell’assetto politico e
ideologico delle nostre società iper-industriali.
Si era vista questa nuova polarizzazione
nel 2016 anche con il voto sulla Brexit: il Leave era
considerato tipicamente di estrema destra populista, il Remain tipicamente
di sinistra moderata. Come è noto, il voto anti-Brexit (Remain) ha
prevalso in Scozia (che tradizionalmente vota a sinistra) e in Inghilterra ha
prevalso solo a Londra.
Sarah Jones ha tracciato l’identikit del
tipico elettore Remain e del tipico elettore Leave[2]. Il paradigma
dell’elettore anti-Brexit è una ragazza scozzese o londinese ventenne, con
educazione universitaria, che ha sostenuto il partito dei Verdi e che ha o avrà
una posizione manageriale, amministrativa o professionale elevata. Tipico
elettore pro-Brexit è un lavoratore manuale qualificato di sesso maschile,
dell’East Anglia[3], sui sessant’anni, che ha lasciato gli
studi a 16 anni e ha sostenuto il partito UKIP (anti-europeista e nazionalista)
di Neil Farage.
Ora, se si chiedesse a chiunque quale
identikit corrisponde a una figura socialmente e storicamente vincente,
chiunque direbbe che è la prima, mentre la figura socialmente e
storicamente perdente è la seconda. La prima figura
(anti-Brexit) ci dà un’immagine del futuro, la seconda (pro-Brexit) un’immagine
di un passato declinante, anche per l’età avanzata di questo elettore-. Pure il
fatto di essere piuttosto maschio che femmina conferma questo declino… Basti
pensare che Londra – l’unica parte d’Inghilterra che abbia fatto
prevalere Remain – produce quasi un terzo del prodotto interno
lordo britannico, pur comprendendo meno di 1/7 della popolazione del paese.
Eppure i risultati elettorali hanno avuto il risultato inverso a quello della
direzione del successo storico: i supposti vincenti hanno perso, e i supposti
perdenti hanno vinto.
3.
Questo paradosso va generalizzato a
tutto l’Occidente. Le vittorie elettorali dei populismi di destra in questi
ultimi anni possono essere viste come una rivincita dei perdenti storici.
Di quelli che chiamerei la retroguardia dell’Occidente, di chi vuole andare
indietro piuttosto che avanti. Per andare indietro intendo:
tornare al nazionalismo chiuso e al protezionismo economico, combattere ogni
forma di globalizzazione politica ed economica, arginare o annullare le
immigrazioni dai paesi più poveri, puntare all’omogeneità etnica e religiosa
del proprio paese, incrementare gli apparati polizieschi, mettere in primo
piano l’ardore patriottico. Andare avanti significa andare
verso un mondo sempre più globalizzato, con società sempre più aperte, come
predica George Soros sulla scia della filosofia di Popper (non a caso Soros è
divenuto il nemico pubblico n. 1 del suo concittadino Orbán). Perché
questo andare indietro tipico delle destre non-liberali
conquista sempre più adepti tra le frange più deboli, economicamente e
culturalmente, delle nostre società? Questa è la vera domanda a cui cercare una
risposta.
Domanda a cui il pensiero classico della
sinistra, anche di quella più sofisticata, dà una risposta pre-confezionata e
chiaramente insufficiente: che i più poveri, i più deboli, i più marginali
nelle nostre società votano per la destra perché soffrono delle crescenti
diseguaglianze soprattutto economiche. Il chiodo fisso della sinistra oggi è
denunciare l’ampliarsi delle diseguaglianze economiche; non vede altro.
Che negli ultimi decenni le
diseguaglianze economiche si siano ampliate è un fatto, ma non sembra che il
voto e le opinioni dei ceti che ho chiamato perdenti esprimano
una richiesta di più eguaglianza. Tutt’altro. Anche se Trump è stato votato
dai rednecks americani, subito ha abbassato le tasse ai più
ricchi. La flat tax reclamata da Salvini si risolveva di fatto
in un abbassamento drastico delle tasse per i più ricchi. La mia vicina di casa
in campagna, contadina povera, che ha votato per la Lega, non ha votato certo
perché la Lega promette un maggiore livellamento dei redditi, ma perché lei teme
l’immigrazione, anche se nella nostra zona non ci sono praticamente immigrati
poveri (è ben noto che le regioni che votano per lo più per i partiti xenofobi
sono quelle che hanno meno immigranti). Diciamolo francamente: ai ceti
subalterni, stranamente, di una maggiore eguaglianza non importa nulla (ma non
è così strano se si buttano i vecchi occhiali economicisti con cui da sempre
guardiamo alla realtà mentale della gente). Se questa fosse la loro maggiore
preoccupazione, avrebbero potuto votare per la sinistra d’opposizione, là dove
esiste, che denuncia il modo di governare anche della sinistra moderata.
In effetti si sono avuti qua e là dei
successi della sinistra radicale: l’ascesa del “socialista” Bernie Sanders
negli USA, il buon risultato del gauchiste Jean-Luc Mélenchon
alle elezioni presidenziali francesi del 2017 (19,58% al primo turno), le
affermazioni della sinistra populista Podemos in Spagna (ottenne il 20,7% alle
elezioni politiche del 2015), di Syriza di Tsipras in Grecia (ha governato il
paese dal 2015 al 2019); e poi abbiamo la Linke tedesca, votata per lo più
nella Germania dell’Est dai nostalgici del comunismo (ebbe il suo picco
elettorale nel 2009 con circa il 12%). Dobbiamo però anche ricordare che queste
affermazioni si sono rivelate effimere e facilmente reversibili. Sanders alle
primarie democratiche è stato battuto nel 2016 da Hillary Clinton, nel 2020 da
Joe Biden. Il partito di Mélenchon, La France Insoumise, è crollato al 6,3%
alle elezioni europee del 2019. L’elettorato di Podemos in Spagna si è poco a
poco eroso fino a cadere al 10% alle elezioni europee del 2019. Syriza in
Grecia è stata sonoramente battuta da Nea Demokratia di destra nel 2019 ed è
tornata all’opposizione. L’elettorato della Linke stagna attorno al 9% in un’eterna
opposizione.
Tutte le analisi del voto euro-americano
mostrano comunque che le classi sociali più sfavorite – economicamente e
culturalmente – scivolano sempre più verso l’estrema destra, non verso
l’estrema sinistra. Insomma, non mi pare proprio che il vessillo “più
eguaglianza” smuova le masse più svantaggiate.
A queste masse marginali importano
sempre più altre cose, che riassumerei nel termine narcisismo
identitario. Ovvero, orgoglio nazionale (o regionale, come nel caso dei
partiti separatisti catalano, basco, scozzese, un tempo la Lega di Bossi),
riaffermazione della cultura originaria di appartenenza – il rosario di
Salvini, la sintonia di Trump con il Bible Belt americano, il coccardismo
chauvinista della Le Pen, il culto nell’Union Jack e “God Save the Queen” degli
inglesi, ecc. È un potente ritorno – backlash, sferzata
all’indietro– a un focolarismo profondamente minacciato dalla società
globalizzata. Esso non ha ragioni economiche profonde, ma ragioni di tipo
squisitamente culturale e psicologico in senso lato (oggi, lo psicoanalista ha
più da dire dell’economista).
La società globalizzata che le masse
“perdenti” respingono è una società in cui tutti parlano inglese, in cui ci si
sposta facilmente da un paese all’altro per cercare lavoro o il partner
amoroso, in cui tutti comunicano attraverso skype o zoom o lo smartphone, in
cui le credenze e i culti religiosi restano fatti privati che non hanno
incidenza sulla vita pubblica, in cui occorre rispettare come pari omosessuali,
trans ed eccentrici, in cui i maschi devono subire la superiorità di molte
donne, ecc.
Dagli anni 1990 in poi assistemmo a
spettacolose proteste dei cosiddetti no-global in occasione degli incontri al
vertice dei paesi più industrializzati. Diciamo che queste manifestazioni –
feste violente ma essenzialmente innocue – volte essenzialmente contro il
primato neo-liberista dell’epoca, contro il Washington Consensus, se ha avuto
un effetto è stato uno paradossale sulle masse: le ha portate non a contestare
il capitalismo internazionale globalizzato, ma verso il neo-fascismo e il
populismo di destra. La valanga di scritti contro il neo-liberalismo dominante,
a cui si sono dedicati per decenni gli intellettuali di sinistra, è ormai del
tutto obsoleta, perché dopo la crisi economica del 2008 e soprattutto dopo
questa del 2020 dovuta al coronavirus, il neo-liberalismo dei mercati aperti è
ormai in generale ritirata. Queste crisi hanno rimesso in gioco l’importanza
essenziale degli stati, delle banche centrali, e quindi delle decisioni
politiche interventiste. Se l’Unione Europea, struttura politica, non fosse
intervenuta, molti paesi europei si sarebbero spappolati. Ma a questo
neo-keynesismo che contagia sempre più i poteri civili in Occidente risponde
una febbre anti-globalista che i vari populismi, convergenti verso destra,
incarnano bene. Le immense retroguardie delle nostre società sembrano andare
non verso una prospettiva socialista, ma verso un patetico narcisismo
nazionalista.
I punti di discrimine sono sempre meno legati
al tipo di lavoro e di reddito, sempre più alla propria posizione rispetto
alla cultura globalizzata. Accade così che un negoziante di
Parigi nel 2017 abbia votato alle presidenziali per Macron[4],
mentre un negoziante di un piccolo centro di provincia con reddito eguale o
superiore al collega di Parigi abbia votato per il Front National. Un
negoziante giovane può votare Macron o un candidato verde, mentre un negoziante
anziano che ha gli stessi introiti, ma esercita in una cittadina del
Pas-de-Calais, vota per Le Pen. La differenza pertinente è se si è più o meno
inseriti nelle correnti culturali di oggi, se si è plugged nell’informatica,
nel virtuale, nel cosmopolitismo, se si conosce l’inglese. La differenza quindi
non è più nemmeno quella sinistra/destra nel senso tradizionale (la sinistra
che vuole più eguaglianza dei diritti e dei redditi, e la destra che vuole può
gerarchie e severità), ma un’opposizione del tutto diversa: mondo delle
identità focolariste versus mondo cosmopolitico.
In questa nuova divisione del campo
politico e ideologico, la sinistra si trova obtorto collo dal
lato della barricata neo-liberale globalizzato. La sinistra non può mai
dimenticare di essere internazionalista, e che la sua canzone ufficiale si
chiama appunto L’Internazionale.
4.
La sinistra tradizionale è imprigionata
in un assioma economicista: quel che conta soprattutto oggi, per tutti, è una
maggiore eguaglianza economica (oltre che all’eguaglianza dei diritti e delle
opportunità, che però non sono rivendicazioni specifiche della sinistra
socialista). Questo assioma la porta sempre più verso sonore sconfitte
elettorali.
Nella campagna referendaria del 2016 nel
Regno Unito i sostenitori del Remain hanno rovesciato sugli
elettori una valanga di fatti, fatti, soprattutto fatti economici, il cui succo
era: se ce ne andiamo dall’Europa, la nostra economia andrà a rotoli. I
sostenitori del Leave invece hanno fatto appello a sentimenti
viscerali, a slogan idealisti, in particolare a una aspirazione di independence,
e hanno vinto. Hanno fatto appello a valori, anche se per me non condivisibili,
non a cifre economiche. E poi, i fatti dei sostenitori del Remain erano
poi talmente ‘fatti’?
Gli anti-Brexit hanno ripetuto che
uscendo dall’Europa il Regno Unito sarebbe entrato in un declino economico. Ma
nei quattro anni trascorsi – prima della crisi generalizzata per il covid-19 –
non mi pare che l’economia britannica sia crollata. Ha avuto una certa
flessione, ma come molti altri paesi, e meno della Germania. Del resto alcuni
paesi fuori dell’Europa – come Svizzera, Norvegia, Islanda – non se la passano
affatto male economicamente, tutt’altro. La verità è che gli economisti non
sono mai veramente in grado di prevedere il futuro. Può darsi che l’uscita
dall’Europa produca il declino economico britannico, può darsi di no.
Ma le vere ragioni per cui ci si
opponeva alla Brexit non erano, nel fondo, ragioni di portafoglio: è perché si
condivide un ideale forse utopico, quello dell’affratellamento di tutti i
popoli europei, il crollo progressivo delle frontiere, un mondo unificato di
esseri umani cooperativi. Ai valori nazionalisti della Brexit si opponevano non
ragioni economiche, ma altri valori. Solo che i pro-Europa hanno mascherato i
loro valori con previsioni economiche, mentre i Brexiteers non
li hanno mascherati, e hanno prevalso.
Qualcosa di simile accade con la propaganda
per far accettare gli immigrati. Anche qui la sinistra e i liberali ripetono
che l’immigrazione dà vantaggi economici, il presidente dell’INPS disse che se
non ci fosse il lavoro degli immigrati non potremmo più pagare le pensioni, che
senza lavoratori stranieri molte fabbriche del Nord non potrebbero funzionare,
ecc. Non dico che questi argomenti non siano veri, ma non toccano il cuore di
chi si rammarica nel vedere il proprio paese cambiare color di pelle. Perché
invece non mostrare che “gli immigrati sono simpatici!”? È la strada percorsa
da Checco Zalone con il film Tolo tolo, per esempio. Si è detto che
quella di Zalone è propaganda semplicistica a favore degli africani immigrati.
Ma in politica, per convincere la gente, ci vuole propaganda semplicistica, non
statistiche.
In questi ultimi anni il razzismo e il
suprematismo etnico sono in crescita, un po’ dappertutto in Occidente – ma
questo non ha fatto seguito alla crisi del 2008 come dicono molti politologi di
sinistra. Negli Stati Uniti, è stato calcolato il numero degli Hate Groups,
ovvero dei gruppi che odiano “gli altri”[5],
passati dai 470 del 1999 ai 1030 del 2018. Ma questa crescita esponenziale è
iniziata solo nel 2015, quando la crisi economica era in gran parte superata.
Forse la sinistra dovrebbe rendersi
conto che la storia sociale e politica è certamente condizionata profondamente
da conflitti economici, ma anche da ciò che il marxismo chiama sprezzantemente “ideologie”,
e che è invece il sale della terra della vita sociale: i valori. Valori
religiosi, la volontà di potenza, valori di genere (sessuali), valori
filosofici, livelli di istruzioni, ideali di vita… È un dato di fatto che ormai
i perdenti sociali sono entusiasmati non dall’ideale di una maggiore
eguaglianza, ma da altri valori: l’identità e la purezza nazionali, il rigetto
dell’autorità in tutti i campi (scientifico, politico, economico), un bisogno
di maggiore sicurezza contro la piccola criminalità, la libertà di “parlare
scorrettamente”, il restauro delle tradizioni religiose e del primato degli
orientamenti sessuali “normali”. Il bisogno di una maggiore eguaglianza
economica è sentito soprattutto, oggi, da chi è più ricco.
Note
[1] Letteralmente,
“colli rossi”. Secondo il Cambridge Dictionary: “una persona povera di pelle
bianca, priva di istruzione, che vive specialmente nelle zone rurali del Sud
degli Stati Uniti, che nutre idee e credenze piene di pregiudizi (= scorrette e
irragionevoli)”.
[2] Cfr. M.
Revelli, La politica senza politica, Einaudi, Torino 2019, p. 32.
[3] È una regione
inglese senza grandi metropoli, la cui economia è in parte rallentata da
importanti zone rurali e costali.
[4] Al secondo turno
delle presidenziali francesi, il 90% dei parigini ha votato Macron.
[5] buff.ly/2NBGoEp.
[Questo articolo riprende e amplia e
aggiorna un pezzo già uscito su “Doppiozero”, Le campagne assediano
le città].
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