Non è ancora finita! La tempesta non si placa. Donald
Trump si attribuisce il merito dell’annuncio di nuovi vaccini e si predispone a
ritirare il grosso delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan, come promesso nel
2016. E, come noto, il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha dichiarato: «Vi
sarà una fluida transizione verso una seconda amministrazione Trump».
Per comprendere cosa è in atto negli Stati Uniti (e,
di riflesso, da noi), a due settimane dalle elezioni presidenziali,
concentriamoci sull’essenziale, occultato dai grandi media, per manipolazione
o per semplice ignavia.
Nelle principali democrazie occidentali, e altrove,
poche centinaia di persone posseggono una quota che varia dal 40 al 50% della
ricchezza; i poverissimi restano tali con ulteriori danni derivanti dalla
pandemia; tutti gli altri ‒ la grande maggioranza dei cittadini elettori ‒
continuano a perdere potere economico e anche politico, in proporzione ai
propri introiti e averi. Quell’1%, che non è nemmeno tale, deve garantirsi uno
status quo che non sia turbato dalla politica attraverso istituzioni,
altrimenti dette democrazia, che continuano a esistere, se non proprio a
funzionare, e che potrebbero costituire strumento di emancipazione di
maggioranze avverse. Perchè ciò non avvenga, esse devono restare divise ed
essere occupate da partiti e persone che, in vario modo, non abbiano volontà o
velleità di maggiore eguaglianza popolare, raggiungibile attraverso misure
fiscali progressive, ricerca di modelli di sviluppo ecocompatibili,
rafforzamento dello Stato sociale, riduzione delle spese militari (tanto per
fare alcuni esempi che possono essere tratti dalle encicliche di Papa
Francesco, oltre che dal pensiero di economisti quali Thomas Piketty, Joseph
Stiglitz, Mariana Mazzucato e persino da politici quali Bernie Sanders e Jeremy
Corbyn: purtroppo, almeno per ora, mancano nomi italiani di riferimento).
Tale obiettivo ‒ chiamiamolo conservatore ‒ viene
perseguito in due modi.
Il modello prevalente negli ultimi decenni è stato
quello di governi neoliberisti, diversamente sfumati, di centro-destra o di
centro-sinistra, con il comune rispetto per l’economia nella sua attuale
configurazione, addomesticabili con la forza del denaro, attraverso
finanziamenti illeciti o anche legali, meglio se ingenti per coloro che ne
usufruiscono (si calcola che la campagna elettorale appena conclusa negli Stati
Uniti sia costata oltre $14 miliardi), irrisori per coloro che tengono i
cordoni della borsa. La proprietà dei principali media può fare il resto,
elargendo o negando carote in forma di visibilità ai contendenti, mentre
apposite lobbies somministrano pressioni settoriali. La candidatura di Joe
Biden appartiene a questo primo modello, anche se deve fare i conti,
all’interno del suo partito, con una sinistra agguerrita che ha avuto il merito
di convincere il proprio elettorato prevalentemente giovanile a partecipare al
voto, in nome del male minore. Effettivamente tale, perché la
ricandidatura di Trump ha costituito e costituisce una minaccia alle
istituzioni e alle garanzie democratiche, in una gara all’ultimo voto, a
scapito di sondaggi d’opinione che, ancora una volta, si sono rivelati
previsioni incapaci di autoadempiersi. Non è un caso che la borsa, non soltanto
statunitense, abbia subito festeggiato la vittoria di Sleepy Joe che, come
ciliegia sulla torta, dovrà fare i conti con i contropoteri di una Corte
Suprema iperconservatrice e, salvo sorprese nelle due elezioni suppletive in
Georgia, con un Senato a maggioranza repubblicana, a scanso di concessioni
eccessive nei confronti di una sinistra che non merita di definirsi
socialdemocratica.
Nello stesso tempo, Donald Trump ha adempiuto e
tuttora adempie al suo ruolo di secondo modello politico a disposizione dei
poteri vigenti. Come i suoi omologhi europei (Le Pen e Meloni, tanto per citare
due nomi), egli ha svolto il compito essenziale di dividere la maggioranza dei
cittadini che avrebbero interesse a modificare, se non a sovvertire, quei
poteri. Lo ha fatto fomentando ogni possibile guerra tra poveri e meno
abbienti, facendo tesoro della ferocia di coloro che, come nella Germania di
Weimar, si vedono privati di una condizione piccolo borghese faticosamente
acquisita e che, prigionieri della loro (in)cultura, non si accorgono che il
loro Gauleiter globale nulla ha fatto per salvaguardare i loro interessi
materiali, invece garantiti ai loro (ex)padroni con un ulteriore taglio alle
aliquote più alte di tassazione.
Non vorrei avere buttato troppa acqua sui fuochi, non
tutti fatui, suscitati dalla vittoria elettorale di Joe Biden e di Kamala
Harris. Il nostro presidente del Consiglio, debitamente redarguito da La
Repubblica (cfr. Stefano Folli, 4 novembre), ha fatto precedere le sue
felicitazioni al presidente eletto con quelle rivolte «al popolo americano e
alle sue istituzioni per l’eccezionale affluenza, di democratica vitalità». La
vera buona notizia consiste, infatti, nella capacità dimostrata da società e
istituzioni statunitensi di sostituire un presidente oggettivamente sovversivo,
contenendo tensioni senza precedenti, attraverso uno scontro elettorale
autenticamente democratico. Malgrado le manchevolezze del meccanismo elettorale
vigente, le accuse di brogli continuano a rivelarsi inconsistenti. Si profila
la possibilità di salvare vite umane da una pandemia in crescita globale. La
volontà di tornare nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, nell’alveo del
sistema multilaterale, è un segnale importante da parte del presidente eletto.
Tuttavia, anche se sconfitti, i Trump e i Le Pen
servono a costringere forze alternative progressiste ad accettare il vecchio
modello liberista, a votare i candidati che lo servono, come mali minori. Con
la capacità residua, nel medio periodo, di continuare a costituire un pericolo
per la democrazia, contribuendo alla diffusione di un modello autoritario che
in anni recenti ha conquistato grandi paesi quali l’India e il Brasile, mentre
si profila l’egemonia mondiale della Cina, ove oligarchia finanziaria e
politica coincidono, senza le discrepanze che tuttora offrono spazi di
innovazione democratica in tutto l’Occidente e rendono essenziale l’impegno per
un’Europa più integrata.
In questo contesto non sfugge il senso profondo della
dichiarazione di Pompeo, in rappresentanza di oltre 70 milioni di elettori che
non hanno dato alcun segno di deporre le armi. Gli ha risposto Bernie Sanders
su Twitter: «No, segretario Pompeo. Non ci sarà una transizione verso un
secondo mandato Trump. La gara si è conclusa. Joe Biden sarà il nostro prossimo
presidente. Come può predicare rispetto della democrazia e della volontà
popolare ad altri governi se lei stesso non ha la decenza di farlo?».
(Una versione ridotta dell’articolo è
stata pubblicata su “Il Fatto Quotidiano” del 20 novembre)
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