La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
domenica 31 gennaio 2021
Il mondo che CAMBIA - Umberto Galimberti
Quel sottile razzismo svedese - Joshua Evangelista
Un appello lanciato da 39 giornalisti del servizio radiofonico pubblico svedese punta il dito contro le discriminazioni, a volte velate a volte no, che i reporter (e più in generale i lavoratori) con un background straniero sono costretti a subire nell’insospettabile Svezia.
Se pensiamo
alla Svezia pensiamo a un paese aperto alle diversità, accogliente e
rispettoso delle minoranze. Lo pensiamo perché è vero.
Storicamente, la
Svezia è sempre stata uno dei rifugi più sicuri per chi migra. È il terzo
paese al mondo per accoglienza di rifugiati pro capite dietro Canada e
Australia e nel 2015 ha registrato un record di 162.877 richieste di asilo,
l’1,6% della popolazione svedese, composta da circa 10 milioni di persone.
Equiparando questo dato agli abitanti degli Stati Uniti, è come se Washington
nel 2015 avesse ricevuto cinque milioni di richieste (in realtà sono state solo
83 mila).
Il 25% degli svedesi ha un background straniero
Non ci sono
numeri esatti per stabilire quanti svedesi abbiano un background straniero
perché – fortunatamente – lo stato svedese non basa alcuna statistica
sull’etnia. Sappiamo però che nel 2016, 1.784.497 residenti erano nati all’estero, 535.805
erano nati in Svezia da due genitori nati all’estero, 739.813 avevano un
genitore nato all’estero e 6.935.038 non avevano genitori nati all’estero. Se
in maniera grezza considerassimo il background diverso come la possibilità che
qualcuno sia nato all’estero o abbia almeno un genitore nato all’estero,
potremmo dire che il 25% degli svedesi ha un background diverso. Uno svedese su
quattro.
Il
sito sweden.se, il portale governativo che
racconta il Paese ai turisti, descrive in maniera entusiastica questa varietà
culturale: “L’immigrazione ha portato con sé nuovi costumi e tradizioni
che nel tempo si sono intrecciati nel tessuto di quella che chiamiamo società
svedese. Allo stesso modo, i ‘nuovi svedesi’ riprendono le vecchie
tradizioni svedesi, e spesso sono i bambini a introdurle nella famiglia. Gli
asili nido e le scuole esercitano una notevole influenza nella sfera sociale.
Il risultato – nella migliore delle ipotesi – è un fertile incrocio culturale”.
Al di là dei
toni, questo approccio è generalmente condiviso dalla maggioranza della
popolazione.
Per aiutare
i nuovi arrivati a integrarsi nella società, la Svezia
offre programmi di integrazione finanziati con fondi pubblici. I
migranti prendono lezioni di lingua svedese e imparano a conoscere la cultura.
A Ronneby, una piccola città industriale nel sud della Svezia, c’è persino un
programma di fitness gratuito dedicato ai nuovi arrivati.
Tra i frutti
di una comunità interculturale dovrebbe esserci anche il sorgere di una classe
di professionisti dell’informazione figli di questa eterogeneità. Così dovrebbe
essere, così non è esattamente in Svezia.
“Conosci qualcuno che vende armi?”
Sull’onda
del Black Lives Matter statunitense, a settembre quattro
giornaliste del servizio radiofonico pubblico svedese – Palmira Koukkari
Mbenga, Maya Abdullah, Mona Ismail Jama e Freshta Dost – hanno scritto una lettera pubblica, lunga dodici pagine, nella quale affermano che la
radio svedese non riflette la realtà del Paese. L’appello è stato quindi
sottoscritto da 39 giornalisti (21 anonimi) dello stesso servizio e in seguito
portato avanti da più realtà dell’informazione pubblica e privata, in un
dibattito che non è ancora finito e che sta appassionando sempre di più
l’opinione pubblica.
“È chiaro
che il servizio pubblico svedese abbia investito nella diversità per diversi
decenni”, ha scritto su Expressen la giornalista Alexandra
Pascalidou, per anni voce e volto della radio e della tv pubblica. “Perché alla
fine qualcosa è andata storta? Perché le persone sono così arrabbiate?”
Pascalidou ha intervistato numerosi giornalisti del passato e del presente con
background straniero cercando di capire cosa fosse andato storto. Tra questi, è
illuminante la risposta di Arash Mokhtari, 38 anni ed ex reporter e conduttore
della SVT: “Il servizio pubblico dice di essere interessato alla diversità
perché è come una spilla che vogliono indossare e per cui ricevono complimenti,
una gomma da masticare che masticano e sputano quando il gusto esotico si è
placato. Pensano che sia fantastico avere nel team qualcuno su una sedia a
rotelle o nato in un altro paese, ma quando si tratta di attività legate alle
notizie, diventa un po’ scomodo. Più prestigioso è il lavoro, minore è la
diversità”.
Nell’appello si legge, tra le altre cose, che nella lettura delle notizie le minoranze vengono ritratte quasi sempre solo come vittime o come parte dei problemi sociali; che le redazioni sono quasi solo bianche, che i capi sono bianchi e che a loro volta assumono quasi solo personale bianco, anche se a volte meno qualificato.
Freshta
Dost, che lavora al terzo canale P3 Nyheter da Göteborg, racconta di sentirsi
spesso esotizzata, esclusa e invisibile. “Quando ero stata appena
assunta, un collega di Stoccolma a me sconosciuto mi ha chiamato e mi ha
chiesto se avessi potuto leggere un discorso in cui dovevo fare la voce di un
mendicante bulgaro. Era importante che l’accento fosse marcato. Per me è stata
una domanda molto strana, non so come si doppia una persona bulgara”, ha spiegato
in un’intervista. Non solo: a Freshta è stato anche chiesto di interpretare
un simpatizzante dell’ISIS mentre ad altri colleghi uomini hanno
chiesto di doppiare criminali. Secondo Freshta Dost non sono scelte casuali, ma
testimoniano uno schema ben preciso e una cultura prevaricante dentro la radio.
“Per quale motivo siamo stati assunti, per doppiare mendicanti e criminali nei
servizi degli altri colleghi?”
A Mona
Ismail Jama hanno chiesto se conoscesse qualcuno che vende armi: “Ci si
aspetta che in quanto somala io conosca il mercato nero delle armi”. E
ancora, spiega Palmira Koukkari Mbenga che “durante un incontro con colleghi
che non vedevo da molto tempo, il mio nuovo taglio di capelli ha suscitato
molto scalpore. All’improvviso, sento una mano dietro la mia testa
accarezzarmi, più o meno allo stesso modo in cui immagino che si accarezzi
una pecora. Non era la prima volta che mi si toccavano i capelli al lavoro,
senza che prima mi si chiedesse il permesso”.
In Svezia,
il dibattito legato a Black Lives Matter è molto sentito. A giugno è arrivato
l’appello A Call for Change, in cui oltre un centinaio di
afro-svedesi impegnati nei settori di comunicazione, media, musica e moda
avevano chiesto ai leader del settore di impegnarsi maggiormente nel contrastare
il razzismo e la discriminazione. Tra i firmatari c’erano gli artisti Jason
Timbuktu Diakité e Sabina Ddumba, nonché l’autore e scrittore Amat Levin.
L’appello delle giornaliste della Radio svedese è ancora più preciso e fornisce
obiettivi concreti e quantificabili.
L’appello e le richieste
Nell’appello
ci sono richieste specifiche: entro il 2025 almeno il 25% dei 2.200
dipendenti dovrà avere un background straniero e di questi un 15% dovrà essere
non europeo. Ciò dovrebbe valere anche per le posizioni manageriali. Il
punto, spiegano le autrici, è che questo razzismo colpisce non solo i
dipendenti, ma anche gli ascoltatori, secondo lei. Non coprendo in maniera
puntuale e precisa le notizie di esteri e di interni legati alle minoranze
si fa un cattivo servizio pubblico, soprattutto a quel 25% della
popolazione.
Notizie che,
secondo Maya Abdullah, vengono prese meno in considerazione se la proposta
viene da un giornalista di altro background: “C’è resistenza quotidiana
quando proponiamo notizie. Dobbiamo farci sentire il triplo rispetto ad
altri colleghi affinché un argomento venga incluso nel telegiornale”.
Frontiere
News ha chiesto a Freshta Dost quali fossero state le conseguenze dell’appello
(che nel frattempo è stato sottoscritto anche da giornalisti della televisione)
all’interno delle redazioni. “Da fuori veniamo viste come eroine”, ci ha
spiegato Dost, “ma dentro stiamo avendo tanti problemi. Girano cattive
informazioni su di noi, la destra sta interpretando in chiave politica
il nostro appello e dice che siamo politicizzati”.
Freshta Dost
ci tiene a precisare che sono stati costretti a lanciare questo appello. “Non
avevamo scelta, in Svezia il razzismo viene accettato sempre più, a
tutti gli strati. Persino nelle aziende pubbliche come la Radio svedese”.
Spiega che si tratta di un “adeguamento”: “Questo clima pesante si avverte
ovunque. Il servizio pubblico svedese non fa altro che adeguarsi a quello che
succede nella società”.
Intervistata
dal quotidiano Aftonbladet, la CEO della Radio svedese Cilla
Benkö ha negato le accuse. Intanto sempre più media svedesi ammettono di avere un problema di rappresentanza
all’interno delle redazioni e anche nel mondo del cinema l’appello sta
facendo breccia. L’opinione pubblica osserva e si fa un’idea.
sabato 30 gennaio 2021
Blocchiamo quei traffici di morte - Giorgio Beretta
E’possibile bloccare le forniture di sistemi militari all’Egitto. Non solo
dell’Italia ma di tutti i paesi dell’Unione europea. E’ il punto centrale di
una lettera che la Rete Italiana Pace e Disarmo ha inviato nei
giorni scorsi al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in occasione
del quinto anno dal rapimento in Egitto di Giulio Regeni e del Consiglio
dei ministri degli Affari esteri dell’Unione europea di oggi, lunedì 25
gennaio.
“Rifiutando di concedere l’autorizzazione all’esportazione di sistemi
militari all’Egitto, l’Italia ha la possibilità di bloccare simili forniture
da parte di tutta l’Unione Europea” – riporta la nota diffusa oggi dalla Rete Pace
e Disarmo
“Si tratta di una misura – spiegano i promotori della missiva – che non
penalizzerebbe il nostro Paese, ma anzi avrebbe l’effetto di coinvolgere
tutti gli Stati membri dell’Unione europea bloccando a livello europeo
per almeno tre anni tutte le licenze di esportazione di sistemi
militari sostanzialmente identici a quelli rifiutati dall’Italia”.
In proposito, la Rete pacifista richiama la norma prevista dalla Posizione Comune del Consiglio 2008/944 (“Norme comuni per
il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari”) per
contrastare la concorrenza sleale tra i Paesi dell’UE e fare in modo che le
licenze per forniture di sistemi militari non rilasciate da un Stato non
vengano concesse da altri Stati membri.
Una norma che fu introdotta nella Posizione Comune su richiesta
delle aziende nazionali del settore militare proprio per evitare che i
dinieghi emessi da un governo finissero per favorire le aziende di altri paesi
dell’Ue: va ricordato che le autorizzazioni all’esportazione di sistemi
militari sono tuttora rilasciate dai singoli Stati membri secondo le proprie
normative nazionali.
La “commessa
militare del secolo” che imbarazza il governo
La nota di Rete Italiana Pace e Disarmo fa riferimento non solo alle due
fregate Fremm originariamente destinate alla Marina Militare
italiana (la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi) sulla cui autorizzazione
all’esportazione all’Egitto il
governo Conte non ha mai dato annuncio ufficiale e di cui la
prima (la Spartaco Schergat ribattezzata al-Galala) è salpata prima di Natale
dai cantieri del Muggiano a La Spezia in sordina senza alcuna cerimonia
ufficiale. Ma si riferisce soprattutto alle trattative in corso per quello
che è stata definita la “commessa militare del secolo”: la fornitura
all’Egitto quattro fregate Fremm e 20 pattugliatori, 24 caccia multiruolo
Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M346. Un contratto da 10,7
miliardi di dollari, il maggiore mai rilasciato dall’Italia dal dopoguerra, che
farebbe dell’Egitto il principale acquirente di sistemi militari italiani.
Non rilasciando l’autorizzazione per questo contratto l’Italia potrebbe di
fatto bloccare simili forniture all’Egitto da parte di altri paesi UE per
almeno tre anni. Non è una questione astratta: nei giorni
scorsi il presidente egiziano al-Sisi ha incontrato per la seconda
volta l’amministratore delegato della società tedesca di costruzioni navali
Lürssen, Peter Lürssen, con il quale ha discusso la collaborazione
per la costruzione in Egitto di navi
militari, tra cui fregate e corvette, molto simili a quelle di cui sta trattando
con Fincantieri.
Che la Germania stia facendo affari con il Cairo nel settore navale
militare è un dato di fatto: lo scorso settembre la Alexandria
Shipyard Company ha annunciato ufficialmente l’implementazione
di un contratto in collaborazione con la tedesca ThyssenKrupp Marine Systems
(TKMS) per la produzione locale della prima fregata egiziana di classe Meko
A-200EN.
Le
dichiarazioni di Di Maio
Oggi il ministro Di Maio dovrebbe partecipare al Consiglio dei
ministri degli Affari esteri dell’UE: tra i temi in discussione vi saranno anche
“i recenti sviluppi in Egitto”. In vista di questo Consiglio, nella diretta Facebook del 16 dicembre scorso, il
ministro Di Maio aveva informato (vedasi
anche qui) riguardo alla
decisione, assunta al termine di una riunione di governo, di voler “coinvolgere
le istituzioni europee e tutte le istituzioni internazionali per il
riconoscimento del processo” nei confronti dei responsabili delle torture e
della morte di Regeni.
Alla riunione di governo, durata diverse ore a Palazzo Chigi, erano
presenti il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il ministro della Difesa,
Lorenzo Guerini e la ministra degli Interni, Luciana Lamorgese. “Chiederemo
a tutti i paesi europei, a tutti gli Stati membri di prendere posizione sulla
verità per Giulio” – disse Di Maio nella diretta Facebook. Per il ministro,
“la verità sul Giulio Regeni è un tema di diritti umani e sui diritti umani
nessuno si deve tirare indietro”. Ma è chiaro a tutti che se l’Italia
per prima non sospende le proprie forniture militari all’Egitto sarà difficile
ottenere misure concrete nei confronti del Cairo da parte degli altri Paesi
europei.
La
credibilità di Conte
La questione investe direttamente anche la credibilità del presidente del
Consiglio, Giuseppe Conte. L’autorizzazione alla fornitura delle
due fregate Fremm e, con ogni probabilità, alle trattative per la “commessa del
secolo” da 10,7 miliardi di dollari, sarebbe infatti avvenuta – come riportava l’Ansa – l’8 giugno
scorso durante una telefonata tra il premier italiano e il presidente
egiziano al-Sisi: nella telefonata Conte avrebbe chiesto al presidente
egiziano specifici progressi sul “caso
Regeni”. Una richiesta che il 17 giugno Conte confermava nell’audizione in Commissione parlamentare d’inchiesta per
la morte di Giulio Regeni durante la quale il premier ha spiegato di aver
chiesto ad al Sisi, “una manifestazione tangibile di volontà” e di
aspettarsi nei prossimi giorni una risposta.
Risposta che è arrivata, ma non certo secondo le aspettative. Come noto, Il 30
dicembre scorsoil Procuratore Generale del Cairo non solo ha respinto la richiesta di fornire il
domicilio dei quattro agenti della National Security egiziana
che secondo la Procura di Roma sarebbero
coinvolti nelle torture e nell’omicidio di Giulio Regeni, definendola
“immotivata” e “basata su false conclusioni illogiche”, ma, gettando ulteriore
discredito sul nostro connazionale, ha affermato che il comportamento di Giulio
“non era consono al suo ruolo di ricercatore”.
Una dichiarazione che la Farnesina, in un comunicato, ha definito
“inaccettabile”, ribadendo l’impegno “ad agire in tutte le Sedi, inclusa
l’Unione europea, affinché la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni
possa finalmente emergere”.
Gli impegni
del PD
La questione investe direttamente anche il Partito Democratico. Nella
Direzione Nazionale dello scorso 26 giugno è stato infatti approvato
all’unanimità un Ordine
del giorno denominato “Giulio Regeni” nel quale, dopo aver ribadito che
“l’Egitto non può sottrarsi alla responsabilità di accertare la verità
giudiziaria sull’omicidio di Giulio Regeni e per questo serve un deciso cambio
di passo nella collaborazione da parte delle autorità egiziane”, “impegna il
PD a discutere con la maggioranza e il governo la possibile sospensione degli
accordi di fornitura militare in assenza di risposte immediate e concrete
sull’uccisione di Giulio Regeni”.
Non solo. L’Odg ribadisce un ulteriore impegno del Partito Democratico:
“Noi non rinunceremo mai a qualsiasi atto utile alla consegna
dei responsabili dell’omicidio di Giulio Regeni alla
giustizia”. Considerate le recenti ignobili dichiarazioni della Procura
egiziana è auspicabile che il Partito Democratico torni a prendere in
esame la questione impegnandosi a discutere con il governo la
sospensione delle forniture militari all’Egitto.
I silenzi di
Renzi
A fronte delle dichiarazioni della Procura egiziana risultano, invece,
assordanti i silenzi di Matteo Renzi. Lo scorso 24 novembre, nel
corso dell’audizione in Commissione Regeni il leader di
Italia Viva, aveva “rivendicato con forza” l’operato del Governo da lui
presieduto proprio quando fu rapito e ucciso Giulio Regeni. “Abbiamo messo in
campo tutti gli strumenti appena avuta la notizia” – ha detto Renzi durante
l’audizione esprimendo il “rimpianto” di non aver saputo prima della scomparsa
del ricercatore italiano: “Se avessimo saputo prima, forse, avremmo potuto
intervenire. Fummo avvisati soltanto il 31 gennaio”. Una versione che è
stata smentita dalla Farnesina.
Renzi è stato il primo premier occidentale ad incontrare al Sisi al Cairo
nell’agosto del 2014 dopo le elezioni che videro il Feldmaresciallo emergere
come incontrastato presidente. In omaggio al nuovo faraone del Cairo, Renzi
fece sbloccare la fornitura di 30 mila pistole Beretta per le forze di
sicurezza egiziane voluta dal governo Letta.
Anche questo spiega i silenzi di Renzi, solitamente ciarliero, ma mai sulle
questioni di esportazioni militari sulle quali il governo da lui
presieduto detiene
un record incontrastato. Per Renzi, del resto, al Sisi
è “un grande leader”, come disse in unaintervista ad Al Jazeera.
L’esposto
della famiglia Regeni
Nei giorni scorsi la famiglia Regeni ha presentato un esposto in Procura “contro il
governo italiano per violazione della legge n. 185 del 1990”. La legge, avevano spiegato i genitori di
Giulio Regeni, “vieta l’esportazione di armamenti verso i Paesi i cui governi
sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in
materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’Ue
o del Consiglio d’Europa”.
La motivazione è chiara: finché l’Italia continuerà ad esportare
armamenti all’Egitto non avremo mai verità e giustizia per Giulio Regeni. E
nemmeno per le migliaia di oppositori politici e attivisti per i diritti umani
come Patrick Zaki. Per Rete Italiana Pace e Disarmo la possibilità c’è e
permette di bloccare le forniture militari all’Egitto di tutta l’Unione
europea. Manca solo la volontà politica del governo. Che oramai non può più
accampare scuse.
(Articolo pubblicato anche sul Blog Unimondo.org)
Le promesse di Parigi - Francesco Gesualdi
Il 12 dicembre di cinque anni fa, a Parigi veniva firmato un accordo per
contenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto della
soglia di 2 °C, rispetto ai livelli pre-industriali, possibilmente non
oltre 1,5 °C.
L’accordo è stato firmato da 194 nazioni più l’Unione Europea, mentre è
stato ratificato da 188 stati. Il 3 settembre 2019 anche gli Stati Uniti
ratificarono l’accordo, ma due mesi più tardi, il 4 novembre,
l’amministrazione Trump notificò la decisione di ritirarsi. Il nuovo Presidente
Joe Biden, tuttavia, ha annunciato l’intenzione di voler tornare ad aderire.
L’accordo è un classico esempio di soft law, di tentativo, cioè, di
ottenere dei risultati non tramite regole vincolanti e punitive, ma tramite
meccanismi di persuasione morale e politica.
In effetti l’Accordo di Parigi, al di là
dell’obiettivo generale, non impone ai singoli stati adempimenti
obbligatori. Ogni paese che lo ratifica è tenuto a darsi degli obiettivi di riduzione
delle emissioni, ma quantitativi e tempistica sono definiti in
maniera volontaria.
E’ previsto un meccanismo per forzare i paesi a stabilire i propri
obiettivi, ma non sono previste conseguenze qualora gli obiettivi dichiarati
non venissero soddisfatti: l’accordo prevede solo un sistema “name and shame“,
la compilazione di una sorta di lista “della vergogna” in cui
inserire i paesi inadempienti.
Ad oggi 188 paesi hanno presentato i loro primi
obiettivi nazionali di riduzione di gas a effetto serra
(in sigla NDC, Nationally determined contributions). Il che permette a un
istituto come il Climate Action Tracker (CAT), di affermare che la transizione
verso un pianeta a ridotta produzione di gas serra è chiaramente cominciata.
Diversi paesi europei, dalla Gran Bretagna ad alcune piccole isole, sono
stati fra i primi ad annunciare la volontà di voler raggiungere, entro il 2050,
un livello di emissioni nette pari allo zero. Che tradotto significa impegno a non
emettere gas a effetto serra in quantità superiore a quella
che i sistemi naturali sono in grado di neutralizzare.
Quest’anno, anche l’Unione Europea, seguita dal Canada, ha deliberato nella
stessa direzione. Intanto altri paesi, fra cui Sudafrica, Giappone, Corea
del Sud, Cina, hanno dichiarato di voler diventare paesi a
zero emissioni entro archi temporali diversificati, che però ruotano sempre
attorno al 2050.
La Cina, ad esempio, conta di diventare un emettitore zero per il
2060. Tutti assieme, i paesi che hanno deliberato o che
hanno intenzione di deliberare l’azzeramento delle proprie emissioni
orientativamente per la metà del secolo, sono 127. Un numero importante
considerato che tutti assieme sono responsabili del 63% delle emissioni
globali.
Ma all’appello mancano ancora una sessantina di
paesi che mettono a rischio il raggiungimento degli obiettivi stabiliti
dall’Accordo di Parigi.
Il CAT stima che anche se tutti i 127 governi virtuosi mantenessero le loro
promesse, la temperatura terrestre crescerebbe comunque di 2,1° C
per il 2100. Molto, tuttavia, dipende dai passi che verranno compiuti
entro il 2030.
Se nel prossimo decennio l’umanità riuscisse a
ridurre le emissioni di anidride carbonica del 50%, ci sarebbero buone
probabilità di contenere la temperatura terrestre addirittura entro
1,5 °C.
In caso contrario le possibilità di vincere le sfide poste
dall’Accordo di Parigi sarebbero molto scarse. Da questo punto di vista il
Rapporto 2020 redatto dall’organizzazione internazionale Climate Transparency
non è molto incoraggiante.
Da un esame condotto sugli impegni assunti entro il 2030 dai paesi che
fanno parte del G20, nessuno di loro risulta soddisfacente. A tutti è stato
attribuito un voto insufficiente, se non altamente insufficiente.
Eppure nel 2020 le emissioni totali di
anidride carbonica si sono ridotte del 7,5%. Ma si tratta di una parentesi
transitoria dovuta al lockdown imposto dal Covid, a cui si teme, farà
seguito una nuova crescita di emissioni.
A farlo presagire sono le scelte che molti stati hanno compiuto per ridare
slancio all’economia post-pandemia. Nell’ambito dei pacchetti di stimolo
stanziati dai paesi del G20 nel corso del 2020, ben 439 miliardi di dollari
sono stati destinati alle fonti energetiche, per scoprire che il 54% di essi,
240 miliardi, serviranno a sostenere i combustibili fossili: petrolio,
gas e carbone.
La temperatura media globale è già di 1,1 °C
superiore all’era pre-industriale e gli effetti si sentono. Nel ventennio
compreso fra il 1999 e il 2019, i paesi del G20 hanno perso 220mila vite umane
e 2600 miliardi di dollari a causa di uragani, inondazioni e altri eventi
climatici estremi.
Il tempo a nostra disposizione per agire si sta facendo sempre più scarso,
per cui bisogna rafforzare i passi positivi fin qui compiuti: bisogna ampliare
la quota di energia elettrica rinnovabile che oggi non va oltre il 27%,
dobbiamo convertire il nostro sistema trasporti, dobbiamo cambiare modo
di fare agricoltura e di costruire le nostre case. Un grande progetto di
riforma rivendicato a gran voce dai nostri figli.
Carta igienica - Ascanio Celestini
Sei mesi di reclusione e un milione e mezzo di euro di risarcimento. Queste le rispettive richieste del pm e della società che dieci anni fa era in procinto di aprire un casinò nel cuore del quartiere romano di San Lorenzo. Gli imputati sono dodici persone che nel corso di questi anni hanno partecipato all’occupazione del Nuovo Cinema Palazzo. Spazio nel quale convivono l’attività politica e culturale, lo sport popolare e lo studio. Sì, perché fino a poche settimane fa il Nuovo Cinema Palazzo era frequentato anche dagli studenti che non potevano andare a scuola a causa della chiusura.
Il 25 novembre scorso all’alba le forze dell’ordine hanno occupato
militarmente piazza dei Sanniti. Sì, occupato militarmente.Sembrava il
luogo di un attacco terroristico. I blindati hanno blindato la piazza e sono
rimasti tutto il giorno coi lampeggianti accesi. La sera alla fine
della manifestazione, vedendo i raggi azzurri delle moffole sparati sui palazzi
io ho pensato: c’avranno la batteria a zero. Gli servirà il carrattrezzi o
almeno i cavetti per ripartire.
In quel pezzo di città si moltiplicano gli appartamenti. Si moltiplicano
nonostante la quantità di verde a disposizione per ogni abitante sia di 2,25
metri quadrati. Cioè due metri e un quartino ciascuno.
C’è una curiosa coincidenza tra la chiusura armata del Nuovo Cinema Palazzo
e tutte le altre sale teatrali e cinematografiche d’Italia chiuse a colpi di
DPCM. Pare proprio che il paese si sia travasato tutto nel privato. Zero
teatri, zero cinema. Però tanti appartamenti. Oh!
Io non sono uno di quelli che dicono che è tutto un complotto, che non ce n’è coviddi! Ma proprio perché c’è un problema bisognerebbe fare in maniera che si affronti insieme. Che si affronti nello spazio pubblico e non ripiegandoci nel privato. E invece pare che non si dia nessuna possibilità alle comunità, agli spazi comuni, ai luoghi nei quali l’individuo entra a far parte di un gruppo. La legge chiude tutto.
La scuola si può fare da casa. Esci furtivamente e vai al
supermercato come gli animali che scappano fuori dalla tana per procacciarsi il
cibo e poi ci si rintanano dentro. Ma se vuoi la spesa te la fai
portare a casa.
Sei un intellettuale? Compri il libro in rete e te lo portano a
casa. Compri mutande e scarpe e te le portano a casa. Se cambi idea il
corriere viene a casa tua e si riporta via scarpe e mutande.
La pizza te la fai portare a casa. Se vuoi puoi scegliere anche il
sushi. E persino le ostriche e il caviale.
La vita smart proposta in apertura di questi anni Venti del nuovo millennio
sembra essere questa. Tutta rovesciata nel privato. Tutti a casa a
studiare con la DD e con la DAD, a lavorare con lo smart
working, a guardare il mondo dalla finestrella dello smartphone.
Anche il teatro si può fare da casa. Teatranti senza teatro che hanno letto
tutto il leggibile online. E poi abbiamo visto una montagna di autoproduzioni
domestiche. Pillole quotidiane, diari, scoramento, rodimenti, monologhi
scespiriani sulla tazza del cesso. A proposito… Una multinazionale che produce
carta igienica ha indetto un concorso. Tre sono stati i vincitori nel palleggio
di rotoli della carta igienica. I soldi sono finiti in beneficienza.
L’amministratore delegato viene intervistato dal giornalista di un’agenzia
famosa. Nei primi giorni della pandemia hanno preso d’assalto i negozi
e comprato molti rotoli di carta igienica, dice il giornalista.“È vero –
risponde l’amministratore delegato – all’estero dove hanno una capacità
produttiva inferiore rispetto ai consumi la mancanza di carta negli scaffali è
durata parecchio, molto più sicuramente che in Italia, lì la gente ha fatto
incetta. E più facevano incetta e più mancava e più mancava e più la gente
entrava in paranoia. Fortunatamente in Italia produciamo oltre il 60 per cento
di carta in più rispetto a quanti sono i consumi. Le deficienze sono state
colmate in tempi relativamente brevi. Il consumatore, una volta visto che il
prodotto si trovava con tranquillità nello scaffale e non spariva più, ha
cominciato a comprare in maniera più o meno normale. Anche se ci sono degli up
e down, la situazione è tornata normale”.
Ma perché – chiede il giornalista – il vostro prodotto è preso d’assalto
come un bene primario? “Perché è difficile farne a meno – risponde
l’amministratore delegato – Secondo me dà sicurezza: ‘me la metto in casa e
sono sicuro di stare tranquillo’. E poi la carta igienica è un prodotto che non
ha una data di scadenza”.
venerdì 29 gennaio 2021
Evviva l'etnologia! - Jean Monod
La «scomparsa» degli Indiani ed il relativo sviluppo dell'antropologia sono i due aspetti indissolubilmente legati dello stesso dramma. Certo non si può negare le diverse attitudini del Conquistador, del missionario e del falso scienziato rispettivamente. Il primo si impadronisce di territori e sottomette le popolazioni con la forza delle armi, il secondo si preoccupa di convertire le anime, il terzo cerca di ritrovare altrove la sua ragione. Ma ciò che è fondamentale non sono queste differenze; ma bensì che questi tre diversi tipi di uomo si sono trovati concordi, al momento della Conquista e durante il Rinascimento, nello spingere l'Occidente, al momento della sua espansione, a portare fino in fondo l'esperienza della sua contraddizione fondamentale di cui ciascuno di essi era il portavoce.
Tutti fecero dono del loro oggetto al soggetto che essi veneravano sopra
ogni altro: il re, Dio o la ragione; ecco in che cosa essi erano fratelli.
Senza dubbio uno spirito fantasioso potrebbe pensare che tra la fine del
Medioevo e i empi moderni si sia affermato il confortante progresso dello
spirito illuministico. Ma questa concezione rassicurante è doppiamente
ingannevole. Prima di tutto perché la scienza, suprema realizzazione della
ragione, non è né più dolce né più inoffensiva dell'arte militare; e poi perché
non c'è alcun «progresso» nell'atteggiamento della civiltà occidentale nei
confronti dei «primitivi», ma piuttosto uno spostamento da un piano all'altro
della sua contraddizione fondamentale. La prima immagine di questa
contraddizione è quella tra l'umanesimo che si apriva alla scoperta del mondo e
la scoperta concepita come conquista, estensione di sé, appropriazione
negativa. Si trattava dell'idea dei «philosophes» messa in pratica dai
commercianti o si trattava invece del fatto che i «philosophes» pensavano come
i commercianti? La riduzione in schiavitù delle popolazioni o, ancor meglio, la
loro distruzione pura e semplice: ecco una soluzione che sarebbe stata chiara e
definitiva! Essa era in contraddizione cogli ordini che i conquistatori avevano
ricevuto dall'autorità monarchica prima di suscitare l'opposizione dei
missionari i cui interessi erano rivali di quelli dei coloni. Donde lo
spostamento della contraddizione tra due poteri, ciascuno in rottura colla
propria ideologia.
Questo conflitto doveva generare la trasformazione delle ideologie
rispettive: i conquistatori, gli scopritori del Nuovo Mondo si rivelarono come
l'ultima impennata di una classe feudale condannata a scomparire. L'ideologia
dei missionari, al contrario, si afferma sempre di più – ad opera di un Las
Casas per esempio – come rivendicazione umanitaria di giustizia. Il Dio
cristiano, supremo alienatore dell'uomo, si tramutava in ragione universale
«liberatrice» degli oppressi per mezzo di coloro che avevano all'inizio
affermato la sua universalità. Questi si diedero a rivendicarla come privilegio
esclusivo. E ciò preparò l'ultimo spostamento al quale assistiamo oggi, la
sostituzione dei missionari, dei propagatori della fede, da parte dei
raccoglitori d'informazioni. A quest'ultimo stadio del processo la ragione,
come prima l'idea di umanità, comincia a conoscere i suoi limiti oggettivi; ma
come prima i Conquistadores, essa non lo fa al puro scopo di scoperta,
d'alleanza, di dialogo, ma ad un fine di appropriazione, di riduzione
dell'altro e di espansione di sé a spese di quello. È ciò che si potrebbe
chiamare la «medievalizzazione dei tempi moderni» (che la ragione si camuffi da
«logica» non cambia niente).
Nella sua forma più compiuta, l'antropologia tende ad accordare alla
ragione o alla logica il ruolo che prima i missionari accordavano a Dio;
l'antropologo e il missionario si sono opposti entrambi molto blandamente
all'avanzata a rullo compressore della civiltà che del resto non tarderà a
spazzarli via una volta che essi avranno assolto il servizio che essa si
attende da loro. Singolare voltafaccia infatti; nel XVI secolo si trattava, per
i missionari, di colmare l'abisso tra Dio e le sue creature infedeli, di
ricondurre i selvaggi sulla strada del Signore, di ricondurre queste pecorelle
smarrite sotto la grazia divina. L'espulsione dei Gesuiti fu una risposta
significativa della «civiltà» che in tal modo pose un limite ai suoi stessi
ideali. Nel XX secolo, mentre la scienza resta bastarda, balbuziente e
conquistatrice come all'alba del XVI secolo, l'idea di umanità ha rimpiazzato
quella di Dio nell'impresa della conquista; si tratta ora di mettere i
«primitivi» in sintonia con la ragione (la logica) occidentale. Ma la pratica
effettiva che minaccia la sopravvivenza dei «primitivi» non soltanto si
preoccupa poco di questa logica, ma addirittura non vuole vedersi intralciata
dagli scienziati. Come i coloni al tempo della Conquista non chiedevano che un
servizio ai missionari, così al giorno d'oggi i politici non chiedono agli
etnologi che un parere tecnico per facilitare l'assimilazione delle popolazioni
cosiddette «marginali» (e perché non dire «delinquenti», tanto che differenza
fa?). Di fronte a questa politica, invece di rivendicare un potere fondato
semplicemente sulla ragione poiché essa ha fallito nel suo tentativo di trovare
la ragione, l'etnologia, sottomessa ad ogni genere di potere e imponendo a
coloro che la praticano la stessa sottomissione gerarchica, si contenta di fare
dei primitivi un oggetto «culto» di rappresentazione e mendica presso i
ministeri la sopravvivenza del suo oggetto di studio in nome della scienza
«universale».
La curiosità per il selvaggio, curiosità resa astratta dalla lontananza
geografica, dallo sguardo dell'esploratore e dalla sua relazione scritta, è
sempre andata di pari passo col disprezzo per questo stesso selvaggio, il
disprezzo ostentato dagli esploratori nei contatti con gli Indiani. Figurarsi
che cosa succederebbe se gli Indiani vivessero tra di noi! Se per esempio si
chiamassero Catari, hippies o maoisti!,
L'idealizzazione sempre attuale del «bon sauvage» è riconducibile allo
stesso negativismo che si esprime nel razzismo. Si pensi alla mitologia del
«buon negro» tra gli schiavisti del sud degli Stati Uniti. Gli uomini sono
sempre troppo civilizzati per coloro che vorrebbero ricondurli alla loro
condizione naturale; quel «troppo» di civiltà è ciò che questi signori chiamano
la loro «selvatichezza». E questa giustifica sempre la riduzione di essi al
comune denominatore della nostra civiltà. Dietro la discussione sul problema
della loro «differenza» o della loro «identità» in rapporto a noi stessi, si
nasconde solo questo disegno: far sì che essi ci servano a qualche cosa.
Quel discorso universalmente conosciuto col termine di antropologia
(sociale, culturale) o di etnologia non si distingue essenzialmente
dall'ideologia che serve da giustificazione agli «assimilatori». È noto che gli
etnologi nordamericani non hanno fatto niente per arrestare il massacro degli
Indiani dell'America del Nord; per essi ciò non fu che uno spettacolo capace di
suscitare al massimo la loro vocazione etnologica. Mentre altri riempivano le
loro casse di oro, essi riempivano di note i loro calepini, gli uni e gli altri
per il più gran bene dell'umanità di cui il loro paese era il modello. Sembra
che l'etnologia sia nata con questa tara congenita: la sua urgenza,
poiché essa arriva sempre «troppo tardi», congiunta allo scrupolo di
obbiettività che la anima, servono a scusare la sua irresponsabilità politica.
Sballottata tra la raccolta sempre affrettata di nuovi frammenti e la
elaborazione di teorie che richiedono mezzi materiali e umani sempre più
grandi, la prospettiva di una riflessione del suo metodo verso il suo effettivo
punto di partenza appare di giorno in giorno sempre più improbabile. Essa spera
indubbiamente di accorgersene «troppo tardi», quando la sua «materia» sarà
effettivamente scomparsa. Ma questa materia permane, essa cambia lentamente anche
se oggi si accorgono di ciò solo quelli che hanno poca fretta di «arrivare» e
sanno invece pensare con calma.
L'arricchimento del nostro sapere procede dalle stesse motivazioni e segue
lo stesso metodo del nostro arricchimento materiale; esso presuppone la
negazione dell'altro e la nostra espansione nel suo territorio materiale come
in quello mentale, esso presuppone cioè la sostituzione delle leggi civili e
mentali dell'altro per mezzo delle nostre. Raccogliere informazioni è un'azione
relativamente innocente; è il piano che anima questa azione che solleva dei
problemi. Vorrei che mi si citassero i nomi degli etnologi che hanno messo le
loro informazioni al servizio delle popolazioni studiate allo scopo di
tamponare la falla aperta dalla civiltà bianca e assicurare la trasmissione di
un sapere perduto per una generazione intera (mi si gela il sangue se penso ai
sorrisi ironici di certi miei «colleghi» a questa idea) oppure allo scopo, più
comprensibile per la nostra mentalità meschina, di appoggiare delle
rivendicazioni territoriali o di far valere dei diritti sistematicamente
violati.
Bisogna credere che un simile ruolo non può avere alcun senso per una
professione che non si concepisce al di fuori del privilegio che le conferisce
il pericolo di fronte al quale le civiltà «primitive» si trovano. La sua
«urgenza» determina il suo «prezzo»: ma forse che essa crede di svalutarsi se
essa fa in modo da ridurla?
L'urgenza di raccogliere i frammenti delle civiltà che quella bianca
distruggeva, questa urgenza di cui gli etnologi si sono fatti interpreti a loro
esclusivo vantaggio, non era affatto evidente. Non voglio dire, nonostante lo
pensi (la denuncia di una etnologia asservita fa parte della resistenza dal di
dentro), che sarebbe stato altrettanto urgente organizzare la resistenza
anti-bianca. Voglio solo dire che, dopo tutto, numerose società si sono
distrutte tra loro nel corso della «storia» senza sentire il bisogno di
archiviare i resti dei loro nemici. L'archiviazione intrapresa dagli etnologi,
conservatrice sul piano dei «fatti» (*), «progressista» per il progetto di
sviluppo delle conoscenze in cui s'inscrive, è coerente ad una certa idea che
la civiltà occidentale ha di sé come luogo del sapere assoluto che suppone
inevitabilmente la negazione dell'oggetto se non nella sua «fisicità» almeno
nella sua «storicità». È per questa ragione che gli Indiani erano destinati fin
dal loro primo incontro coi bianchi, a fare l'esperienza di una nuova modalità
di essere: nel caso peggiore essi erano degli esseri «destinati alla morte» dal
progresso; mentre nel caso migliore – ma non si tratta che di una differenza
minima – essi erano degli esseri «per la scienza». Contrariamente a ciò che di
solito si sostiene, la strategia del sapere è infinitamente più cinica e più
distruttrice di qualsiasi strategia militare. Essa è il risultato di una
coscienza impoverita. Se la coscienza occidentale si poneva dei problemi
politici ambigui al momento della conquista, è perché essa si poneva ancora
problemi morali che sono invece estranei alla strategia del sapere. Bisognerà
attendere che l'etnologia abbia raggiunto la sua piena maturità «scientifica»
perché si possa ritrovare nella manipolazione dei materiali «primitivi» una
violenza mascherata che supera, per le sue conseguenze, quella dei
Conquistadores.
(*) Ma quali fatti? Il
problema resta immutato; né le monografie, né le grandi teorie ci dicono in che
cosa consistano i «fatti». Se lo si sapesse non ci sarebbero più né monografie
né grandi teorie, perché non sarebbe più necessario rimediare alla noia delle
prime per mezzo delle acrobazie a cui ci hanno abituato le seconde. E così
l'etnologia sarebbe ben altrimenti affascinante.
[L'ethnocide à travèrs les Amériques,
a cura di R. Jaulin, 1972]
All'Italia non piace il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPAN)
per quanto tempo dovranno volare le palle di cannone
prima che vengano bandite per sempre?
la risposta, amico mio, se ne va nel vento,
L’Italia ha
perso la grande occasione di dire addio alle armi nucleari USA sul proprio
territorio - Ilaria Cagnacci
In Italia ci sono almeno 40 testate nucleari. Non sorprende quindi che non
abbia firmato il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, appena entrato
in vigore. Eppure l’opinione pubblica è contraria e altri Paesi, come il
Canada, ci dicono che si può far parte della NATO pur essendo contrari al
nucleare.
Lo scorso 22
gennaio è entrato in vigore il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW), il primo trattato applicabile a livello
globale che proibisce categoricamente l’uso, lo sviluppo, i test, la
produzione, la fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, l’immagazzinamento,
il trasferimento, la ricezione, la minaccia di usare, lo stazionamento,
l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari. L’ultimo paese a
ratificare il trattato è stato l’Honduras il 24 ottobre 2020 con il quale è
stata raggiunta la soglia di 50 Paesi firmatari necessaria per la sua
entrata in vigore.
Nessuna
delle potenze nucleari (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina,
Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) ha firmato il trattato e soltanto
sei stati europei lo hanno ratificato: Austria, Irlanda, Malta, San Marino,
Liechtenstein, Città del Vaticano.
L’Italia non
ha né firmato né sottoscritto il trattato così come Germania, Belgio e Paesi
Bassi che, come il nostro Paese, condividono accordi di ‘nuclear sharing’ con
gli Stati Uniti.
Sul nostro
territorio nazionale si stima la presenza di 40 testate nucleari di cui 20
presso la base di Ghedi (Brescia) e le restanti 20 nella base di Aviano
(Pordenone) mentre negli altri Paesi europei se ne stimano circa 20 a testa.
Non si può parlare di numeri certi in quanto in linea con la politica della
NATO “né confermare né smentire” la presenza di ordigni nucleari l’Italia si
avvale del vincolo di riservatezza e secondo il ministero della Difesa, più
volte interpellato a rilasciare informazioni a riguardo, si tratterebbe di
informazioni che i cittadini italiani non sono tenuti ad avere. Gli accordi
bilaterali con gli USA non solo prevedono ‘la condivisione nucleare’ bensì
anche una partecipazione attiva in caso di guerra, circostanza nella quale i nostri
cacciabombardieri dovrebbero essere pronti a sganciare queste armi. Molti
commentatori non esitano a dire che questa situazione va chiaramente in
contrasto con quanto previsto dal Trattato di non proliferazione
nucleare che l’Italia firmò e ratificò il 2 maggio 1975 e dove
si impegnò alla via del disarmo, della distensione internazionale e
della pace…
Da oggi le armi nucleari sono
illegali - Angelo
Baracca
Oggi 22
gennaio 2021 il Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari (TPAN, in inglese TPNW)
entra in vigore come norma del diritto internazionale. Ad oggi è stato firmato
da 86 Stati (gli Stati aderenti all’ONU sono 194), e ratificato da 51. Molti
sono i commenti pubblicati (https://www.pressenza.com/it/2020/10/la-proibizione-delle-armi-nucleari-diventa-norma-internazionale/; raccomando anche A.
Pascolini, Un anno dal bando delle armi nucleari: un trattato peculiare, Il
Bo-Live, 7 luglio 2018, https://ilbolive.unipd.it/it/blog-page/bando-armi-nucleari-trattato-tpnw-proibizione) e non è il caso di riprendere qui
tutte le argomentazioni.
Rammentiamo
come sintesi le disposizioni dell’art. 1 del trattato (il testo completo si
trova per esempio in https://www.avvenire.it/c/mondo/Documents/trattato%20ITA.pdf). Il TPWN obbliga ogni Stato che vi
aderisca a «non: (a) Sviluppare, testare, produrre, oppure acquisire, possedere
o possedere riserve di armi nucleari o altri dispositivi esplosivi nucleari;
(b) Trasferire a qualsiasi destinatario qualunque arma nucleare o altri
dispositivi esplosivi nucleari o il controllo su tali armi o dispositivi
esplosivi, direttamente o indirettamente; (c) Ricevere il trasferimento o il
controllo delle armi nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari,
direttamente o indirettamente; (d) Utilizzare o minacciare l’uso di armi
nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari; (e) Assistere, incoraggiare
o indurre, in qualsiasi modo, qualcuno ad impegnarsi in una qualsiasi attività
che sia vietata a uno Stato Parte del presente Trattato; (f) Ricercare o
ricevere assistenza, in qualsiasi modo, da chiunque per commettere qualsiasi
attività che sia vietata a uno Stato Parte del presente Trattato; (g)
Consentire qualsiasi dislocazione, installazione o diffusione di armi nucleari o
di altri dispositivi esplosivi nucleari sul proprio territorio o in qualsiasi
luogo sotto la propria giurisdizione o controllo».
Mi limiterò
a richiamare l’origine, e il valore, del TPAN e del movimento della società
civile che ha portato ad esso, e il corrispettivo di qualche limite che anche
per questo sconta, aggiungendo qualche modesta considerazione sul futuro degli
armamenti nucleari.
Come e
perché si è giunti al TPAN?
In primo
luogo vi è una differenza di fondo fra il Trattato di Non Proliferazione (TNP)
del 1970 e il TPAN. Il TNP fu voluto e negoziato solo dalle 5 (allora) potenze
nucleari (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia, Cina: anche se Israele aveva già
l’atomica, ma ancora oggi non lo ammette ufficialmente) preoccupate unicamente
di sbarrare la strada della bomba ad altri paesi. Tant’è vero che “concessero”
il famoso Art. VI con la “promessa di marinaio” di proseguire “trattative in
buona fede” per arrivare a un accordo di disarmo completo. Ipocrisia che è
stata confermata da 9 Conferenze quinquennali di Riesame (quella del 2020 è
stata rinviata a causa della pandemia), nelle quali gli Stati non nucleari
hanno inutilmente chiesto l’avvio effettivo del processo di disarmo. Proprio
dalla constatazione della pervicace determinazione degli Stati nucleari a non
rinunciare a queste armi, nacque 16 anni fa nella società civile la Campagna
Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari (ICAN), la quale riuscì a
presentare la questione all’ONU, che promosse il negoziato che il 7 luglio 2017
approvò il testo del TPAN. La partecipazione della società civile al negoziato
ONU costituì una grande novità, ma anche la partecipazione di tutti gli Stati
dell’ONU che lo volessero costituì una differenza abissale rispetto ai
negoziati per il TNP.
Punti di
forza del TPAN…
Anzi, la
genesi del TPAN è stata letteralmente antitetica rispetto a quella del TNP, dal
momento che gli Stati nucleari, come pure i “satelliti” della NATO, hanno
sdegnosamente rifiutato di prendere parte al negoziato. Questo ha fatto sì che
il negoziato si sia concluso in pochi mesi, mentre i negoziati per il TNP
richiesero anni. Fra gli Stati che hanno ratificato il TPAN vi sono molti paesi
minuscoli, che forse molti di noi non conoscevano neanche prima d’ora: come
Antigua and Barbuda, Comoros, Fiji, Kiribati, Palau, Saint Kitts and Nevis,
Tuvalu, Vanuatu. Ma qui sta anche la grossa novità: Stati che finalmente hanno
avuto voce in capitolo a dispetto dell’arroganza delle potenze nucleari (1). Un
fattore basilare di democrazia, come nell’Assemblea Generale dell’ONU, uno
Stato un voto.
. . . e
qualche punto debole
Ci sono
comunque nel TPAN un paio di punti deboli non trascurabili. Il primo è che fra
gli Stati che hanno partecipato al negoziato è prevalsa la posizione di
consentire lo sviluppo della tecnologia nucleare per usi civili. Un secondo
punto è stato molto più controverso, il riconoscimento della possibilità per
gli Stati che aderiranno al TPAN di recedere da esso se sono a rischio
«interessi supremi di un paese» (art. 17): si ammette così implicitamente che
le armi nucleari possano essere indispensabili, contraddicendo così la loto
proibizione ed eliminazione per sempre. Ma è stato chiaro nel corso del
negoziato che senza questa clausola di recesso molti Stati non avrebbero
approvato il TPAN. Giova ricordare che il TNP riconosce esplicitamente il
diritto di recesso con tre mesi di preavviso senza nessuna condizione: è quanto
fece la Corea del Nord, al colmo delle minacce degli Stati Uniti, realizzando
così in tre anni la bomba.
I difficili
rapporti con gli Stati nucleari per un processo di disarmo
Non vi è
dubbio che qualora gli Stati nucleari avessero partecipato al negoziato le cose
sarebbero state molto più complesse, lente e contrastate: nessuno dei paesi che
hanno partecipato possedeva armi nucleari e doveva assumere impegni per
eliminarle. In un articolo con Elio Pagani abbiamo cercato di affrontare la
complessità di un processo di eliminazione totale delle armi nucleari: https://www.pressenza.com/it/2020/08/se-tutti-i-9-stati-nucleari-firmassero-il-tpan-come-avverrebbe-leliminazione-delle-armi-nucleari/. In estrema sintesi, è irrealistico
pensare che una potenza nucleare decida unilateralmente di eliminare le proprie
armi nucleari, se non altro perché verrebbe a trovarsi in condizioni di estrema
vulnerabilità rispetto alle altre, in geopolitica non valgono la lealtà e la
buonafede: sarà necessario un negoziato specifico ed estremamente complesso fra
tutti gli Stati nucleari (che al più potranno accettare prevedibilmente
“spettatori” senza diritto di voto), per stabilire un’eliminazione bilanciata
con stretti sistemi di controllo. Del resto è quello che è avvenuto dopo la
scomparsa dell’Unione Sovietica e del Blocco comunista, con laboriose
trattative per i Trattati di Riduzione delle Armi Strategiche (START I, II, e
Nuovo START), sebbene non si siano affatto posti l’obiettivo della totale eliminazione.
A tale proposito, è particolarmente preoccupante un’osservazione piuttosto
perentoria di Alessandro Pascolini nell’articolo su Bo-Live che
ho citato, perché contrasta con la premessa del TPAN, «che porti alla loro
totale eliminazione», e con la percezione comune del trattato: «Per i paesi con
armi nucleari che intendano aderire al trattato sono previste delle condizioni
che prevedono un trattamento punitivo e delle procedure che difficilmente
potranno essere accettate anche dagli stati che intendano rinunciare ai propri
armamenti nucleari, per cui il TPAN è praticamente privo di effetti reali come
strumento per il disarmo nucleare, anche perché non mira a creare le
precondizioni necessarie per un mondo privo di tali armi» (2).
Cruciali le
decisioni dei paesi della NATO
Vista la
feroce opposizione al TPAN da parte delle potenze che detengono un proprio
arsenale nucleare, sarebbe cruciale per rompere il fronte stimolare l’adesione
dei paesi europei che “ospitano” testate nucleari statunitensi, e in generale
dei paesi che aderiscono all’Alleanza Atlantica. Anche se la NATO continua a
ribadire l’affidamento dell’Alleanza sugli armamenti nucleari (di Stati Uniti,
Francia e Gran Bretagna), non vi è nessun impedimento reale perché uno Stato
che non detiene armi nucleari proprie firmi il TPAN: soprattutto Stati che non
“ospitano” armi nucleari potrebbero ottemperare in modo relativamente facile
alle norme del TPAN, ovviamente pur di avere la dignità di sottrarsi al “Washington
consensus” che è il vero collante della NATO, poiché in realtà gli Stati
aderenti litigano su tutto! Vi sono molte spinte in questo senso. Il 16 gennaio
2020 il Parlamento del Belgio (che “ospita” 20 testate nucleari statunitensi)
votò su una Risoluzione presentata dalla Commissione Esteri del Parlamento che
richiedeva l’eliminazione degli ordigni NATO dal territorio e l’ingresso del
Belgio nel TPAN: la Risoluzione fu respinta per un margine strettissimo – 66
voti favorevoli e 74 contrari – 5 soli voti per ottenere la maggioranza (https://www.peacelink.it/disarmo/a/47222.html). Sulla lista di ICAN circolano
vari messaggi sulle crescenti pressioni di varie forze politiche in vari paesi.
Si ha l’impressione di una pentola che sta per scoppiare. E il baratro che
segna la crisi irreversibile della politica e della società degli Stati Uniti
(con la minaccia concreta che un Presidente possa innescare una guerra
nucleare) dovrebbe consigliare proprio di dissociarsi dalla dipendenza da quel
paese: perfino i topi fuggono da una nave che sta affondando!
I futuri
passi degli Stati aderenti al TPAN
Il trattato
contempla che gli Stati aderenti al TPAN tengano la prima riunione ad un anno
dalla sua entrata in vigore, e questa è già programmata a Vienna per il gennaio
2022: auspicabilmente per quella data il numero di Stati aderenti avrà superato
il numero di 51. Il Monitor del trattato contiene già una
serie di proposte, ovviamente preliminari e non ufficiali, per un piano
d’azione per l’implementazione del trattato (https://banmonitor.org/news/recommendations-for-the-first-meeting-of-states-parties-to-the-tpnw).
È interessante
la prima di esse: il piano d’azione dovrebbe richiedere agli Stati nucleari di
avviare negoziati, bilaterali o/e multilaterali, per porre fine alla corsa agli
armamenti nucleari e avviare un processo generale di disarmo, sottolineando la
partecipazione ai negoziati della società civile e delle organizzazioni
internazionali.
La sfida che
ci aspetta
Affido
queste considerazioni alla riflessione collettiva. Il problema mi sembra che
vada al di là del TPAN: da oggi la proibizione delle armi nucleari diventa
norma del diritto internazionale. Questo è indubbiamente un fatto di grande
rilevanza, tuttavia sappiamo bene che l’applicazione di una norma dipende dai
rapporti di forza a livello della società, in questo caso a livello
geopolitico. Ma si deve assolutamente rivendicare che il diritto è l’opposto
della legge del più forte, e la democrazia, quella reale, si misura in primo
luogo dai diritti che hanno le minoranze. Oggi, dopo 76 anni, il diritto di
piccoli paesi, e piccoli popoli, diventa norma internazionale, a dispetto della
volontà delle grandi e tronfie potenze. Dalla dichiarazione dei diritti alla
loro conquista spesso il passo è molto grande, alcuni diritti fondamentali sono
ancora lontani dall’essere realizzati, altri sono costantemente messi in
discussione (basta pensare alla legge sull’aborto). A me viene spesso alla
mente il famoso detto «Datemi un punto d’appoggio e solleverò in mondo»: ecco,
oggi il punto d’appoggio lo abbiamo, sollevare il peso delle armi nucleari sarà
un processo ancora lungo e difficile, dipenderà dalla consapevolezza e la
determinazione dei popoli della Terra pretendere che un divieto diventi realtà!
Assumiamo la data di oggi come un buon auspicio.
Note:
(1) A chi
non lo conoscesse (senza dubbio i giovani) raccomanderei la visione di un
capolavoro di satira del lontano 1959, il film Il ruggito del topo,
in cui il grande Peter Sellers interpreta 4 o 5 personaggi diversi. Il tema è
il minuscolo Ducato di Grand Fenwick la cui unica fonte di ricchezza è l’esportazione
del famoso vino omonimo. Allorché questo viene fabbricato anche dagli Stati
Uniti le finanze del Ducato subiscono un tracollo irreparabile. Viene allora
adottato il piano di dichiarare guerra agli Stati Uniti, perderla, poi ottenere
delle sovvenzioni finanziarie. La dichiarazione di guerra viene cestinata dal
Dipartimento di Stato, mentre un gruppo di soldati armati di corazze, archi e
frecce, s’imbarca su di un battello. Giunti a New York, trovano la città
deserta poiché è in corso un’esercitazione antiatomica. I guerrieri girano per
le ampie strade deserte e pensano che gli Stati Uniti siano in allarme per il
loro sbarco, ma vagano in cerca di qualcuno che possa vincerli, perché questa è
la loro missione. Così s’imbattono nel professor Kokinz, che incurante
dell’allarme sta dando gli ultimi tocchi alla bomba Q, enormemente più potente
della bomba H ma delle dimensioni di una palla da rugby. Hanno allora l’idea
geniale di prendere prigionieri il professore e sua figlia, con la bomba, ed
anche il generale Ship, che con quattro agenti stava cercando i guerrieri di
Grand Fenwick, scambiati per marziani. Tutta la comitiva viene fatta salire sul
battello, che la riporta in Europa. All’arrivo nel Ducato costernazione
generale perché il compito era di perdere la guerra, ma quando si viene a
sapere che il Ducato è in possesso della bomba Q, i maggiori Stati del mondo
mandano i loro agenti a trattare l’acquisto, mentre gli Stati Uniti sono
costretti a firmare la resa. Le finanze del Ducato rifioriscono. Ma qualcuno
cerca di rubare la bomba, e si innesca una specie di partita a rugby, e la
bomba ruzzola a terra: terrore generale, la bomba produce un certo rumore ma …
salta fuori un topolino.
(2) L’art. 4
renderebbe molto difficile un complesso e necessario negoziato fra gli Stati
nucleari per effettuare l’eliminazione controllata degli armamenti nucleari,
come abbiamo delineato nell’articolo citato di Baracca e Pagani: come se uno
Stato nucleare potesse decidere autonomamente l’eliminazione delle armi
nucleari sottoponendosi a una rischiosissima vulnerabilità (si pensi ad esempio
a India e Pakisan da sempre sull’orlo di un conflitto armato). Art. 4 comma 2:
«Ciascuno Stato Parte che, in deroga all’articolo 1, lettera a),
detiene, possiede o controlla qualsiasi arma nucleare o altri dispositivi
esplosivi nucleari, deve immediatamente rimuoverli dallo stato operativo e
distruggerli non appena possibile, ma non oltre un termine da determinare
durante la prima Riunione degli Stati Parte, in conformità a un piano giuridicamente
vincolante e con scadenza per l’eliminazione verificata e irreversibile del
programma sulle armi nucleari di tale Stato Parte, compresa l’eliminazione o la
conversione irreversibile di tutte le strutture connesse con le armi nucleari.
Lo Stato Parte, entro 60 giorni dall’entrata in vigore del presente Trattato
per tale Stato Parte, presenta il piano agli Stati Parte o ad un’autorità
internazionale competente designata dagli Stati Parte. Tale piano sarà quindi
negoziato con l’autorità internazionale competente che lo sottopone alla
successiva riunione degli Stati Parte o alla Conferenza di riesame, a seconda
di quale sia prevista per prima, per l’approvazione in conformità con le sue
regole procedurali.»
Dalla “non
proliferazione” alla proibizione delle armi nucleari - Elena
Camino
Il Trattato di non proliferazione degli
armamenti nucleari, risalente al 1968, non ha arginato in modo significativo il
fenomeno. Oggi, 22 gennaio 2021, entra in vigore un nuovo trattato per la
proibizione delle armi nucleari. Non farà miracoli ma potrà produrre alcuni
effetti importanti per un effettivo processo di disarmo nucleare
Il “Trattato di non proliferazione degli armamenti nucleari”
Il 1º luglio 1968 USA, Regno
Unito e Unione Sovietica sottoscrissero un “Trattato di non proliferazione
degli armamenti nucleari” (Treaty on the Nonproliferation of Nuclear Weapons (NPT) che
entrò in vigore il 5 marzo 1970. Francia e Cina vi aderirono nel 1992.
L’articolo IV del Trattato assicurava tuttavia a ciascuno degli Stati
membri il diritto a usi pacifici della tecnologia nucleare:
«Tutti gli Stati membri hanno il diritto inalienabile a
sviluppare ricerca, produzione e uso dell’energia nucleare per scopi pacifici,
senza discriminazioni. […] Tutte le Parti del Trattato si impegnano a
facilitare e hanno il diritto di partecipare al più completo scambio possibile
di attrezzature, materiali e informazioni scientifiche e tecnologiche per gli
usi pacifici dell’energia nucleare. Le Parti del Trattato in grado di farlo
coopereranno anche per contribuire, da sole o insieme ad altri Stati o
organizzazioni internazionali, all’ulteriore sviluppo delle applicazioni
dell’energia nucleare per scopi pacifici, specialmente nei territori in cui
sono presenti Stati che non possiedono armi nucleari, con la dovuta
considerazione per le esigenze delle aree in via di sviluppo del mondo».
Così, dopo l’elaborazione e
l’approvazione del trattato, la produzione ed emissione di radionuclidi non è
cessata. Nonostante la complessità della filiera, gli enormi investimenti
finanziari e i vincoli di sicurezza richiesti per la costruzione di una
centrale nucleare, la produzione di energia da fonte nucleare si è diffusa in
molte parti del mondo. Come segnala Stephen
Herzog, l’Agenzia Internazionale per
l’Energia atomica(International Atomic Energy Agency – IAEA) presenta una lista
di 220 reattori attualmente impiegati per la ricerca nucleare in 53 Stati, e
440 reattori per la produzione di energia, presenti in 30 Paesi.
Con il moltiplicarsi delle
trasformazioni climatiche causate dall’aumento della CO2 nell’atmosfera
e negli oceani, si sta cercando di ridurre l’uso dei combustibili fossili per
la produzione di energia, sostituendoli con altre fonti. Nel definire –
all’interno dell’Unione Europea ? quali siano le fonti energetiche da
finanziare prioritariamente per le loro ridotte emissioni di gas-serra, si
assiste a una crescente pressione per far riconoscere l’energia nucleare come
fonte “sostenibile”, giustificata dal fatto che durante il funzionamento degli
impianti le emissioni di CO2 sono basse.
Il 28 marzo 2019 il Parlamento
europeo ha votato sulla proposta di classificazione delle iniziative
sostenibili, che avrebbe escluso il nucleare dal ricevere il timbro verde di
approvazione sui mercati finanziari. Ma in questi due anni l’industria nucleare
ha esercitato crescenti pressioni, anche grazie all’intervento della
Commissione Economica per l’Europa delle Nazioni Unite (UNECE): così nel gruppo
degli esperti del settore energetico sta prendendo forza una corrente di
sostenitori dell’energia nucleare. Durante una riunione virtuale dei Ministri
dell’Energia – nel settembre 2020 – il Gruppo dei
Venti (G20) «ha riconosciuto il
ruolo dell’energia nucleare nel fornire energia pulita e nell’aumentare la
sicurezza energetica».
Numerosi incidenti hanno segnato
la storia del nucleare civile. Quelli più noti, per la vicinanza temporale e
per la gravità degli esiti, sono avvenuti in due centrali nucleari per la
produzione di elettricità, a Chernobyl nel 1986 e a Fukushima nel 2011. Durante
le ore e i giorni successivi agli incidenti sono stati rilasciati in atmosfera
vari radionuclidi la cui presenza è stata poi rilevata a migliaia di km di
distanza. Ed è risultata persistente per lunghi periodi di tempo. Sui danni
provocati alle persone e ai sistemi viventi in seguito a tali incidenti non si
è mai raggiunto un consenso: né sugli effetti a breve termine, né su quelli a
lungo termine.
Ancora oggi, dopo decenni, non si
è ancora trovato un accordo internazionale sulle effettive conseguenze, né sui
rischi ancora presenti nelle aree colpite. La consapevolezza sugli effetti del
rilascio di radionuclidi e la trasparenza nella comunicazione dei dati rilevati
sono ancora molto scarsi. Un’analisi recente, pubblicata nel gennaio 2021, su
campioni di grano e di legname raccolti tra il 2011 e il 2019 nel distretto di
Ivankiv (Ukraine), in un’area 50 km a sud della centrale di Chernobyl, hanno
confermato che livelli alti, radiologicamente significativi di contaminazione
da stronzio (90S) persistono 34 anni dopo l’incidente. A Fukushima
l’inizio dei lavori per la rimozione del combustibile nucleare
fuso non sono ancora iniziati; nel frattempo il Governo sta prendendo in
considerazione l’ipotesi di sversare nell’oceano l’acqua radioattiva, che in
questi anni è stata stivata in grandi contenitori.
I sostenitori del “nucleare
green”, oltre a non calcolare – come sarebbe corretto ? l’impatto complessivo
della filiera delle centrali nucleari nella produzione di CO2 trascurano
un elemento di grande rilevanza: le stesse procedure di arricchimento
dell’uranio utilizzate per alimentare i reattori nucleari e generare
elettricità, o produrre radioisotopi medici, possono anche produrre uranio
altamente arricchito (HEU) per uso militare. Dal 1939 al 2012, 31 paesi hanno
sviluppato tecniche per l’arricchimento dell’uranio o il ritrattamento del
plutonio (ENR), presentando potenzialità di produzione di armi nucleari.
Questo problema non si limita al
processo di arricchimento, poiché le tecnologie del ciclo del combustibile sono
intrinsecamente a duplice uso e le normali operazioni dei reattori nucleari
producono plutonio che potrebbe essere utilizzato anche nella produzione di
armi dopo il ritrattamento. Inoltre, le informazioni tecniche per la
costruzione di armi nucleari non sono più un segreto nell’era contemporanea;
possono essere reperite nella letteratura open-source. All’inizio del 2019, le
scorte globali di uranio altamente arricchito (HEU) erano stimate pari a circa
1335 tonnellate. La riserva globale
di plutonio separato era di circa 530 tonnellate, di cui circa 310 tonnellate
di plutonio civile.
Sono tuttora presenti, diffuse in
numerose aree del mondo, diverse fonti di emissioni radioattive – alcune note,
altre segrete o sconosciute – che costituiscono una minaccia per le popolazioni
umane e l’ambiente, e contribuiscono ulteriormente a caratterizzare questo
periodo geologico come “radioattivo”. Basta pensare all’intera filiera, di cui
le centrali nucleari sono solo una tappa, per rendersi conto che tutto il
percorso che dalle miniere porta ai depositi di scorie è caratterizzato da emissioni
radioattive.
I reattori attualmente in
funzione richiedono circa 67.500 tonnellate di uranio ogni anno, proveniente da
miniere o da fonti secondarie (scorte commerciali, scorte di armi nucleari,
plutonio e uranio riciclati dal ritrattamento di combustibili usati…). Dopo la
fase di produzione di energia il combustibile nucleare resta pericolosamente
radioattivo per tantissimo tempo. Il suo smaltimento è un problema ancora
irrisolto. Spesso gli investimenti che richiederebbe questa fase finale non
vengono contabilizzati dalle grandi imprese industriali e dai politici.
Ancora più grave è il problema
dello smaltimento delle scorie nucleari prodotte dalle attività militari nel
mondo, di cui non ci sono inventari disponibili su ubicazione e quantità. I
costi delle operazioni necessarie per restituire le aree contaminate all’uso
umano di materiale radioattivo sono enormi: alle spese immediate inoltre
bisogna aggiungere il fatto che spesso i siti dovranno essere monitorati per
lunghissimo tempo. Anche le competenze tecniche non sono sufficienti a trovare
soluzioni definitive. Attualmente sono in costruzione vari siti, di cui almeno
due – uno in Europa, l’altro negli Stati Uniti – dovrebbero ospitare le scorie
radioattive più pericolose per decine di migliaia di anni.
Nelle profondità delle rocce che
ricoprono l’isola di Olkiluoto, in Finlandia, è in fase di costruzione il
deposito sotterraneo di Onkalo (che in finlandese vuol dire “grotta”, “luogo
per nascondere”) che ospiterà le scorie radioattive delle tre centrali
finlandesi per le prossime decine di migliaia di anni (su tale deposito è stato
prodotto un film, Into Eternity, disponibile anche in italiano]. Il Waste
Isolation Pilot Plant (impianto pilota per l’isolamento dei rifiuti) o WIPP, a
sua volta, è un deposito geologico profondo situato
nel Nuovo Messico, destinato a conservare per i prossimi 10.000 anni i
rifiuti radioattivi che provengono dalla ricerca e dalla produzione
di armi nucleari degli Stati Uniti. Si
stima che il progetto abbia un costo totale di 19 miliardi di dollari.
Il “Trattato per la proibizione delle armi nucleari”
Dal 22 gennaio 2021 sarà
ufficialmente in vigore il “Trattato ONU per la proibizione delle armi
nucleari” (Treaty of Prohibiting
Nuclear Weapons – TPNW) che, in una certa misura, integra il
“Trattato sulla non proliferazione di armi nucleari” (Treaty on Non-proliferation
of Nuclear Weapons – TNP), in particolare vietando (articolo 1) l’uso, la
fabbricazione, o l’acquisizione con altri mezzi di armi nucleari, o la minaccia
di utilizzare armi nucleari. Esso, inoltre, introduce alcuni obblighi positivi
con l’articolo 6 («Assistenza alle vittime e risanamento ambientale») e 7
(«Cooperazione e assistenza internazionale»).
Secondo Maurizio Boni, esperto di
questioni militari (difesa, sicurezza), ci sono alcune differenze che rendono
improbabile, almeno per ora, l’adesione di molti dei membri del TNP al nuovo
trattato: in particolare quella dell’obbligo
di astenersi in ogni circostanza
dall’assistere, incoraggiare o indurre chiunque (individui, società,
organizzazioni internazionali, attori non governativi) a intraprendere ogni
tipo di attività proibita dal trattato.
Sempre secondo Boni, la clausola
di non assistenza porta con sé implicazioni significative per i paesi
alleati di Stati possessori di ordigni atomici, come quelli che gli Stati Uniti
proteggono dall’ombrello nucleare. Per i paesi non detentori di armi nucleari
che hanno accesso alla tecnologia e/o al materiale nucleare per usi pacifici, o
che cercano di accedervi; per gli stessi nuclear- weapon –states,
che hanno bisogno dell’assistenza di molti non-nuclear-weapon-states per
mantenere e modernizzare i propri arsenali e per garantirne lo schieramento e
l’operatività in diverse parti del mondo (forniture di materiale fissile per
l’arricchimento, di software e di tecnologie missilistiche, disponibilità di
basi per i bombardieri strategici).
È chiaro che, fino a quando
coloro che possiedono armi nucleari non firmeranno il trattato, il processo di
disarmo nucleare effettivo faticherà a decollare. Tuttavia il TPNW può favorire
l’avvio di iniziative importanti. Per esempio, i Paesi che attualmente ospitano
delle armi nucleari sul loro territorio (Germania, Belgio, Italia, Olanda,
Turchia), se decideranno di aderire al TPNW, dovranno allontanarle. Questo
potrebbe costituire un passo importante verso il disarmo totale. Gli articoli 6
e 7, poi, obbligano i Paesi firmatari a farsi carico delle patologie umane e
dei danni ambientali ancora presenti in conseguenza all’uso di materiali
radioattivi. Si pensi alle responsabilità della Francia in Algeria, degli Stati
Uniti in Vietnam, dell’Unione Sovietica/ Russia in Kazakistan. Potrebbe essere
un passo importante verso iniziative di giustizia riparativa.
Inoltre il TPNW per la prima
volta – riconoscendo l’impatto a lungo termine delle armi nucleari – sottolinea
la necessità di proteggere le generazioni future anche da un punto di vista
legale. Infine, l’entrata in vigore di questo Trattato può richiamare
l’attenzione pubblica e dei Governi sui problemi del dual-use e
sull’attuale incapacità di gestire le scorie radioattive, contribuendo così a
cancellare le centrali nucleari dalla lista delle fonti energetiche
“sostenibili”.
Alcune note e
informazioni sul Trattato TPNW e sulla sua entrata in vigore
Punti chiave di questo risultato storico
- Anche
gli Stati che si sono rifiutati di aderire al TPNW saranno coinvolti dalla
sua entrata in vigore.
- I
precedenti trattati di disarmo hanno portato a un cambiamento di
comportamento anche nei Paesi che si sono rifiutati di aderire.
- C’è
una nuova realtà nel disarmo internazionale, ed è un mondo dove le armi
nucleari sono vietate.
- Decenni
di attivismo hanno raggiunto quello che molti dicevano fosse impossibile:
le armi nucleari sono vietate. La democrazia ha trionfato, la stragrande
maggioranza delle persone nel mondo sostiene il TPNW.
- Ora
aderiranno altri Stati, come è successo con l’entrata in vigore di ogni
altro Trattato di questo tipo
Cosa cambierà
Ci sono diversi modi in cui tutti
gli Stati saranno interessati nei mesi ed eventualmente negli anni successivi
all’entrata in vigore, non solo quelli che hanno ratificato il Trattato.
L’attivismo è la chiave per far progredire questi impatti.
Cosa diventa illegale esattamente?
Il Trattato TPNW proibisce
specificamente l’uso, lo sviluppo, i test, la produzione, la produzione, la
fabbricazione, l’acquisizione, il possesso, il possesso, l’immagazzinamento, il
trasferimento, la ricezione, la minaccia di usare, lo stazionamento,
l’installazione o il dispiegamento di armi nucleari. Il Trattato rende illegale
per i paesi che lo firmano permettere qualsiasi violazione nella loro
giurisdizione o assistere, incoraggiare o indurre qualcuno ad impegnarsi in una
di queste attività. Il Trattato raffrza la norma contro le armi nucleari come
primo strumento legale per vietarle.
Per ulteriori informazioni sulle
implicazioni legali, leggere il documento informativo di ICAN.
Impatto sulle alleanze militari
Gli Stati che non sono parte di
alleanze militari con gli Stati firmatari possono essere interessati
dall’entrata in vigore del TPNW se gli Stati firmatari sono tenuti a modificare
la loro cooperazione con gli Stati dotati di armi nucleari e con quelli alleati
a causa dei loro obblighi derivanti dal trattato. Ad esempio, mentre i membri
della NATO possono aderire senza problemi al TPNW per essere in regola una
volta entrato in vigore questi Stati dovranno rinunciare all’uso di armi
nucleari per loro conto.
Impatto sulla produzione e sull’uso
Gli ultimi decenni insegnano che
con l’entrata in vigore di altri Trattati di proibizione di armamenti la
produzione di armi vietate tra gli Stati che ne fanno parte e gli Stati che non
ne fanno parte è praticamente cessata. Ad esempio aziende statunitensi che
producono munizioni a grappolo negli Stati Uniti hanno cessato la produzione da
quando è entrato in vigore, nonostante gli Stati Uniti non ne siano parte.
Lo stesso avviene per quanto
riguarda uso e trasferimento: dopo l’entrata in vigore del Trattato sulle mine
anti-persona i circa 34 Stati che hanno esportato mine terrestri hanno cessato
tutti i trasferimenti (nonostante non abbiano aderito al Trattato). Gli Stati
Uniti hanno modificato la loro posizione sulle mine terrestri e sulle munizioni
a grappolo dopo l’entrata in vigore di questi trattati.
L’entrata in vigore di precedenti
divieti su specifiche armi (ad esempio per quanto riguarda le mine anti-
persona o le munizioni a grappolo) ha portato a cambiamenti concreti ed
evidente anche nella produzione, nelle politiche di utilizzo e nel
trasferimento di queste armi anche nell’ambito di Stati non partecipanti a tali
norme internazionali. Ciò avverrà anche per il TPNW inquinato alcune aziende
hanno già iniziato ad adeguarsi a questo nuovo panorama giuridico.
Cosa significa questo per gli istituti finanziari?
Poiché l’assistenza è proibita
dal Trattato, per molti Stati ciò significherà come in altri casi che il
finanziamento o l’investimento nella produzione di armi nucleari venga
considerato una violazione. Gli istituti finanziari spesso scelgono di non
investire in “attività su armi controverse”, che sono tipicamente armi proibite
dal diritto internazionale. L’entrata in vigore del TPNW colloca chiaramente le
armi nucleari in questa categoria e probabilmente innescherà ulteriori
disinvestimenti. Inoltre, gli Stati parte possono impartire direttive alle
istituzioni finanziarie sotto la loro giurisdizione per la cessione da parte di
società che producono l’arma proibita in Stati non parte. In previsione
dell’entrata in vigore del TPNW, alcune istituzioni finanziarie, tra cui ABP,
uno dei cinque maggiori fondi pensione del mondo, hanno già deciso di non
investire più in produttori di armi nucleari.
Pressione internazionale
Gli Stati parte di questo
Trattato TPNW avranno ora l’obbligo di sollecitare altri Stati ad aderire e
dovranno lavorare per l’universalizzazione del Trattato. Ciò significa che non
solo i cittadini, ma anche la pressione dei pari da parte di altri Governi
aumenterà nel tempo, durante le visite di Stato, nelle discussioni bilaterali e
multilaterali, in una vasta gamma di diversi organi delle Nazioni Unite e di
altre organizzazioni internazionali, in altri organi e incontri di Trattati,
ecc.
Anche a causa di questa crescente
pressione politica e normativa, i Paesi che si oppongono a un Trattato al
momento della sua adozione hanno aderito a norme internazionali dopo la loro
entrata in vigore. Dato il grande sostegno pubblico al TPNW in molti paesi che
non vi hanno ancora aderito (79% degli australiani, 79% degli svedesi, 78% dei
norvegesi, 75% dei giapponesi, 84% dei finlandesi, 70% degli italiani, 68% dei
tedeschi, 67% dei francesi, 64% dei belgi e 64,7% degli americani) anche questi
Paesi potrebbero seguirne l’esempio.
Senzatomica
+39 338 6167247
Rete Italiana Pace e Disarmo
Segreteria Nazionale c/o Casa per la Nonviolenza, via Spagna 8 –
Verona
per contatti mail: media@retepacedisarmo.org segreteria@retepacedisarmo.org – campagne@retepacedisarmo.org
per contatti telefonici:
045/8009803 (Segreteria)
328/3399267 (Francesco Vignarca – coordinatore Campagnee
Lettera aperta
ai pacifisti di tutti i gruppi e no
Con
il 22 gennaio 2021 è stato raggiunto un grande risultato, con l'approvazione
del Trattato di proibizione delle armi nucleari. All' italiana, chiamiamolo
TPAN. Ogni gruppo ha festeggiato la data, compatibilmente con la situazione
pandemica in cui ci troviamo, che riguarda, ricordiamolo per inciso, TUTTI, i
Paesi e non solo il nostro. Con il Clima e la Pace che dovrebbero farci sentire
abitanti del Pianeta, senza dimenticare lo Stato di nascita. Ebbene, dalla data
di cui sopra non si potrebbero possedere, trasformare, trasferire, queste armi
di distruzione di massa. Il nostro Paese non ha firmato e ratificato tale
Trattato. Ricordiamo che queste armi, per la loro specificità, non coinvolgono
solo gli Stati e soprattutto i cittadini che lo compongono, dello Stato o degli
Stati in guerra, come è avvenuto fino ad oggi, ma TUTTI gli altri Stati e
cittadini del mondo. Fatto che la nostra intelligenza umana dovrebbe rigettare,
come pure dovrebbero fare i responsabili e i cittadini degli altri Stati
nucleari " disposti" alla guerra, che se ne guardano bene dall'
affrontare l'argomento, come pure le possibili "stragi" dei propri
cittadini che fino ad oggi, diceva di "difendere".
L'
occasione è, appunto, questo Trattato. Parlando della situazione italiana
sarebbe possibile arrivare al traguardo della firma e ratifica dello stesso,
nell' ordine "sparso" in cui sono i nostri gruppi organizzati? E'
buon segno che ognuno abbia"festeggiato"come se la Pace appartenesse
solo al proprio gruppo? "E' pacifista" questo comportamento? Non
contiene un poco di trumpismo? Se la Pace è e dovrebbe essere l'aspetto
preminente dell'agire, valgono le tesi personali, le antipatie magari
reciproche (solo queste possono contare?). Se in Parlamento o in Senato ci sono
rappresentanti sensibili alla Pace e qualche gruppo ha contatti con questi,
perché non farli lavorare insieme per raggiungere l'obiettivo del maggior
numero di firme per mozioni allo scopo? Un certo signor Gandhi, sembra
pacifista, non proponeva la collaborazione tra gruppi, pur non rinunciando alla
propria originalità, in nome della comune aspirazione ad essa?
Vogliamo
cambiar strada e riflettere sulla situazione "terrestre" in cui
siamo, le armi che possediamo e che saranno sostituite da altre armi più valide
da un punto di vista militare cioè più morti e miglior utilizzo tecnico? Si può
osservare che il signor Biden, che ha sostituito Trump alla guida dell'America,
comunque sostiene, certo con altro stile, che prima dovranno essere vaccinati
gli americani e poi gli altri se il vaccino avanza? E la Cina dovrà essere
sempre "contenuta" e guardata con sospetto, considerato che al suo insediamento
era presente un alto rappresentante di Formosa, isola che in base ad accordi
precedenti doveva essere pienamente cinese, non certo inviato da Pechino? Certo,
tutto in linea con quanto scritto in documenti ufficiali (è proprio il caso di
dirlo) del Pentagono, che ha identificato come nemici degli Stati Uniti ad
esempio Cina e Russia. E' notorio che la Russia ha più o meno il nostro Pil
italiano? La fa diventare "potenza" il retaggio industrial-militare
dell'URSS.
Augurerei buon lavoro a tutti noi
Milano 24 gennaio 2021 Giuseppe Bruzzone (obiettore di coscienza
66/68)
In vigore il TPAN: che fare adesso?
Incontro su Internet svoltosi il 22 gennaio 2021: azione non
celebrazione!
Il 22 gennaio 2021, dopo 90 giorni dalla 50esima ratifica
dell'Honduras, è entrato in vigore il Trattato ONU di proibizione
delle armi nucleari (TPAN), approvato da una Conferenza ONU il 7 luglio
2017.
I Disarmisti esigenti e WILPF Italia, membri ICAN,
premio Nobel per la pace 2017, hanno promosso nell'occasione una
consultazione online, aperta ai firmatari delle nostre petizioni, in
particolare "NO ARSENALI SI OSPEDALI" (https://www.petizioni.com/no_arsenali_si_ospedali),
sulle iniziative da prendere:
1) per continuare a premere sulla ratifica del parlamento italiano che, al
carro del veto NATO, fino ad oggi non c'è;
2) per opporsi al ritorno degli euromissili che include la risistemazione
delle basi di Ghedi e Aviano (senza dimenticare il problema dei porti
nucleari);
3) per dare corpo, anche ricorrendo ad intelligenti forme di obiezione di
coscienza, all'obiettivo "NO ARSENALI SI OSPEDALI": convertire le
spese militari in investimenti per la salute nella prospettiva di una
conversione ecologica dell'economia.
L'incontro si è svolto il giorno 22 gennaio 2021 con
inizio alle ore 19.00 e termine alle ore 21.30; è stato
registrato per essere introdotto sul canale video "SIAMO TUTTI PREMI
NOBEL PER LA PACE CON ICAN".
Alfonso Navarra (portavoce dei Disarmisti esigenti) e Antonia Sani (WILPF
Italia) hanno introdotto.
Loredana De Petris senatrice di LEU ci ha inviato un messaggio (vedi testo
sotto riportato) per l'impegno a presentare un DDL di ratifica italiana del
TPAN.
Una lettera (vedi file allegato) è stata spedita ai 69 deputati e 2 senatori
della XVIII Legislatura che hanno sottoscritto l'ICAN Pledge.
Sono intervenuti nella discussione:
Patrizia Sterpetti (WILPF Italia), Adriano Ciccioni (Ban the Bomb), Ennio
La Malfa e Oliviero Sorbini (AK), Laura Tussi (Memoria e Futuro), Fabrizio Cracolici
(Rete educazione alla terrestrità), Giuseppe Farinella (Il Sole di Parigi),
Massimo Aliprandini (Lega obiettori di coscienza), Giovanni Sarubbi (il
Dialogo), Francesco Lo Cascio (Rete Ambasciate di pace), Patrick Boylan
(PeaceLink), Ennio Cabiddu (Sardegna Pulita), Tonino Drago (fisico nucleare),
Marzia Manca (Movimento Nonviolento).
I temi affrontati: il mail bombing sui parlamentari per il DDL di ratifica
italiana del TPAN (testo redatto da IALANA Italia); l'opposizione locale al
dispiegamento delle nuove atomiche americane; l'azione in agosto sulle potenze
nucleari a Roma da effettuare in concomitanza con la sessione di revisione del
TNP a New York; il sondaggio mondiale antinucleare sulle piattaforme social; il
coinvolgimento del mondo cattolico ed in particolare la pressione sui
francescani perché recedano dal considerare l'industria bellica volano di
sviluppo (vedi volo delle Frecce Tricolori su Assisi); la strategia per
rilanciare la denuclearizazzione sia civile che militare (vedi deposito unico
delle scorie radioattive); il rilancio dell'obiezione alle spese militari,
finalizzata alla difesa nonviolenta, anche per perseguire gli obiettivi di NO
ARSENALI SI OSPEDALI; il lavoro culturale sulla terrestrità con il progetto
Memoria e Futuro e altre iniziative.
Luigi Mosca, di Armes Nucléaires STOP, si è fatto tramite con il
webinar internazionale "ENTRY INTO FORCE DAY" organizzato dalla
campagna ICAN, che è iniziato alle ore 21 e che è visibile al
seguente link: https://www.icanw.org/studio_2221?utm_campaign=studio_21_22_announc&utm_medium=email&utm_source=ican
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Qui di seguto il
MESSAGGIO DI LOREDANA DE PETRIS ALL’INCONTRO DIGITALE DEL 22 GENNAIO 2021
DAL TITOLO: IL TPAN ENTRA IN VIGORE: CHE FARE? ORGANIZZATO DA DISARMISTI
ESIGENTI E WILPF ITALIA
Care e cari amici,
Oggi celebrate la storica giornata dell’entrata in vigore del Trattato ONU
di proibizione delle armi nucleari.
Condividendo la vostra gioia e la vostra speranza, saluto il vostro
incontro, di riflessione e programmazione di strategie e di azioni per la sua
effettiva implementazione.
Mi preme sottolineare il lungo cammino che abbiamo percorso fianco a
fianco, con la collaborazione in varie iniziative parlamentari (mozioni etc.),
che, nel corso degli anni, abbiamo anche presentato in conferenze stampa
organizzate insieme al Senato.
Sono ben consapevole che i Paesi aderenti alla NATO non hanno
partecipato ai negoziati per la definizione del Trattato per la proibizione
delle armi nucleari; ed in conseguenza di ciò l’Italia, conformandosi a tale
posizione, finora ha fatto mancare la sua adesione.
Continuo ad essere convinta che sussistono sia le ragioni di opportunità
storica che di diritto internazionale affinché l’Italia aderisca al Trattato
che stigmatizza lo stesso possesso delle armi nucleari.
Il trattato infatti vieta non solo l’uso delle armi nucleari, ma anche la
minaccia, negando quindi la legittimità della deterrenza che ha consentito la
crescita esponenziale degli arsenali nucleari durante la “Guerra fredda”, e la
folle corsa agli armamenti oggi, purtroppo, ripresa.
E confermo che, sempre con il vostro aiuto di cittadini attivi e sensibili
ai problemi della pace e della sopravvivenza dell’umanità, continuerò a
darmi da fare per impegnare il governo:
1) a disporre gli atti necessari all’adesione dell’Italia al Trattato delle
Nazioni Unite relativo al divieto delle armi nucleari, adottato a New York il 7
luglio 2017 e aperto alla firma il 20 settembre 2017;
2) a presentare conseguentemente alle Camere il disegno di legge per
l’autorizzazione alla ratifica e per l’esecuzione del Trattato.
Auguri di buon lavoro e a rivederci e risentirci presto.
Loredana De Petris – senatrice LEU - Presidente del gruppo misto
INFO:
Alfonso Navarra - Disarmisti esigenti - alfiononuke@gmail.com -
cell. 340-0736871
Antonia Sani - WILPF Italia - antonia.sani.baraldi@gmail.com - cell.
349-7865685