Ero indeciso se scrivere di nuovo sull’argomento. La sensazione di inutilità, di prendersela contro i mulini a vento è forte, come pure la voglia di dire: «ma chi me lo fa fare».
Però, in questo Sud io ci sono nato e ci vivo,
l’oppressione e pervasività di “quel” potere le conosco bene e conosco bene la
rassegnazione alla sconfitta. E i relativi volti. Quelli di chi, letteralmente,
ti rappresenta la fine della vita tua e di chi ti è vicino, pur non facendolo
in modo esplicito, ma sempre con ragionamenti ellittici, dal suono amichevole,
persino e proprio per questo più terrorizzanti. Quelli di quanti stanno dietro
o a fianco ai primi, ma mai nei luoghi della gente normale e che indossano
toghe, siedono in consigli di amministrazione, presiedono enti, casse, partiti,
fondazioni, frequentano le stanze di compensazione degli interessi che contano
e decidono le sorti di queste terre da generazioni. Infine quelli dagli occhi
bassi e i pugni stretti, che mordono le labbra e cedono e cedono e pare non
debbano mai smettere di farlo. Ma io, per il mestiere che faccio, sono in grado
di comprendere e svelare e, proprio perché conosco quei volti, sento di dover
continuare a parlare. Prima di tutto a chi fa il mio stesso mestiere e ha la
mia stessa possibilità e capacità di comprendere.
Ieri l’altro su Rai3, nella trasmissione Presadiretta,
si è parlato del noto processo Rinascita-Scott, che ha per oggetto
fatti di ‘ndrangheta e che proprio in questi giorni muove i
primi passi nella nuovissima aula bunker costruita in tempo record a Lamezia
Terme. In verità si è parlato delle indagini, perché il processo non è
ancora neppure alle fasi preliminari. Ed è proprio questo il punto sul quale
vale la pena di riflettere insieme. Anche se, prima di farlo sento il bisogno
di dire quanto questa riflessione mi costa.
Mi costa molto, per tante ragioni che prima ho solo
accennato. Perché ho riconosciuto nei molti filmati dei ROS i volti di cui
dicevo. Perché ho riconosciuto, nelle parole intercettate, parole che mi
suonano in testa e mi pesano sul cuore da una vita. Di più, mi costa molto
perché, da tecnico, ho ben percepito – come chiunque di voi abbia visto la
trasmissione ‒ il valore e l’importanza di quegli elementi di prova. Il loro
peso dirompente laddove vanno a incidere l’empireo degli intoccabili,
squarciando la pesante coltre dietro cui si nascondono. Mi costa
moltissimo perché sento sulla mia pelle la rabbia e il dolore di quei genitori
che hanno perso i figli per mano di un potere criminale, di tutte quelle donne
e quegli uomini che manifestavano a sostegno dell’indagine sotto le finestre
dei carabinieri all’indomani degli arresti, invocando finalmente
giustizia.
Ma al tempo stesso, proprio per questo, non posso
tacere.
La stampa – lo sappiamo bene ‒ fa il suo mestiere.
Cerca notizie d’interesse pubblico e le diffonde e il valore di un giornalista
si misura sulla sua capacità di trovare le notizie e di esporle. Il giornalista
di cronaca le scova muovendosi fra segreti istruttori e fasi di discovery, fra
prove nascoste e prove esibite, fra indiscrezioni carpite e indiscrezioni fatte
filtrare. Del resto anche la polizia giudiziaria e gli organi inquirenti fanno
il loro di mestiere. Cercando prove, custodendole gelosamente, coltivandole
affinché, al momento giusto, germoglino e diano frutti. Ma anche in questo
caso, in un gioco di specchi e di parti che è antico quanto il processo stesso,
praticando sovente l’arte dell’indiscrezione veicolata e del consenso. Spesso
utili anche per le sorti delle ipotesi d’accusa, ma altrettanto spesso per
quelle delle carriere personali. In America ci hanno costruito, da sempre, un
genere letterario e cinematografico che non conosce crisi.
Nella trasmissione di ieri, però, abbiamo assistito a
una sorta di smascheramento. Tutto si è svolto alla luce del sole, anzi sotto
la luce delle telecamere. Negli studi televisivi e in esterni, letteralmente
sul luogo del reato. Niente segreti pazientemente carpiti o sapientemente
filtrati nell’ombra del lavoro d’indagine giornalistica o investigativa, ma
ufficiali dei carabinieri che illustrano il contenuto di intercettazioni telefoniche
e video, indicano i luoghi in cui si sono appostati per eseguire le riprese,
illustrano le storie criminali dei vari protagonisti e gli organigrammi delle
rispettive cosche. E in alto su tutti, ovviamente, l’Inquirente.
Tralascio gli aspetti personali che ognuno è libero di
valutare come meglio crede (penso ai reiterati riferimenti a concetti quali
«codardia/vigliaccheria» o ai dialoghi interiori con “compagna morte”
[intervista alla Gazzetta del Sud del 16 marzo]). Quel
che mi allarma ‒ e che dovrebbe allarmare tutti ‒ è che, proprio alla vigilia
di un delicatissimo processo, si ritenga normale che il pubblico ministero
partecipi, in veste di protagonista assoluto (pur se affiancato, come detto, da
spalle di prim’ordine), al processo mediatico-televisivo che precede e affianca
quello che s’avvia nell’aula bunker. Un processo nel quale tre giovanissime
magistrate, che assieme non arrivano a sommare dieci anni di anzianità,
dovranno affrontare, oltre all’ordinaria pressione che accompagna un processo
di queste dimensioni e complessità, anche la pressione mediatica, enorme, che
una delle parti processuali oggettivamente contribuisce a determinare. So
che sapranno farlo, che resistere a simili pressioni è la parte di bagaglio
professionale che alle nostre latitudini si acquisisce più celermente, ma è
giusto ed accettabile che ciò accada?
Infine, noi, che siamo cresciuti alle lezioni di
garantismo di Luigi Ferrajoli e di tanti altri maestri, abbiamo fermo in mente
il loro insegnamento che ci ricorda come il soggetto da tutelare nel processo
penale sia sempre l’imputato, a difesa dei cui fondamentali diritti sono
predisposte tutte le regole e garanzie che ne scandiscono l’incedere. La
prima delle quali è quella che stabilisce che la prova si forma nel processo.
Non nelle indagini e ancor meno nella rappresentazione mediatica delle stesse.
Una regola, questa, che esprime anche un fondamentale principio epistemologico
del processo penale accusatorio, che individua nel contraddittorio e nella
dialettica paritaria tra le parti del processo il miglior criterio per giungere
all’accertamento della verità.
E a me, a noi tutti che in queste terre disgraziate ci
troviamo o abbiamo scelto di vivere, quello che interessa, prima d’ogni altra
cosa, è la verità. Per questo, principalmente, vorrei invitare chiunque indaghi
sulla criminalità mafiosa, con toga sulle spalle o stellette sul petto, a non
arruolarsi in quella guerra che il Procuratore Gratteri ha evocato in TV,
continuando, molto più banalmente, a fare ciascuno la cosa più difficile: il
proprio mestiere.
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