Una testimonianza su “agenzie di somministrazione” e lavoro interinale.
La chiamata dall’agenzia interinale (propriamente detta agenzia di
somministrazione) arriva tre ore prima dell’inizio del turno: alle 11 del
mattino mi viene proposto di prendere servizio in fabbrica dalle 14 alle 22.
Contratto di un solo giorno. Prendere o lasciare. Prendo, e in poco più di
cinque minuti mi viene spiegato come attivare la firma online, quali documenti
inviare, quali normative sull’igiene leggere. Nessun bracciale, niente
orecchini, niente anelli se non la fede nuziale. No trucco, niente smalto a
meno che non si abbia il semipermanente o il gel che per mancanza di tempo non
si può togliere, abbigliamento possibilmente bianco. Devo presentarmi venti
minuti prima dell’inizio del turno: fuori dallo stabilimento la o il
responsabile dovrebbe prendermi in consegna. Passano i minuti, ma non trovo
nessuno ad aspettarmi. Chiedo agli operai che stanno passando il badge ed entro
con loro.
Le agenzie di somministrazione, ex agenzie interinali, sono realtà private
che operano nel mercato del lavoro somministrando lavoratori all’impresa
utilizzatrice. Il rapporto su cui si basano è trilaterale e i tre lati del
triangolo sono composti dall’agenzia per il lavoro, dall’impresa utilizzatrice
e dalla lavoratrice o dal lavoratore. Due sono i contratti che possono essere
stipulati: il primo è di somministrazione e avviene tra l’agenzia
(somministratore) e l’azienda che ha richiesto il suo servizio (utilizzatore).
Il secondo è quello tra la lavoratrice o il lavoratore e l’agenzia interinale
(somministratore) che sarà a tutti gli effetti il datore di lavoro.
Quando è l’agenzia interinale ad assumere stabilmente si ha a che fare con
la formula dello staff leasing che consiste nella
somministrazione di lavoro a tempo indeterminato. Il suo uso ha un limite
quantitativo fissato al 20% della forza lavoro a tempo indeterminato assunta
dal datore di lavoro utilizzatore. Per quanto riguarda invece la presenza in un’azienda
di lavoratrici e lavoratori somministrati a tempo determinato, la soglia
massima è fissata al 30% rispetto al numero di manodopera a tempo indeterminato
in forza presso l’utilizzatore. Inoltre, il periodo di lavoro svolto da
dipendenti con contratto di somministrazione a tempo determinato presso lo
stesso utilizzatore non può superare i 24 mesi, oltre i quali il contratto si
dovrebbe trasformare a tempo indeterminato.
All’interno dello stabilimento di Lavis (Trento) della San Carlo, l’azienda
italiana specializzata nella produzione di patatine e snack di vario tipo,
lavoro in una piccola squadra composta inizialmente da quattro persone, poi da
cinque. Siamo tutte assunte a tempo determinato attraverso agenzia interinale:
per tre di noi è il primo giorno (e unico da contratto), per l’anziana del
gruppo – non dal punto di vista anagrafico ma di esperienza – sta per scadere
il secondo anno di presenza. Quest’ultima racconta che è una delle poche donne
a svolgere le mansioni spesso assegnate agli uomini e, all’occorrenza, è in
grado di ricoprire il ruolo di macchinista. Parla della fabbrica come di un
ambiente oramai familiare, parla di sé come di un’operaia tanto formata e
affidabile quanto precaria. Sebbene ben inserita come forza lavoro, il suo
timore è che allo scadere dei 24 mesi sia lasciata a casa invece di accedere a
un contratto a tempo indeterminato. Già in passato aveva raggiunto il limite
massimo temporale come lavoratrice somministrata, ma i modi per rimanere nella
stessa realtà come interinale sono molteplici: non solo spesso le lavoratrici e
i lavoratori sono iscritti a più agenzie contemporaneamente, ma è possibile
essere riassunti con mansioni differenti e/o contratti diversi. Come dice il
detto, fatta la regola trovato l’inganno.
Il dato esatto dei lavoratori somministrati sfugge facilmente. Alcuni sono
assunti per un solo giorno, altri per una settimana, altri ancora per dei mesi.
Oltre a noi, altre decine di persone lavorano attraverso agenzia interinale
nello stabilimento, ma anche per i sindacati è complesso riuscire a definire il
numero preciso. Sebbene le aziende siano tenute a indicare i dipendenti fissi e
coloro i quali sono invece in possesso di un contratto attraverso agenzie
interinali, il dato esatto di questi ultimi sfugge facilmente. Alcune
lavoratrici e lavoratori somministrati sono assunti per un solo giorno, altri
per una settimana, altri ancora per mesi. In questo modo la cifra fluttua con
rapidità non mantenendosi omogenea e l’unico punto di riferimento rimane il
divieto che la somministrazione ecceda il 30% o il 20% del numero dei
lavoratori a tempo indeterminato. La vicenda Amazon – accusata nel 2017 di aver
soverchiato le soglie di somministrati ma vincitrice in giudizio per
prescrizione dei termini – insegna però che il superamento della soglia può
avvenire senza alcuna conseguenza per l’azienda.
Ma perché un’impresa dovrebbe scegliere di non tenere una lavoratrice ormai
formata? Sebbene il servizio di somministrazione del lavoro abbia un costo – la
tariffa copre una serie di attività quali l’acquisizione dei curricula, la
selezione dei candidati, le pratiche amministrative –, ciò che sembra non avere
un prezzo è la flessibilità esasperata che questi regimi contrattuali
permettono. Le imprese affrontano la naturale ciclicità del carico di lavoro
utilizzando maggiore manodopera nei momenti di picco e interrompendo il
rapporto quando è ritenuto più conveniente, liberandosi in questo modo dalle
responsabilità nei confronti delle lavoratrici e dei lavoratori. Tale
flessibilità fuori controllo non solo costringe le lavoratrici e i lavoratori a
una condizione di precarietà estrema, ma li mette in una condizione di costante
ricatto.
All’inizio del rapporto, il preavviso con cui le agenzie contattano i
somministrati è di poche ore prima del turno di lavoro, non permettendo alcun
tipo di organizzazione e pianificazione anche a breve termine. La mancata
disponibilità, soprattutto se ripetuta, comporta uno slittamento nella lista
delle persone da contattare fino alla cessazione delle telefonate — una
condizione da non sottovalutare in tempi di emergenza pandemica. Il regime di
somministrazione a tempo determinato non conosce il concetto di malattia: il
rifiuto di un incarico perché non in salute rappresenta indisponibilità e un
periodo di convalescenza prolungato con conseguente impossibilità ad accettare
delle offerte può farti uscire dai giochi. In un sistema del lavoro così
nevrotico e così poco tutelato, non è credibile che una lavoratrice o un
lavoratore somministrato decida di rimanere a casa se nei 14 giorni precedenti
alla data del contratto ha avuto tosse, raffreddore, febbre, tutte
manifestazioni riconosciute come sintomi da infezione da SARS-CoV-2. Il sistema
in questione, azzerando la dignità delle lavoratrici e dei lavoratori, invalida
la retorica della responsabilità collettiva tanto osannata negli ultimi mesi e
annulla la possibilità di scelta.
In questo scenario, il rapporto della persona con la propria salute viene
doppiamente deformato: se da una parte lo spettro della COVID-19 costringe a
un’ipermonitorizzazione del proprio corpo anche sul luogo di lavoro con
quotidiane misurazioni della temperatura corporea, uso massiccio di
igienizzanti e auspicato utilizzo della mascherina, dall’altra la paura di
rimanere a casa rischia di privare della libertà di assecondare il reale stato
di salute. È bene ricordare che le agenzie per il lavoro vengono interpellate
da molti stranieri in cerca di occupazione e quando il permesso di soggiorno è
legato al lavoro il ricatto diventa uno strumento all’ordine del giorno.
Le imprese utilizzano maggiore manodopera nei momenti di picco e poi
interrompono il rapporto, liberandosi in questo modo dalle responsabilità nei
confronti delle lavoratrici e dei lavoratori.
La precarietà dei lavoratori somministrati determina uno spezzettamento del
loro comparto, condizione che si riflette anche nella complessità di
un’eventuale azione sindacale. Gli interinali, rappresentati da una categoria
sindacale specifica e diversa da quella dei dipendenti fissi dell’azienda o
della fabbrica, hanno spesso contratti a brevissimo tempo. Tale caratteristica
fa sì che una lotta unitaria, per quanto necessaria, sia più difficile da
organizzare: nei rapporti di forza che si instaurano tra i vari soggetti del
sistema lavorativo, la non continuità e la paura di non essere riconfermati
causano una posizione di forte svantaggio. Se si adotta l’idea che la forza di
una categoria così come di un’iniziativa sia direttamente proporzionale alla
coesione interna, il settore degli interinali rischia di essere molto
penalizzato. L’arma del ricatto e la grandissima offerta rendono le relazioni
di potere fortemente asimmetriche e, allo stesso tempo, richiedono una grande
unione al fine di convogliare le varie forme di ingiustizie e precarietà in un
conflitto.
La precarietà sembra dunque frutto di una volontà politica che si inserisce
in un controllo basato su uno stato permanente di insicurezza che porta a una
sempre maggiore accettazione dello sfruttamento e della sottomissione.
Utilizzando un’espressione del sociologo Pierre Bourdieu, il precariato può
portare alla “miseria di posizione”, cioè quella miseria che si differenzia
dalla povertà, ma che si radica in uno spazio fisico e sociale umiliante, che
indebolisce le relazioni sociali, che degrada il modo in cui le persone pensano
a sé stesse, che influenza negativamente le possibilità di vita che si hanno a
disposizione, che genera una chiusura dei possibili e che restituisce
disillusione e senso di impotenza.
In questo panorama di desertificazione sociale, è difficile non pensare
alla storia apparsa sui giornali a dicembre del magazziniere Amazon che viveva
in un camper nel parcheggio dello stabilimento di Rovigo a causa delle
difficoltà a ottenere un affitto per le poche garanzie offerte dal suo
contratto a ore come lavoratore interinale. È dei primi di gennaio la notizia
che la multinazionale dell’e-commerce non gli ha rinnovato il contratto al suo
scadere. In un’intervista rilasciata a Repubblica, Massimo
Straccini dichiara di temere di essere stato penalizzato per aver raccontato la
sua esperienza di lavoratore stagionale “costretto” a vivere in camper, ma
sottolinea il fatto che la sua critica era diretta al sistema del lavoro e non
all’azienda, nei confronti della quale si è sempre dimostrato un lavoratore
attento tanto che i manager erano soddisfatti del monitoraggio del suo operato.
Tali precisazioni mostrano uno stato di sudditanza in cui si è coinvolti e dal
quale è difficile uscirne se non si contestano tutti i soggetti coinvolti in
questo degrado sociale ed esistenziale, a partire da quel colosso che più di
altri mostra il disequilibrio della ripartizione tra capitale e lavoro.
Mentre in giro per il mondo i dipendenti Amazon protestavano per le
condizioni di lavoro ritenute insane e per chiedere maggiore tutela durante la
pandemia rischiando di perdere il
proprio posto, Jeff Bezos vedeva il suo patrimonio personale aumentare
esponenzialmente arrivando a metà ottobre alla cifra di 192
miliardi di dollari (+ 69,9% da marzo).
La precarietà sembra frutto di una volontà politica basata su uno stato
permanente di insicurezza che porta a una sempre maggiore accettazione dello
sfruttamento.
La precarizzazione del lavoro e della vita è un tratto che contraddistingue
il capitalismo globale che corre costantemente verso un nuovo progresso, un
maggiore profitto e un’assoluta flessibilità. Il continuo reinserimento nel
campo lavorativo determinato in particolare dall’iperflessibilità fa del senso
di instabilità e di ingiustizia sociale condizioni collettive vissute però
sempre più spesso da un punto di vista strettamente individuale. Si assiste
così al paradosso per cui continua a esistere lo spirito di realizzazione
personale raggiunto attraverso la professione sebbene lo scenario lavorativo
sia così precario da risultare quasi impossibile far coincidere
l’identificazione di sé con l’identità professionale.
Un concetto, quest’ultimo, che vale anche per quei lavori che si reputano
erroneamente più critici verso queste tendenze di mercato, come le professioni
legate al settore artistico-culturale. Una questione trasversale
sembra essere anche l’interiorizzazione della visione dominante del mondo del
lavoro e la difficoltà a non accettare determinate situazioni: in questa
società della prestazione e allo stesso tempo della sopravvivenza, lo
sfruttamento esterno può contare sull’autosfruttamento volontario e
sull’auto-ottimizzazione, una spirale di autolimitazione che fa combinare la
lotta contro un sistema con la lotta contro sé stessi.
Il timore dell’operaia della San Carlo di non essere assunta al termine dei
24 mesi è dovuto anche al fatto che in questo arco di tempo ha visto colleghi
non essere inseriti in modo definitivo dopo anni di presenza nello stesso
stabilimento. Decisioni, queste ultime, che passano senza alcun tipo di
contestazione e legittimate dalle attuali regole del lavoro. In quella che pare
a tutti gli effetti una forma di sfruttamento ma che rischia di non poter
essere definita una nuova schiavitù per la sua stessa brevità, si assiste
all’impossibilità, soprattutto da parte dei soggetti più deboli, di rifiutare
condizioni indegne e di avanzare una mobilitazione che metta in crisi un
sistema fondato su un precariato – tanto lavorativo quanto esistenziale –
portato agli eccessi.
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