Sono decenni che i governi italiani, quale più quale meno, sviliscono il mondo del lavoro riducendo le grandi conquiste sociali a vecchi arnesi da rottamare. Sono anni che il popolo italiano è orfano di un pensiero politico forte, autentico, Politico con la P maiuscola, e questo spiega la continua perdita di diritti che sembravano acquisiti. Una panoramica sulla composizione del nostro Parlamento nelle ultime legislature spiega la caduta di quella “P” ma – che ci piaccia o meno – la composizione del Parlamento deriva dalla sovranità popolare che lo esprime.
Anni di privatizzazioni e svendite in nome del “nuovo che avanza” –
prendendo a calci non solo il sogno racchiuso nel pensiero marxista, ma anche
quello racchiuso nel socialismo utopico in tutte le sue varianti – hanno
aperto la strada a un nuovo liberismo, a volte coperto da un velo di keynesismo
socialdemocratico utile a contenere le esplosioni di malcontento sociale.
A volte senza neanche quel velo.
Chi è il colpevole di questo processo? Colpevoli
non sono i liberisti, quelli fanno il proprio mestiere.
Colpevole è chi ha ceduto a quelle logiche pur
restando identificato (a torto) in una sfera “di sinistra”. Il male nasce da
lontano, si era ancora a fine anni ’70 quando questa deriva cominciò a
delinearsi accettando il salario come variabile del profitto. E lo diceva chi si
professava marxista. Seguì l’accettazione di condizioni sempre peggiori accompagnate
a volte da un “ce lo chiede l’Europa”, altre volte da una “necessaria
competitività con l’estero”. Affermazione che, al posto dell’internazionalismo
proletario (locuzione desueta a parte gli slogan di piazza), metteva a valore
la competizione tra lavoratori al ribasso a tutto vantaggio dei profitti al
rialzo.
Una deriva che ha camminato sulle gambe di politici e sindacalisti che,
malgrado qualche seria contestazione, hanno seguitato ad essere considerati
portatori di valori di sinistra, lasciando alla destra la possibilità di
riempire gli spazi rimasti vuoti. Così, come una ruota posta su un pendio,
il mondo del lavoro ha cominciato a correre verso il precipizio acquistando in
velocità.
Non è questa la sede per ripassare quarant’anni di débacle o per entrare in
modo approfondito nelle diverse peculiarità dell’estesa famiglia del
socialismo, sebbene questo scritto
nasca su impulso della definizione di “socialista liberale” attribuita al neo
presidente del Consiglio Mario Draghi. Forse una definizione buttata là solo per seguire l’onda montante del
“viva il salvatore della patria”. O forse Draghi, adulatori a parte, può essere
davvero annoverato nella famiglia socialista. Vediamolo insieme.
Intanto, utilizzando come guida concettuale la definizione marxiana secondo
la quale “non è la coscienza individuale che fa l’essere, ma è l’essere sociale
che determina la coscienza”, direi che si possa escludere dalla famiglia socialista
l’uomo di Goldman Sachs, il presidente della BCE, il propugnatore
dell’abbandono delle piccole barche in avaria ai marosi della crisi a favore
del salvataggio dei transatlantici bisognosi di carburante. Questo, tanto per
usare una metafora che, avendo ora i leghisti nel governo, potrebbe suonare
come memento di operazioni mediterranee che poco hanno a che fare col
pensiero socialista e ancor meno con quello cristiano cui si rifanno tanto il
leader leghista che il presidente Draghi.
Un socialista liberale, diversamente da un
liberista, dovrebbe porre cura al mondo del lavoro già massacrato da norme che,
l’una dopo l’altra, hanno distrutto il frutto delle lotte di anni in cui la sinistra
faceva la sinistra. Un documento sulla condizione lavorativa nei call
center di cui citerò qualche passo sembra il manifesto di questo disastro
figlio del neo-liberismo. E’ un documento arrivato da Ivrea, quella che una volta, grazie a
un “socialista liberale” vero, Adriano Olivetti, era diventata la città a misura
d’uomo creata dal sogno, dall’intelligenza e dall’azione concreta di questo
industriale che, pur tutelando come nessuno i lavoratori, era riuscito a fare
della sua fabbrica la più importante al mondo nel campo dell’elettronica.
Fondata da Camillo Olivetti come fabbrica di macchine da scrivere, partita
con tre operai presi dalla strada, istruiti e divenuti ottimi dirigenti, la
Olivetti si era trasformata in una fabbrica capace di dare lavoro a 23.000
persone compresi artisti, scrittori, filosofi e psicologi, in una cittadina di
circa 23.000 abitanti. Poi, vista la richiesta che arrivava dal sud Italia,
Olivetti aprì una fabbrica anche al sud, dove trovarono impiego più o meno
altri 15.000 lavoratori riuscendo a garantire, insieme, alti profitti e ottime
condizioni di lavoro.
“Il profitto aziendale deve
essere reinvestito a beneficio della comunità” era la frase che rappresentava in sintesi la
politica industriale di Adriano Olivetti. E lo dimostrava praticamente,
diventando un ”fenomeno” da studiare. Infatti chi scrive lo conobbe
molti anni dopo la sua morte, strana e prematura, studiandolo in un corso di
sociologia industriale. Certo, la sua era una frase più lunga da ripetere e
quindi da ricordare della draghiana “whatever it takes”, ma non era
riferita a una moneta bensì alla comunità umana, e aveva come riflesso
tangibile condizioni di lavoro all’avanguardia, costruzione di case e di asili
per i dipendenti, stipendi più alti di quelli ottenuti altrove con
faticose contrattazioni aziendali, riduzione dell’orario di lavoro a parità di
salario, assegno di maternità allora sconosciuto, creazione all’interno della
fabbrica di mense, biblioteca, palestre, sale per proiezioni, per dibattiti e
per concerti e tutto ciò che rientrava nel suo obiettivo di ricerca
dell’equilibrio tra profitto, democrazia e giustizia sociale. I servizi non rappresentavano “musica per
vacche” per aumentare la produttività , ma erano considerati “dovere che deriva
dalla responsabilità sociale dell’azienda”.
Non era un marxista, Olivetti, ma un industriale
socialista che faceva profitti senza mettere in discussione il diritto di
farne, ma ridistribuendone ai lavoratori in forma sia di salari che di servizi
. Servizi utilizzabili anche durante l’orario di lavoro in quanto,
scriveva, “l’uomo che vive la sua lunga giornata nell’officina non sigilla la
sua umanità nella tuta di lavoro” o “la persona deve essere libera e il suo
valore spirituale è infinitamente più alto di ogni valore economico”. Cosa che oggi cozzerebbe col concetto di
massima produttività, nonostante Olivetti la produttività la vedesse crescere
invece che diminuire, al punto di far diventare la sua fabbrica di elettronica
prima nel mondo con notevole fastidio per gli USA.
Nel 1960, Adriano Olivetti morì improvvisamente durante un viaggio in
treno. Aveva solo 58 anni. Ai suoi funerali c’erano 40.000 persone, circa il
doppio degli abitanti di Ivrea. E non c’erano ancora i social. Un anno dopo,
stranamente, moriva in un incidente stradale anche l’ing. Tchou, la “mente
informatica” dell’azienda che aveva reso tecnicamente possibile farne la prima
al mondo. La “rivoluzione di Ivrea” riuscì a sopravvivere, ma per poco
tempo.
La storia e le condizioni di lavoro dei dipendenti della Olivetti oggi sembrano
racconti leggendari, soprattutto se paragonati al documento di denuncia
arrivato proprio da Ivrea.
Se Olivetti era un socialista liberale, è facile, nel confronto, dire che
Draghi, senza togliergli alcun merito come superbanchiere e uomo della finanza,
può a pieno titolo definirsi liberista, ma non certo socialista, neanche
affiancando al sostantivo un aggettivo qualunque.
E’ alla fine degli anni “90 che con “la liberalizzazione dei servizi di
telefonia e conseguente nascita delle prime aziende italiane di
telecomunicazione”[1] nasce il lavoro di call center. Un lavoretto part
time gradito a giovani che lo accettavano per mantenersi agli studi o
in attesa di un lavoro stabile. Ma le minori tutele del lavoro, le
delocalizzazioni, la disoccupazione crescente, le tante norme che hanno che
hanno sempre più precarizzato i contratti di lavoro, ne hanno fatto un’attività
di sfruttamento che vede questi lavoratori, peraltro non più prevalentemente
giovani, ma prevalentemente sottoccupati di ogni età, generalmente diplomati e
spesso laureati, trasformarsi in moderni cottimisti che lavorano in
condizioni indegne, paragonabili alle famigerate catene di montaggio e in una
situazione di costante precarietà, soprattutto a seguito del “jobs act”
e della cancellazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori.
La sfrenata gara al ribasso del costo del lavoro da parte delle imprese
di call center, ha acuito la guerra tra poveri e tra poveri e più
poveri, cioè tra lavoratori italiani e lavoratori di paesi ancor meno tutelati
e quindi particolarmente appetibili per delocalizzazioni a costo decrescente.
Questa ossessione dal gusto vagamente schiavista, consistente nella
riduzione massima dei costi del lavoro grazie anche alla delocalizzazione,
oltre a distruggere la dignità dei lavoratori e a peggiorarne la qualità della
vita, comporta anche minori
entrate erariali, per non parlare della perdita di 10 miliardi di contributi in
soli due anni subita dall’INPS per gli sgravi aziendali frutto del
pacchetto jobs act voluto da Renzi. Del resto lo
stesso Renzi, andando a omaggiare il tiranno saudita Bin Salman, senza pudore
ha dichiarato la sua “invidia” per il basso costo del lavoro in Arabia Saudita.
Renzi, è opportuno ricordarlo, pur essendo un accurato distruttore dei valori
di sinistra, è stato e forse è ancora considerato uomo di centro-sinistra.
Passi per il centro, i cui confini sono evanescenti, ma sinistra proprio no,
almeno finché sinistra significhi tutela dei diritti dei lavoratori oltre che,
ovviamente, dei diritti umani, politici e civili.
Tornando al documento sul call center redatto da Cadigia Perini di Ivrea,
esaminarlo è doppiamente agghiacciante pensando, 1°, al contrasto con quel
“progetto Ivrea” che sognava di espandersi come comunità in cui trovassero
felice convivenza e pari dignità capitale e lavoro (le morti premature di
Adriano Olivetti e di Mario Tchou comportarono la svendita agli americani
dell’intera divisione elettronica e la fine del sogno) e 2°, alla difficoltà di
invertire la rotta rispetto alla deriva neo-liberista che, per sua
natura, considera il lavoro come puro strumento del profitto e i lavoratori, di
conseguenza, come semplici costi da ridurre al massimo.
Il settore call center sembra rappresentare il tragico apripista di
quella “moderna normalità” lavorativa che si avvicina più alle
passate condizioni di lavoro della prima rivoluzione industriale di due secoli
fa che non al lavoro come equilibrio tra profitto, democrazia e
giustizia sociale di olivettiana utopia.
Per questo, analizzare le condizioni di lavoro in questo settore è
un’operazione che va oltre il settore stesso, tanto più che le dichiarazioni
rese da Draghi rispetto alla ipotetica ripresa post-pandemia, sebbene non
ancora ben definite, non lasciano troppe speranze circa la necessaria
attenzione al mondo del lavoro e alle necessarie modifiche migliorative se si
vuole una possibile conciliazione tra vita e lavoro recuperando dignità e
diritti.
Può l’uomo che incarna l’oligarchia avere la
necessaria sensibilità verso il mondo del lavoro? La risposta più logica
sarebbe no. Per definizione. Come sarà utilizzato il recovery
fund ci darà risposta inequivocabile e definitiva a questa domanda.
E’ fuori discussione che i governi precedenti hanno portato al disastro, ma
il “salvatore della patria” non ha ancora dato alcun cenno che possa far ben
sperare. Ha parlato di moneta intoccabile e di europeismo come cardini su cui
poggiare il programma di governo. Ha anche detto che non tutte le imprese, e
quindi i loro occupati, saranno salvabili. Ha lanciato solo segnali, ma
sembrano ben lontani da quel concetto di “fabbrica che non può guardare solo
all’indice dei profitti. Ma deve distribuire ricchezza, cultura, servizi,
democrazia” come diceva Olivetti e lo dimostrava. “Io penso alla fabbrica per
l’uomo, non l’uomo per la fabbrica” aggiungeva, e anche questo lo dimostrava.
Per concludere, prendiamo a prestito le parole con cui Cadigia Perini
chiude il suo documento sui call center invitando ad un’azione
sindacale unitaria, ad una mobilitazione nazionale che non si riduca a inutili
tavoli di concertazione e immaginiamo che questa possa essere la richiesta
proveniente da tutto il mondo del lavoro. Una richiesta non corporativa ma
unificata e consapevole, in grado di capire e quindi di agire affinché l’uomo
che incarna la finanza non possa non tener conto che la stessa finanza, se si
mortifica il lavoro fino a distruggerlo, diventa una bolla che può solo
scoppiare. È questione di tempo. Anche un liberista lo sa, non solo un
socialista liberale quale Draghi, comunque, non sembra proprio poter
essere, con buona pace di chi ha provato a definirlo tale.
La Grecia può fornire referenze in proposito.
[1] L’intero documento cui si fa riferimento in queste righe si può
leggere in www.rifondazione.it/primapagina/?p=45723
Articolo pubblicato anche su L’antidiplomatico
Nessun commento:
Posta un commento