Yvy è malata. Yvy, che nella lingua guaraní significa la “Nostra Terra”, soffre per la crudeltà e la mancanza di rispetto degli uomini che la abitano, così come un corpo soffre se è attaccato da un virus. Ñande Ru Guasu, il Nostro Grande Padre, creatore del cielo, della foresta e dei corsi d’acqua, prima di ritirarsi in un luogo sperduto, inaccessibile anche alla stessa fantasia dei suoi figli, aveva affidato Yvy al popolo guaraní e ai suoi Paí, gli sciamani, affinché si prendessero cura di lei. La terra donava la vita ai suoi figli. I suoi figli, rispettando il Teko Porã, il corretto modo di vivere, amavano e restituivano vita alla terra. Così è stato per tanto tempo. Poi è arrivato l’uomo bianco.
Il genocidio che
si sta compiendo verso il popolo guaraní è cominciato con
il furto della loro terra in nome di quel processo chiamato “sviluppo
economico capitalista” i cui nefasti effetti, non ultimi i cambiamenti
climatici, li stiamo soffrendo anche noi che viviamo dall’altra parte del
globo. Comprare, recintare, devastare, mercificare la terra, l’acqua, l’aria,
il vivente per un indigeno guaraní, più che una ingiustizia o una bestemmia, è
un’assurdità. “Sappiamo che vogliono la nostra terra. Sappiamo che
sono pronti ad ucciderci per questo – ha spiegato in una
intervista il cacique Ladio Veron –. Non capiamo però lo
scopo. Se la terra muore, moriranno tutti gli uomini e quindi anche
loro. È il demone del male che guida le loro azioni. Perché non se ne
rendono conto?”
Siamo nel
sud del Brasile, nello Stato del Mato Grosso, ai confini col Paraguay. All’arrivo
dei primi colonizzatori, il popolo guaraní fu uno dei pochi
dell’Amazzonia a non sottomettersi a spagnoli e portoghesi e a rifiutare gli
insegnamenti dei gesuiti al loro seguito. I guaraní kaiowa, uno dei tre
sottogruppi linguistici in cui si dividono, decisero di ritirarsi nella
foresta. Fu la decisione giusta. Degli altri gruppi indigeni che scelsero di
venire a patti con i cosiddetti conquistadores – ma sarebbe
più corretto chiamali “invasori” – oggi non è rimasto neppure un vocabolario.
E per
qualche secolo, la grande foresta amazzonica offrì rifugio al popolo guaraní.
Quelle terre difficili non solo da coltivare o da vivere ma anche da
attraversare, all’inizio, non erano appetibili per l’uomo bianco. Ma lo
“sviluppo economico” è una bestia che non è mai sazia. La terra
ancestrale, da disboscare per monetizzare il legname e poi da adibire a
culture intensive, faceva sempre più gola agli uomini bianchi che si
stringevano ai confini delle riserve. I guaraní furono relegati in spazi
sempre più stretti. Le grandi foreste venivano abbattute
per favorire le monoculture della canna da zucchero e dell’etanolo che
regalavano immense ricchezze a pochi latifondisti, sfruttamento e umiliazioni
ai lavoratori, fame, miseria e disperazione a tutti gli indigeni.
Nel 2010,
una legge dello Stato brasiliano deportò definitivamente i guaraní in sorte di
“riserve indigene” che altro non erano che
delle vere e proprie baraccopoli. Lo scopo dichiarato era quello di
“preservare la popolazione indigena e la sua cultura” ma il vero obiettivo era
quello di rubare loro anche le ultime terre mercificabili dai latifondisti o
dalle multinazionali dell’estrattivismo, il
nuovo business, che avevano individuato nell’Amazzonia gli ultimi giacimenti
fossili di un pianeta oramai quasi prosciugato di ogni sua risorsa.
I guaraní
furono allontanati a forza dai loro villaggi e rinchiusi in favelas senza
accesso all’acqua potabile, senza assistenza medica, senza l’istruzione dei
bianchi e privati anche dei luoghi sacri in cui veniva tramandata la tradizione
indigena. Il popolo guaraní non aveva più una Yvy con la quale vivere e
rapportarsi.
L’esodo del
2010 era stato accuratamente preparato da un decennio di inaudite violenze
commesse nei loro confronti da milizie private, e talvolta anche militari,
pagate dai latifondisti con l’appoggio incondizionato dei partiti di destra e
senza troppo opposizione da quelli di sinistra. Stupri, torture,
sparizioni forzate, rapimenti di bambini, omicidi di oppositori, incendi di
interi villaggi, distruzione dei luoghi e dei beni sacri con i quali gli
sciamani guaraní tramandavano la cultura indigenza.
Marcos
Veron, padre del sopracitato Ladio Veron, e tantissimi altri rappresentanti
del popolo guaraní che avevano avuto il coraggio di denunciare
al mondo l’assalto dei latifondisti al suo popolo furono uccisi
barbaramente. E dove non arrivava la violenza, arrivava l’alcol. I lavoratori guaraní venivano pagati, sino a che riuscivano a
lavorare, con bottiglie di rum di scarsa qualità creando una
dipendenza che non aveva cura. Secondo la denuncia di associazioni internazionali per i diritti umani, i latifondisti arrivarono anche a
distribuire, con la connivenza del governo federale, giocattoli
contaminati da virus influenzali, morbillo e vaiolo, infettando così
volutamente interi villaggi. E aids attraverso prostitute infette non
indigene (Cataleta, La violenza genocidaria oltre la dimensione
culturale. Il caso dei guaraní kaiowà in Maniscalco e
Pellizzari, Deliri culturali, L’Harmattan italia, 2016).
Secondo un rapporto del Cimi, il Conselho Indigenista
Missionário, tra il 2003 ed il 2013 più di 300 leader indigeni furono
assassinati. Altri rapporti di organizzazioni non
governative puntano il dito sulla polizia federale e la polizia di Stato che in più occasioni si
sono messe al servizio dei proprietari terrieri, i quali avrebbero anche
corrotto membri del governo e della Corte suprema federale. Quasi tutti i
procedimenti penali infatti, sono stati archiviati e le inchieste volte alla
individuazione dei responsabili delle violenze non hanno mai portato a nulla.
Era la prova
generale di uno sterminio annunciato. Uno sterminio che il mondo
intero sta rimanendo, muto, a guardare.
A ben
vedere, quando nel 2019 arrivò al potere Jair Messias Bolsonaro, la
porta per il genocidio era già spalancata. Il nuovo presidente del
Brasile ci mise del suo e, con buona volontà, si fece carico di
mantener tutto quello che aveva promesso in campagna elettorale: smantellò ogni
forma di assistenza alle popolazioni indigene, coprì ed incoraggiò le violenze
delle milizie, supportandole con l’impiego di forze militari federali,
legalizzò le attività illecite che le multinazionali dell’estrattivismo avevano
già avviato in aree protette, abrogò le leggi che tutelavano i popoli nativi,
incrementò la deforestazione, ignorò semplicemente la Dichiarazione di Brasilia
che protegge le minoranze indigene.
Senza timore
di essere tacciato di razzismo, Bolsonaro ha più volte alluso alla presunta
inferiorità dei popoli indigeni perché osano opporsi al dio
dello “sviluppo economico”. Se i brasiliani sono poveri, spiega l’ineffabile
Bolsonaro, la colpa è tutta degli indigeni che impediscono di monetizzare le ricchezze dell’Amazzonia. Il nuovo
ordine mondiale, la bufala dei cambiamenti climatici, le potentissime lobby
internazionali per i diritti dell’uomo… tutto complotta a favore dei guaraní.
Nel 2005, il futuro presidente del Brasile affermò: “Gli indigeni non parlano la
nostra lingua, non hanno denaro né cultura. Sono soltanto popoli nativi. Come
hanno fatto a ottenere il 13 per cento del nostro territorio nazionale?” Una
prospettiva che fa eco a quanto sottolineò nell’aprile del 1998, da parlamentare: “È davvero un
peccato che la cavalleria brasiliana non sia stata efficiente quanto quella
americana nello sterminare gli indigeni”.
Greenpeace e le altre organizzazioni che
difendono l’ambiente e il diritto alla terra dei popoli originari, sono testualmente bollate come “porcheria e
spazzatura” e
accusate di appiccare incendi solo per il piacere di affibbiare la colpa a lui
ed ai suoi amici che, al contrario, si impegnano per il bene dei brasiliani.
Quelli veri.
Possiamo
parlare di un vero e proprio genocidio nei confronti del popolo guaraní? Lo abbiamo chiesto all’avvocata
Maria Stefania Cataleta, impegnata nella difesa dei diritti umani e ammessa
al patrocinio innanzi alle giurisdizioni penali internazionali come la Corte
Penale Internazionale. La domanda non è retorica. Secondo la Convenzione di New York del 1948, il riconoscimento di un genocidio
in atto implica l’obbligo di intervenire a livello internazionale perché si
tratta di un crimine sottoposto alla Legge delle Nazioni che esula dalla
competenza delle giurisdizioni interne.
“Il
genocidio è essenzialmente un crimine di Stato perché viene perpetrato
dagli stessi vertici politici e militari della nazione che, in
primis, dovrebbe giudicarli e condannarli – spiega l’avvocata Cataleta –.
Simili circostanze assottigliano notevolmente la sfera di punibilità dei
responsabili di genocidio e rende difficile un intervento esterno.
Alla base del genocidio c’è sempre uno Stato totalitario che innesca lo
sterminio di massa sulla base di parametri oramai consolidati e
studiati. Il regime attualmente in vigore in Brasile sembra sfuggire a
parametri democratici e per questo favorisce politiche di emarginazione
ed estinzione dei popoli indigeni dell’Amazzonia. La mia opinione è quindi
che si possa parlare senza mezzi termini di genocidio nei confronti del
popolo guaraní”.
Quali sono
questi parametri che ritroviamo in tutti i genocidi accaduti su questa Terra?
“La disumanizzazione, in
primis. Vale a dire la negazione all’altro nella classificazione di
umano; tale è il meccanismo psicologico che facilita la rimozione di ogni
barriera simbolica e agevola l’azione distruttrice. Il processo di
disumanizzazione separa l’essere umano dall’altro, visto come estraneo e
temibile, e giustifica l’omicidio di massa. Ma il processo
genocidario non si arresta qui poiché necessita di un supporto
probatorio atto a corroborare l’intento distruttivo. Mi spiego: alla base
di un genocidio c’è sempre un meccanismo di proiezione che vede
nell’altro il responsabile delle debolezze del carnefice e la sua messa in
pericolo. Il genocidio diventa allora una sorta di legittima difesa.
Si innesta una teoria del complotto, che è una costante di tutti i
regimi totalitari, che considerare una minoranza come l’origine di tutti i suoi
mali in una sorta di messianismo delirante”.
Una
descrizione che combacia in pieno con le farneticazioni di Bolsonaro.
“Già.
Confinati nella foresta amazzonica, lontani dal mondo così detto ‘civilizzato’, i
popoli indigeni sono considerati incapaci non solo di integrarsi e di
partecipare allo sviluppo sociale, ma addirittura accusati di ostacolarlo.
Ecco il meccanismo attraverso il quale se ne giustifica l’eliminazione. L’uso
offensivo di pesticidi, battericidi, medicamenti e veleni, che sta uccidendo
l’Amazzonia e i suoi popoli originari, si colloca esattamente in quest’ottica
purificatrice. La vittima è vista come un essere malato da ‘guarire’ a
tutti i costi o come animale infimo e disgustoso, come il ratto nella
retorica nazista o la blatta in quella del genocidio ruandese. Quello che
sta accadendo ai guaraní, lo abbiamo già visto molte volte nella storia”.
E non
abbiamo imparato niente.
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