Un giorno di novembre, quando il sole splendeva e credevo nella rivoluzione, ho preso la decisione di adottare un cane. Il cucciolo è arrivato un mese dopo, in una giornata scura in cui, anche se il cambio di paradigma si stava verificando (ne sono sicuro), era più difficile credere nella rivoluzione. Il cane è arrivato all’alba, in un sacco rosso, portato da un uomo con la voce delicata e le mani segnate dal freddo. La prima cosa che ho sentito, ancora prima di vedere il cucciolo, è stato il suo odore: torta alla cannella. Forse i proprietari della madre, Isabella, avevano preparato una torta per Natale e il sacco si era impregnato dell’aroma. Questo è e sarà sempre il mio primo ricordo di lui. Un odore zuccherato emanato da un sacco rosso. Immagino che anche per lui io sia stato innanzitutto un odore, prima di essere una forma, una figura, un colore e una voce.
Ora sento che l’operazione di innesto umano-cane si sta svolgendo nella mia
struttura soggettiva. A volte lo percepisco dolorosamente, come se si trattasse
dell’impianto di un organo estraneo al mio corpo, come un’invasione di un’altra
specie nel mio tessuto umano. La resistenza alla simbiosi politica si manifesta
sotto forma di stress, di dolore alla nuca, d’incapacità di fissare il mio
sguardo, di tensione nelle dita dei piedi e delle mani, di rumore sordo nel
petto dopo un sospiro. Non posso pensare, non posso dormire, non posso fare
nulla.
Lo nutro, pulisco i suoi escrementi, lo bacio, lo porto fuori, lo chiamo,
gli lancio piccoli pupazzi a forma di cono gelato o palla di neve che mi
riporta aspettando che io cerchi di strapparglieli dai denti, lo ricompenso, lo
accarezzo, metto la mano nella sua cesta perché possa dormire tranquillo. Ma
l’impianto non è ancora completo. Tutto ciò che sento è la paura che i miei
contorni individuali si cancellino. La paura di non sapere occuparmi di
un’altra vita che non sia la mia. Prendersi cura non è semplicemente “figo”.
Rende folli. È per questo che i potenti evitano di farlo, per non mettere in
gioco la propria soggettività, per non compromettere la loro sovranità.
Resistenza e amore
Il mio cervello si è trasformato in una gelatina che vibra nella mia testa. A
volte la resistenza all’innesto di quest’altro essere nella mia struttura
soggettiva è così forte che, lo confesso, sono stato attratto dalle finestre
aperte, dai coltelli disposti simmetricamente nei cassetti, dal tromba delle
scale, dagli autobus che non si fermano al passaggio dei pedoni, dai flaconi di
sonnifero, dai muri e dalla loro durezza implacabile davanti alla fragilità di
un cranio, dalla possibilità di entrare così in profondità nel mio cervello da
dimenticarmi di respirare.
Ancora non provo amore per lui. Mi dico che è bello, con il suo pelo nero e
bianco, ma è un’osservazione estetica. Non c’è amore. Forse un giorno, se
l’impianto avrà successo, sarò un essere umano con un cane. Ma per il momento
sono un essere
umano solitario e spaventato che si occupa di un cucciolo. Non siamo ancora
integrati.
Penso che sia come quando ho collegato la vecchia stampante al nuovo
computer: il computer l’ha riconosciuta, l’ha chiamata con il suo nome, ha
installato il programma; la stampante ha riconosciuto che c’era un computer
all’altro capo del cavo, emettendo un piccolo ronzio e facendo lampeggiare una
luce verde diverse volte. Ma quando ho schiacciato il bottone per la stampa,
anche se l’ingranaggio si è mosso e lo schermo del computer ha annunciato la
stampa in corso, le pagine sono uscite bianche. Come se la stampante si fosse
rifiutata di prendere ordini dalla nuova rete a cui era stata collegata senza
preavviso. Anche le macchine elettroniche hanno bisogno di dare il loro
consenso. È come se, in una sorta di relazione elettro-sessuale, la stampante
dovesse dire “so che tu sei il mio computer e sì, lo voglio”, e il computer
dovesse rispondere “ti riconosco come mia stampante e sì, lo voglio”. Sta
accadendo a me in questo momento. Il cane è io siamo stati collegati l’uno all’altro,
ci siamo riconosciuti, ma non possiamo stampare una pagina insieme. La pagina
della nostra vita comune è ancora bianca.
Immagino che accada lo stesso quando si fa un figlio, anche se i genitori
non ne vogliono parlare. La pressione sociale sulla riproduzione è talmente
forte che niente è più ricompensato e meglio percepito dell’arrivo di un nuovo
corpo umano in una cellula familiare. Eppure questa relazione – segnata dalla
vulnerabilità di un corpo sprovvisto di diritti politici (lattante o animale da
compagnia, anche se in gradi diversi) davanti all’adulto – è potenzialmente
intrisa di violenza.
Nei miei sintomi di rigetto del trapianto di un’altro essere nella mia
struttura soggettiva riconosco le storie che ho sentito raccontare sui genitori
e i loro bambini. Alla mia nascita mia madre è entrata in coma e non ha potuto
occuparsi di me per sei mesi. Non è che si rifiutasse di stampare pagine. Semplicemente
il suo sistema operativo non ha funzionato, e ha preferito dichiarare un blocco
generale piuttosto che integrare un altro essere nella sua struttura
soggettiva. In seguito abbiamo avuto difficoltà a stampare pagine insieme, e
soltanto negli ultimi due o tre anni abbiamo cominciato a riuscirci.
Una nascita implica sempre un’adozione. Un’adozione è sempre un impianto.
Probabilmente sto ripetendo questa storia con il cane. Vivendo questa
esperienza scopro il terrore che mia madre deve aver provato, ma sento anche
l’estraneità che ho sentito quando sono venuto al mondo. La nascita è un
esilio. Non c’è nazione, c’è solo peregrinazione. Perché la realtà in cui siamo
stati concepiti ci è così estranea? Un rapporto è sempre la creazione di una
comunità politica. La possibilità di un rigetto immunitario. Il rischio di una
frontiera. L’opportunità di un abbraccio.
Presto, magari, sarò un essere umano con un cane. Ma per ora sono soltanto un
essere umano spaventato. Che la mia memoria trovi tutte le tracce che portano
al cammino della vita. Che le leggi della fisica quantistica facciano tutto ciò
che è in loro potere per me e per lui, per noi. Che la corrente sia stabilita.
Che l’affetto lenisca le ferite aperte dall’impianto. Che la nostra storia
comune cominci a scriversi. Sì, lo voglio.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
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